potere e movimenti/3
Mediterraneo, America Latina e Sudafrica
di Antonio Senta
Anche nei paesi non occidentali, in apparenza meno colpiti dall'ultima crisi economica, la lotta di classe dei ricchi contro i poveri è ugualmente dispiegata. E dalla Turchia all'Egitto, dal Sud America al Sudafrica esplodono le proteste.
“Tutto il mondo sta esplodendo...”
Canzoniere Pisano (1971)
La parte occidentale del mondo,
scrivevo nel n. 383,
ha visto negli ultimi decenni affermarsi politiche di austerity,
espressione di quella lotta di classe dei ricchi contro i poveri,
contro cui si sono alzate proteste di diversa entità.
Di alcune di queste ho sommariamente scritto
nel n. 384 (novembre).
Questa tendenza si riscontra in molti altri paesi non occidentali
che presentano caratteri economici diversi, e in alcuni casi
anche una crescita sostenuta, stando ai criteri relativi al
prodotto interno lordo. Paesi che i media descrivono come assai
meno colpiti dalla crisi rispetto all'Europa o agli Stati Uniti,
ma dove la lotta di classe dei ricchi contro i poveri è
ugualmente dispiegata. Più che di crisi dovremmo probabilmente
parlare allora di trasformazione dei processi internazionali
di accumulazione del capitale, laddove il capitale per vivere
– cioè per produrre, sfruttare e ricavare profitto
– deve necessariamente modificarsi, aggredendo sempre
nuovi e ulteriori spazi, materiali e immateriali. A tale politica
di espansione ampi movimenti popolari rispondono con quelle
mobilitazioni e proteste che abbiamo visto in azione negli ultimi
anni e mesi.
Il popolo di Taksim
La Turchia dal maggio del 2013 è teatro, nella quasi
totalità delle sue province, di una estesa e complessa
sollevazione popolare, contro la crescente oppressione, la censura,
le restrizioni, lo sfruttamento sempre più selvaggio,
caratterizzata da una partecipazione di massa che di fatto emargina
avanguardie e burocrazie politiche. Secondo le stime della polizia,
sono circa due milioni e mezzo le persone che nei mesi scorsi
sono scese nelle strade, in gran parte giovani digiuni di partecipazione
politica, a indicare una significativa pluralità, anche
in termini di classe (cfr. Fazila Mat, Il popolo di Taksim,
Un caleidoscopio di voci, balcanicaucaso.org e Dario Antonelli,
Terra bruciata, “Umanità Nova”, 23
giugno 2013, p.1).
I manifestanti mettono in campo un insieme di pratiche di resistenza,
anche creative e ironiche, con in prima fila, spesso, le donne
pronte ad alzare la testa (Buyun Egme! questo lo slogan
di molte di loro) contro una società apertamente maschilista
(Sara Datturi, Le donne di Istanbul alzano la testa,
“Il Manifesto”, 5 giugno 2013, p. 9). A settembre
il movimento è ancora in pista, la lotta contro la devastazione
del parco cittadino di Taksim si è trasformata in un
movimento di protesta contro un progetto che prevede la costruzione
di due grandi strade nelle vicinanze dell'Università
Tecnica del Medio Oriente (Odtü) che dividerebbero in due
il campus che si trova all'interno di un'estesa area verde e
forestale, distruggendo oltre 7000 alberi (Dario Antonelli,
Settembre rovente. Turchia si riaccende la protesta,
“Umanità Nova”, 22 settembre 2013, p. 1).
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Rio de Janeiro, dimostranti in corteo: “Finché
il popolo non sarà trattato con giustizia non ci sarà pace” |
Brasile, Cile, Colombia...
Cambiamo emisfero. Il Sud America è un continente in
mobilitazione, dove l'accumulazione attraverso lo sfruttamento
umano e ambientale procede a ritmi serrati, spesso anche grazie
alla legittimità popolare di cui godono i governi progressisti,
che nella loro azione stanno incorporando alcune istanze dei
movimenti (a volte attraverso una effettiva anche se parziale
redistribuzione della ricchezza), neutralizzandone i caratteri
più antisistemici.
Pensiamo al Brasile di Lula, all'Uruguay di Tabaré Vasquez,
all'Argentina dei Kirchner, alla Colombia “bolivariana”,
al Venezuela di Chávez, all'Ecuador di Lucio Gutiérrez.
Dal cacerolazo venezuelano del 1989 attraverso la rivolta
dell'acqua di Cochabamba nel 2001 e la Comune di Oaxaca nel
2006, le popolazioni latinoamericane si sollevano e insorgono
in maniera regolare e continua influenzando in parte l'agenda
dei governi all'interno di un rapporto complesso di confronto,
scontro e cooptazione (cfr. Raúl Zibechi, Territori
in resistenza. Periferie urbane in America latina, Nova
Delphi, Roma, 2012).
Citiamo qui solo tre casi eclatanti e recenti.
In Cile nel corso del 2011 gli studenti danno vita a una campagna
di massa e radicale per il diritto all'istruzione gratuita,
mettendo in discussione la credibilità e le scelte ultraliberiste
del governo Piñera. Nonostante la repressione poliziesca
vari altri settori della società si uniscono alla protesta
e obiettivi sociali e ambientali si sommano e si confondono
in una serie di mobilitazioni che vanno dalle proteste contro
l'aumento del gas a Punta Arenas alle manifestazioni contro
le centrali idroelettriche dell'HidroAysén in Patagonia.
Lavoratori, disoccupati, comunità mapuche sono tutti
in piazza a dare battaglia contro il modello neoliberista, in
un'esplosione di rabbia contro un governo che difende gli interessi
delle imprese e le oligarchie al potere (cfr. ad esempio Hervé
Kempf, In Cile, la primavera degli studenti, “Le
Monde Diplomatique”, ottobre 2011, p. 1).
In Brasile i fatti sono noti: nel giugno 2013 un aumento dei
costi del biglietto dell'autobus, contestuale alle enormi spese
sostenute dal governo per l'organizzazione dei Mondiali di calcio
del 2014, provoca prima una serie di proteste e poi dà
il via a un'escalation di manifestazioni e cortei inizialmente
a San Paolo, poi a Rio de Janiero e infine in molte altre città.
I testimoni parlano di una mobilitazione estesa e radicata,
come dimostra il fatto che ancora a ottobre il paese è
attraversato da cortei e proteste di vari settori sociali, tra
cui gli insegnanti e i lavoratori del mondo della cultura.
In Colombia dal 19 agosto 2013 vari settori sociali tra i quali
quello dei contadini e degli allevatori, ma anche degli autotrasportatori
e dei lavoratori nella sanità, sono i protagonisti dell'ondata
di scioperi più estesa degli ultimi vent'anni. Nel mirino
sono gli effetti deleteri dei trattati di libero commercio e
l'aumento del prezzo del carburante (per approfondire si può
partire da: Gerardina Colotti, Sciopero agrario a oltranza
e Sciopero generale a oltranza, “Il Manifesto”,
22 e 31 agosto 2013; La Rivoluzione della ruana, www.operazionecolomba.it/colombia/1675-la-rivoluzione-della-ruana.html)
Egitto e Tunisia
Tanto si è scritto sulle rivolte che stanno scuotendo
gran parte del mondo mediterraneo, penisola araba compresa.
Una fase di fibrillazione sociale che fa pensare, tenuto contro
di tutte le differenze, a un nuovo '48, cioè a quelle
ribellioni e insurrezioni popolari che scossero l'Europa a metà
dell'ottocento da Dresda a Berlino, da Roma a Lione. Su questo
mi permetto di fare riferimento al mio articolo pubblicato sul
n. 379 della rivista (Nel mezzo del cammin...) il cui
schema interpretativo mi sembra sempre valido. Le primavere
arabe hanno dei caratteri comuni tra cui la giovane età
di molti partecipanti e l'esistenza di problemi sociali ed economici
di enorme grandezza (Pierre Sommermeyer, La modernité
à l'assaut du monde arabe, “Réfractions”,
primavera 2012, p. 22). Se in un primo momento le rivendicazioni
religiose erano sostanzialmente assenti e i gruppi politici
legati a personalità religiose rivelavano un atteggiamento
attendista, ora il quadro è indubbiamente mutato e autorità
religiosa e potere militare, nemici di sempre delle istanze
di rinnovamento, si manifestano apertamente. La difficile lotta
per migliori condizioni di vita e contro regimi oppressivi delle
libertà fondamentali prosegue in una via stretta tra
questi due fuochi.
In Egitto, l'esercito, forte del supporto statunitense (che
gli versa 1,3/1,5 miliardi di dollari annui), ha utilizzato
strumentalmente nuove proteste popolari scalzando gli islamisti
al governo. I “nuovi” generali al potere, al vertice
di una struttura militare che ha in mano il 35 per cento dell'economia,
sono fautori di un modalità di governo non meno oscurantista
di quello di cui hanno dato prova i Fratelli musulmani.
In Tunisia invece le forze pulsanti della società che
stanno dando vita a un processo rivoluzionario pronto a vivere
nuove fasi hanno come primi nemici della propria liberazione
gli islamisti al governo.
Mi sembra curioso il fatto che molti commentatori, che hanno
abbracciato con entusiasmo la causa delle rivoluzioni arabe
nel 2008, oggi le rigettino con decisione perché le proteste
sarebbero state strumentalizzate dalle forze islamiste o militari.
Il punto, penso, è che ci sono forze contrapposte in
campo: alcune si mobilitano per una trasformazione sociale,
più o meno radicale, altre utilizzano strumentalmente
tali mobilitazioni e si fanno trovare pronte alla gestione del
potere, ricalcando le precedenti politiche dittatoriali contro
cui le popolazioni si erano ribellate.
Da una parte ci sono i lavoratori del tessile che hanno per
primi piantato le tende in piazza Tahrir nel 2006, dall'altra
prima i leader dei Fratelli musulmani e poi i generali dell'esercito.
Così in Tunisia: da una parte i venditori ambulanti,
gli occupanti di case e le donne, dall'altra i vertici di Ennhada
che hanno occupato la poltrona che era di Ben Alì.
Quindi tanto in Egitto quanto in Tunisia i frutti della liberazione
non si trovano nelle strutture di governo, ma nelle abitudini
e nell'immaginario collettivo di gran parte della popolazione,
così come nella creazione di gruppi e movimenti che hanno
nella partecipazione diretta la propria caratteristica (Per
qualche osservazione, parziale, sulla situazione in Tunisia,
cfr. Uno spaccato a due anni dalla caduta di Ben Alì,
“Invece”, p. 9; Philippe Pelletier, El auge del
movimento anarquista en Túnez, “Tierra y Libertad”,
p. 16).
Conflitto sociale esteso
Andiamo, infine, in Sudafrica, paese il cui prodotto interno
lordo cresce nel 2013 quasi del 5 per cento. Qui il massacro
di Marikana dell'estate 2012 e la mobilitazione dei minatori
(cfr. nn. 375-376
della rivista) sono l'iceberg di un conflitto sociale esteso
anche ad altre categorie.
A più di un anno di distanza le agitazioni per il lavoro
non si fermano: a esserne protagonisti sono ancora i minatori
a cui si aggiungono, ora, gli operai delle industrie automobilistiche,
delle compagnie aeree e del settore edile. A inizio settembre
2013, ad esempio, mentre si conclude vittoriosamente un grande
sciopero degli operai impiegati nelle industrie di assemblaggio
delle grandi compagnie automobilistiche con aumenti salariali
del 30 per cento, scendono in mobilitazione gli addetti alle
riparazioni e i benzinai delle stazioni di servizio, in tutto
circa trecentomila lavoratori.
In generale gli scioperi e le agitazioni coinvolgono centinaia
di migliaia di lavoratori, ottengono spesso aumenti salariali,
e preoccupano non poco padroni e governo tanto che sui media
sudafricani continuano a comparire articoli che analizzano i
danni materiali e di immagine che gli operai arrecherebbero
al paese (cfr. mg.co.za).
Antonio Senta
Le due precedenti puntate di questa serie di Antonio Senta
su “potere e movimenti” sono apparse nei numeri
di ottobre (“A” 383 - La
lotta di classe dei ricchi contro i poveri) e novembre (384
- Volontà di rivolta). |