Antropologia, un sapere di frontiera
Le frontiere, materiali o mentali,
di calce e mattoni o simboliche,
sono a volte dei campi di battaglia,
ma sono anche dei workshop
creativi dell'arte del vivere insieme,
dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente
o meno)
i semi di forme future di umanità.
Zygmunt Bauman
L'antropologia è un sapere
di frontiera perchè oltrepassa i confini culturali e
statali, perché rifiuta le certezze del mondo di cui
è espressione per aprirsi ad altri mondi, ad altre esperienze
di significato, un sapere che non può mai stare fermo.
Questa sua caratteristica l'avvicina immediatamente a una delle
priorità del pensiero libertario ovvero quella della
negazione dei confini, della convinzione che le frontiere sono
fatte per essere scavalcate.
L'antropologia è un sapere che sta sulla frontiera: sulla
linea di incontro fra tradizioni intellettuali e modi di pensare
tra culture diverse. Compito dell'antropologia è gettare
un ponte tra queste culture. (Fabietti, 99).
Un sapere quindi che nasce sulla frontiera tra culture diverse,
questo essere tra e sulla frontiera le conferisce delle caratteristiche
particolari, non ultima quella di essere un sapere meticcio,
in cui le idee di coloro che la praticano sono largamente influenzate
da quelle di coloro che ne costituiscono l'oggetto.
L'antropologia è sicuramente un sapere critico anche
grazie a questo suo posizionamento particolare tra culture.
Un sapere che nasce in una zona caratterizzata dal contatto
con molteplici forme di espressività pratica e intellettuale.
L'antropologia però è anche una frontiera, perché
essa esprime il limite della cultura che l'ha vista nascere,
perché si è sviluppata in zone di contatto e perché
si pone come sapere mobile, sempre disposto a riformulare i
propri parametri sulla base delle nuove esperienze, suscettibili
di produrre nuove interpretazioni. Quindi è un sapere
che sta sulla frontiera: sulla linea di incontro fra tradizioni
intellettuali e modi di pensare tra culture diverse.
Prima di tutto questo sapere antropologico è esperienza
della diversità culturale, è ricerca sul campo.
È comprensione dell'alterità, è attraversamento
del contesto fatto di altri esseri umani in cui l'antropologo
deve effettuare delle scelte paradigmatiche, e in questi luoghi,
in questi momenti di riflessione deve mettere in atto strategie
di ricerca.
In questi contesti possiamo notare la forza dell'antropologia,
che è un sapere in grado di attraversare mondi tra loro
differenti, di mettere in discussione se stesso, misurandosi
continuamente con l'alterità. Il pensare criticamente
al modo nel quale si pensa; il riflettere sulla propria esperienza
è fondamentale per disconoscere un'identità di
ferro legata solamente al nostro ambiente culturale e territoriale.
L'antropologo cerca di mettere in discussione il proprio sapere
e la tradizione di pensiero di cui quel sapere stesso è
il prodotto.
Per questo è per lui fondamentale il dubbio, che consiste
nell'essere “tra due mondi”, quello della propria
tradizione intelletuale e quello che si costituisce a partire
dalla consapevolezza che il mondo da cui si proviene non è
l'unico possibile.
Da questo dubbio nasce una possibilità di mettersi in
prospettiva. Gli antropologi hanno il compito di trasmettere
e ampliare proprio questa possibilità di mettere in prospettiva
le rappresentazioni culturali del soggetto. Criticarsi, pensare
l'alterità, non assolutizzare le nostre idee non significa
promuovere un generico relativismo, ma, leggere criticamente
il mondo presente, decondizionando lo sguardo dall'esperienza
culturale del soggetto per rendere familiare ciò che
è estraneo e insolito a ciò che è familiare.
Il tentativo di comprensione dell'altro diviene dialogo quando,
interrogandosi sui fondamenti e sulla natura delle conoscenze
antropologiche, si osserva come queste prendano forma in precise
condizioni sociali di incontro tra saperi locali e sapere “globale”
o “universale” (Kilani, 97), caratterizzate spesso
da ineguaglianza sociale oltre che distanza culturale. Ormai
da anni Francesco Remotti nelle sue pubblicazioni ci mostra
efficacemente come non dobbiamo avere paura di decostruire le
nostre identità, bisogna andare oltre l'identità,
“il primo passo che occorre compiere è esattamente
quello di uscire da una logica puramente identitaria ed essere
disposti a compromessi e condizioni che inevitabilmente indeboliscono
le pretese solitarie, tendenzialmente narcisistiche e autistiche
dell'identità. Uscire dalla logica identitaria significa
inoltre essere disposti a riconoscere il ruolo formativo, e
non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell'alterità”
(Remotti, 2001). Altro aspetto importante dei suoi studi è
la necessità di riconoscere che l'antropologia è
si il pensare e descrivere l'alterità, gli “altri”,
ma che questa non è una prerogativa esclusiva della cultura
occidentale moderna. Anche gli “altri”, i popoli
o le culture incontrate e descritte dagli antropologi, dispongono
di forme di concettualizzazione e di definizione dell'uomo,
degli altri uomini, delle loro e altrui culture. In questo senso,
il sapere dell'antropologo dovrebbe assumere non tanto la caratteristica
di un sapere di “noi” sugli “altri”,
quanto piuttosto di un campo in cui si intersecano e interagiscono,
dialogando tra loro, la nostra antropologia e le antropologie
degli “altri”. Dialogando con l'alterità
travalichiamo le frontiere e rendiamo sempre più attuale
quello che Pietro Gori scriveva nel lontano 1895, ovvero che
la nostra patria è il mondo e dobbiamo continuare ad
affermarlo con forza e profondità nel dibattito culturale
e nelle lotte contro le frontiere nazionali per la costruzione
di un mondo di liberi ed eguali.
Andrea Staid
andreastaid@gmail.com |