pensiero anarchico
Il ruolo dello stato
di Colin Ward
con introduzione di Francesco Codello
Scuole private (magari “libertarie”) o scuola di stato?
E con che soldi? Obbligatorie o facoltative?
I temi affrontati in questo articolo uscito quarant'anni fa sono in buona parte ancora attuali.
E rileggere oggi l'architetto e intellettuale anarchico inglese è sempre stimolante.
Questo testo di Colin Ward (1924-2010) dal titolo The
role of the state è apparso in un libro di autori
vari (tra i quali va ricordato Ivan Illich), curato da Peter
Buckman del 1973 in Inghilterra, con il proposito già
evidente nell'intestazione, Education without schools.
In premessa occorre sottolineare due aspetti di contesto
importanti, per coglierne la portata e la validità, evitando
un approccio troppo ideologico. Il primo è appunto relativo
all'anno di pubblicazione, siamo agli inizi degli anni settanta
e Ivan Illich (1926-2002) ha da poco (1970) editato il suo testo
forse più famoso, Deschooling Society (Descolarizzare
la società, tradotto in italiano nel 1972) e la discussione
scaturitane è molto vivace e animata; l'altro è
che l'approccio al problema è tipicamente anglosassone
e quindi fortemente pragmatico.
Al netto di queste due semplici ma doverose considerazioni,
il saggio di Ward affronta in maniera pertinente e puntuale
una delle questioni cruciali in tema di organizzazione dell'educazione
e dell'istruzione in una prospettiva libertaria. Questo argomento
è particolarmente importante in Italia, dove il dibattito
sul sistema di istruzione e di educazione si è da sempre
focalizzato tra due prospettive inconciliabili e fortemente
ideologizzate: quella privatistica e quella statalista. A gestire
la scuola, quindi a determinarne i contenuti e le modalità
organizzative, dovevano essere o il privato (confessionale prevalentemente)
o lo stato (teoricamente neutro e assimilato al concetto di
pubblico). La prospettiva, che ormai sta caratterizzando decisamente
gli anarchici, è invece quella della gestione pubblica
ma non statale del sistema di istruzione. Ciò significa
che il carattere pubblico (aperto a tutti) dell'organizzazione
dell'apprendimento si deve coniugare con il rifiuto della confessionalità,
ideologica e religiosa, e, al contempo, consentire che la gestione
dello sviluppo educativo e di istruzione, veda una coordinazione
diretta e paritaria dei vari attori del processo stesso. Naturalmente
queste questioni sono di rilevante importanza e meritano una
disamina più approfondita e ampia di quanto non sia qui
possibile sviluppare.
Ecco perché questa saggio di Colin Ward si presta
così bene a introdurre una discussione e una riflessione
sulla gestione della scuola e offre l'occasione, a quanti lo
desiderino, di uscire dalle strettoie soffocanti, e per nulla
libertarie, di una discussione che accomuna trasversalmente
destra e sinistra, intorno a una presunta esclusiva alternativa:
o con il privato o con lo stato.
La storia delle esperienze di educazione libertaria peraltro
testimonia molto bene invece la ricerca di una prospettiva terza,
plurale, diversificata, sperimentale, di gestione dell'intero
sistema di istruzione e di educazione, in modi più coerenti
e conseguenti ai principi generali dell'antiautoritarismo. Le
varie esperienze attuali, che si ricollegano idealmente a questo
filone di pensiero, sono qui a dimostrare che questo non solo
è possibile ma anche necessario, se si vuole, assieme
ovviamente ad altre questioni (prima fra tutte quella dell'uscita
dalla logica adulto-centrica), realizzare una autentica educazione
libertaria.
Rileggere dunque questo testo di Ward, coniugandolo a tutte
le varie espressioni del pensiero della descolarizzazione (da
Paul Goodman a Ivan Illich, solo per citare i più noti
autori), riflettere criticamente sulla storia e l'attualità
di queste esperienze alternative, sperimentare qui e ora modalità
e pratiche ispirate a questa prospettiva, è il compito
che attende tutti coloro che, a vario titolo, sono interessati
e coinvolti nelle problematiche educative e dell'istruzione.
Una prospettiva libertaria non può mai accontentarsi
di farsi rinchiudere in logiche dualistiche, senza osare e tentare
di sperimentare altre soluzioni, che meglio avvicinino i nostri
valori coerentemente interpretati alla nostra vita quotidiana.
Francesco Codello
Come mai lo stato ha assunto
quel ruolo di primo piano?
Storicamente, in Gran Bretagna, la lotta per rendere l'istruzione
gratuita, obbligatoria, universale, e liberarla dall'esclusivo
controllo delle organizzazioni religiose fu lunga e aspra.
L'effettiva opposizione non veniva da critici libertari, ma
dai sostenitori del privilegio e del dogma nonché da
coloro (genitori e datori di lavoro) che avevano un interesse
economico nel lavoro minorile o uno inconfessato a favorire
l'ignoranza. L'Inghilterra, di fatto, arrivò in ritardo:
l'idea che l'istruzione dovesse essere gratuita, obbligatoria
e universale precede di molto il definitivo Education Act, che
fu approvato solo nel 1870.
Martin Lutero si era rivolto “ai membri del Consiglio
di tutte le città tedesche affinché fondassero
e tenessero in vita scuole cristiane”, osservando che
i giovani in corso di formazione si trovano a loro agio se si
cerca di “renderci migliori attraverso l'esperienza”,
un compito per il quale la vita intera sarebbe troppo breve,
ma che poteva essere semplificato un'istruzione sistematica
per mezzo dei libri.
L'istruzione obbligatoria e universale nacque nella calvinista
Ginevra nel 1536 e lo scozzese John Knox, discepolo di Calvino,
“fondò una scuola accanto a una chiesa in ogni
parrocchia”. Nel puritano Massachusetts l'istruzione elementare
obbligatoria fu introdotta nel 1647. Federico Guglielmo I di
Prussia rese obbligatoria l'istruzione elementare nel 1717 e,
in Francia, una serie di ordinanze di Luigi XIV e Luigi XV imposero
una frequenza regolare nelle scuole.
La scuola per tutti, nota Lewis Mumford, “contrariamente
al credo popolare, non è il tardivo prodotto della democrazia
del XIX secolo: essa svolgeva un ruolo indispensabile nella
formula meccanica dell'assolutismo (...) l'autorità centralizzata
riprendeva in ritardo l'opera che era stata trascurata con lo
smantellamento delle libertà municipali in gran parte
dell'Europa”. In altre parole, avendo soffocato l'iniziativa
locale, lo stato agiva secondo i propri interessi. Storicamente,
l'istruzione obbligatoria progredì non solo grazie alla
stampa, all'ascesa del protestantesimo e del capitalismo, ma
anche con lo sviluppo dell'idea stessa di stato nazionale.
Tutti i grandi filosofi razionalisti del XVIII secolo avevano
riflettuto sul problema dell'istruzione popolare e due tra i
più acuti pensatori si erano schierati sui versanti opposti
del dibattito sull'organizzazione della scuola: Rousseau
dalla parte dello stato e William Goodwin contro. L'Emilio
di Rousseau postula una formazione completamente individuale
(la società umana è ignorata e tutta l'esistenza
dell'educatore è dedicata al povero Emilio); ciò
nondimeno Rousseau, nel suo Discorso sull'economia politica
(1758), sostiene un'istruzione pubblica “basata su regole
stabilite dal governo... se i giovani sono educati nel seno
dell'uguaglianza, se vengono loro istillate le leggi dello Stato
e i precetti della Volontà Generale... Non possiamo dubitare
che nutriranno un reciproco affetto come fratelli... per diventare
a suo tempo difensori e padri del paese del quale sono stati
tanto a lungo i figli”.
Goodwin, nella sua Inchiesta sulla giustizia politica (1793)
critica nel suo insieme l'idea di una educazione nazionale.
Ne riassume gli argomenti a favore, che sono quelli utilizzati
da Rousseau, e solleva questo interrogativo: “Se l'educazione
dei nostri giovani fosse completamente affidata alla prudenza
dei genitori o all'occasionale benevolenza di privati, non sarebbe
una conseguenza necessaria che alcuni siano formati alla virtù,
altri al vizio, e altri ancora siano completamente trascurati?”
Vale la pena di citare completamente la risposta di Godwin,
perché si tratta dell'unica voce, alla fine del XVIII
secolo, che ci parla con gli accenti della descolarizzaizone
dei nostri giorni:
“Le piaghe provocate da un sistema di educazione nazionale
riguardano il fatto, in primo luogo, che tutte le istituzioni
pubbliche recano in sé un'idea di permanenza (...) l'educazione
pubblica ha sempre speso le proprie energie a sostegno del pregiudizio;
insegna agli allievi non la forza che sottopone ogni proposta
alla verifica di un esame, ma l'arte di riprendere i concetti
che siano già stati casualmente stabiliti (...) Anche
nella modesta istituzione delle scuole parrocchiali, le principali
lezioni che vengono impartite riguardano una venerazione superstiziosa
della Chiesa d'Inghilterra e l'ossequio a chiunque indossi una
giacca elegante...
In secondo luogo, l'idea di educazione nazionale si fonda su
una incomprensione della natura dell'intelletto. Qualsiasi cosa
faccia il singolo uomo per se stesso è ben fatta; qualsiasi
cosa decidano di fare per lui il suo prossimo e il suo paese
è mal fatta (...) Chi apprende perché desidera
apprendere, ascolterà le istruzioni che riceve e ne imparerà
il significato. Chi insegna perché desidera insegnare,
svolgerà il proprio compito con entusiasmo ed energia.
Ma il momento in cui l'istituzione politica decide di attribuire
a ognuno il proprio posto, le funzioni di ciascuno si svolgeranno
in modo supino e indifferente...
In terzo luogo, il progetto di un'educazione nazionale dovrebbe
essere uniformemente scoraggiato in ragione della sua evidente
alleanza con il governo nazionale (...) Il governo non mancherà
di sfruttarlo per rafforzare la propria mano e per perpetuare
le proprie istituzioni (...) La concezione che lo pone come
promotore di un sistema educativo sarà evidentemente
analoga al giudizio sulle capacità politiche di chi governa.”
|
Colin Ward |
Istituzioni gerarchiche e coercitive
I critici contemporanei dell'alleanza tra governo nazionale
ed educazione nazionale sarebbero d'accordo e dichiarerebbero
che la tesi dell'esistenza di un ruolo positivo dello
stato nel sistema educativo tradisce una totale incomprensione
dell'argomento in questione, che la natura delle autorità
pubbliche è di gestire istituzioni gerarchiche e coercitive,
la cui funzione ultima consiste nel perpetuare la disuguaglianza
sociale e di fare il lavaggio del cervello dei giovani perché
accettino il posto loro assegnato nel sistema organizzato.
Un secolo fa l'anarchico Bakunin caratterizzava “il popolo”
in relazione allo stato come “l'eterno bambino, l'allievo
che si confessa per sempre incapace di superare l'esame, di
arrivare al livello di conoscenze dei suoi insegnanti e di poter
fare a meno della loro disciplina”. Oggi aggiungerebbe
un'altra critica al ruolo dello stato come educatore in tutto
il mondo: l'affronto alla giustizia sociale. Uno sforzo immenso
di riformatori benintenzionati ha portato al tentativo di modificare
il sistema per assicurare pari opportunità, ma questo
ha prodotto soltanto una partenza alla pari, illusoria e puramente
teorica, in una competizione che spinge a diventare sempre meno
uguali. Quanto più grande è la quantità
di denaro riversata nei sistemi scolastici in tutto il mondo,
tanto minori sono i vantaggi per le persone al livello più
basso della gerarchia educativa, occupazionale e sociale. Il
sistema educativo mondiale finisce per essere un altro modo
con cui i poveri sovvenzionano i ricchi.
Everett Reimer, per esempio, osservando che le scuole sono una
forma di imposizione fiscale inversamente proporzionale al reddito,
nota come i figli del dieci per cento più povero della
popolazione degli Stati Uniti costano al pubblico 2.500 dollari
a testa per tutta la vita, mentre quelli del dieci per cento
più ricco costano circa 35.000 dollari. “Ipotizzando
che un terzo si riferisca alla spesa privata, il dieci per cento
più ricco riceve comunque per l'istruzione denaro pubblico
dieci volte di più del dieci per cento più povero.”
Nel suo pamphlet censurato del 1970, Michael Huberman era arrivato
a identiche conclusioni per la maggioranza dei paesi del mondo.
In Gran Bretagna, anche ignorando del tutto l'università,
spediamo il doppio per chi frequenta l'ultimo biennio di una
grammar school rispetto ai diplomandi di una modern
school, mentre se includiamo la spesa per l'università,
si è calcolato (Labour Inequality, Fabian Society,
London 1972) che la spesa per un anno di studi di uno studente
universitario è pari a quella di tutta la vita scolastica
dalla prima elementare alla licenza media superiore. “Mentre
il gruppo sociale più ricco beneficia diciassette
volte di più di quello più povero della spesa
per l'università, il suo contributo di reddito è
solo di cinque volte superiore.”
Possiamo così concludere che un ruolo notevole dello
stato nel sistema scolastico nazionale nel mondo è quello
di perpetuare l'ingiustizia sociale ed economica.
Ma il sistema scolastico in Gran Bretagna è un sistema
statale? Il fatto è che da noi non una sola scuola è
posseduta o gestita dallo stato. Le scuole sono di proprietà
e mantenute (con l'eccezione di quelle indipendenti e delle
cosiddette direct grant schools) da organismi scolastici
locali. Questi ultimi ricevono il proprio reddito da una speciale
imposta sugli immobili, ma siccome non è sufficiente
per fare fronte alle spese attuali, questa imposta deve essere
integrata da sovvenzioni del governo centrale, e così
lo stato esercita un controllo effettivo ma occulto sulle attività
degli organismi locali. Nonostante il teorico decentramento,
le nostre scuole sono in sostanza simili, non solo nei termini
in cui le definisce Ivan Illich, di “processo specifico
per età e dipendente da insegnanti, che impone una frequenza
a tempo pieno a corsi obbligatori”, ma per migliaia di
particolari relativi alla gestione istituzionale e agli obiettivi.
I ricchi, a differenza dei poveri...
Per quanto il sistema decentrato britannico sia importante
per chi vuole sperimentare un'educazione senza scuole, perché
se vuole ricevere un aiuto ufficiale o una sponsorizzazione,
o quanto meno tolleranza per un esperimento radicale, deve fare
i conti con l'ente scolastico locale, e la pressione locale
è molto meno pesante ed è possibile conquistarsi
molto più interesse e sostegno sul posto che cercare
di sgretolare il monolitico ministero dell'educazione e della
scienza.
La questione centrale, nella discussione sull'istruzione alternativa
in relazione con il sistema scolastico ufficiale in Inghilterra,
come in gran parte dei paesi, è che tutte le possibilità
sono vanificate dal fatto che ogni proprietario di casa e ogni
contribuente sono costretti a finanziare il sistema così
com'è. Questo fatto compiuto non sono inibisce lo sviluppo
di alternative, ma comporta anche che queste alternative dipendano
dal reddito marginale dei potenziali fruitori, oltre e al di
là delle imposizioni obbligatorie per tenere in vita
il sistema organizzato.
I ricchi che, a differenza dei poveri, dispongono di un reddito
marginale, sono in grado di scegliere e mandano i propri figli
nelle scuole indipendenti (John Vaizey ha calcolato che un terzo
del costo dell'istruzione nel settore privato è recuperato
con l'elusione fiscale). Anche qualcuno non tanto ricco ne segue
l'esempio, convinto di fare del proprio meglio per i figli o
perché è stato capace di capire come sia possibile
far ottenere borse di studio per i figli. Ovviamente, però,
gran parte delle scuole “indipendenti” (con l'eccezione
di pochi istituti “progressisti”) sono identiche
per tutte le caratteristiche importanti a quelle del sistema
ufficiale, con l'unica differenza del numero di studenti per
classe.
I critici radicali del sistema ufficiale possono far proprio
uno di questi tre atteggiamenti. Il primo consiste nel fare
pressione per far riversare nei sistemi alternativi una quota
della spesa e delle strutture per l'istruzione. Il secondo è
un tentativo di modificare il sistema o con un rivolgimento
interno o con una pressione dall'esterno. I terzo è di
procedere per conto proprio, ignorando il sistema ufficiale
ma continuando, probabilmente, a finanziarlo con le imposte
e le tasse. Nella pratica è probabile che si prenda un
poco dei tre atteggiamenti contemporaneamente. Per esempio,
quando John Ord e i suoi amici hanno fondato la Scotland Road
Free School a Liverpool, hanno compreso in fretta la necessità
di trovare l'assistenza dell'ente locale per l'istruzione. La
stampa locale trovò irresistibilmente comico questo fatto,
che invece era perfettamente logico. Se i genitori optavano
per un'istruzione cattolica, questa sarebbe stata finanziata
dall'ente locale. Se avessero scelto una grammar school
con contributo diretto (e se i loro figli ne fossero stati ammessi)
la loro istruzione sarebbe stata finanziata dal governo centrale.
Perché mai la Free School, come qualsiasi esperimento
di descolarizzazione, non avrebbe avuto i titoli per ricevere
i soldi che la Liverpool Corporation aveva comunque da spendere
per i propri studenti? (Tutto quello che chiedeva era infatti
una sede, la mensa scolastica e l'arredo, e tutto quello che
ottenne fu un prestito di tavoli e sedie usati). Un membro della
Commissione educazione dichiarò: “Se ci chiederanno
di sostenere la scuola, ci chiederebbero di indebolire il tessuto
di quello che si suppone dovremmo sostenere... Potrebbe
andare a finire che in pratica nessuno studente voglia più
frequentare le nostre scuole.”
Nei primi anni sessanta del secolo scorso, Paul Goodman elencava
una mezza dozzina di esperimenti che un consiglio o un ente
scolastico avrebbe potuto far propri se avesse avuto abbastanza
coraggio. Sintetizzando un poco, questi erano:
1. “Niente scuola” per certe classi (senza danni
culturali, perché ci sono ottime prove che i bambini
normali apprendono le nozioni dei primi sette anni di scuola
in un periodo tra i quattro e i sette mesi di buon insegnamento).
2. Fare a meno dell'edificio scolastico per qualche classe;
fornire gli insegnanti e usare la città stessa come scuola.
3. Dentro e fuori dell'edificio scolastico, ricorrere ad adulti
non qualificati della comunità – il farmacista,
il bottegaio, il meccanico – come educatori che introducano
i giovani al mondo degli adulti.
4. Rendere non obbligatoria la frequenza scolastica, come a
Summerhill.
5. Utilizzare una quota dei fondi scolastici per mandare gli
studenti in aziende agricole economicamente marginali per un
paio di mesi all'anno.
La prima è un'idea fallita in partenza. Può essere
popolare tra i ragazzi, ma i genitori penserebbero ovviamente
di essere presi in giro. L'ultima proposta sarebbe probabilmente
interpretata come un modo per sfruttare manodopera a buon mercato.
Ma gli altri sono stati positivamente adottati da consigli scolastici
americani e hanno trovato applicazioni in Gran Bretagna: le
scuole speciali sono le più evidenti candidate alla loro
adozione.
Il diritto a pratiche educative alternative
L'idea di una scuola senza muri, per esempio, è stata
messa in pratica per più di un triennio dal Parkway Education
Program nella città di Philadelphia con il totale sostegno
dell'autorità scolastica. Gli studenti non sono selezionati,
ma scelti per sorteggio tra i richiedenti di otto distretti
scolastici della città decisi per criteri geografici,
per le classi dalla nona alla dodicesima (cioè dai 14
ai 18 anni) senza tenere conto del rendimento scolastico e della
condotta. Non ci sono edifici scolastici. Ognuna delle otto
unità (che operano in modo indipendente) ha una propria
sede con un ufficio per il personale e armadietti per gli studenti.
La didattica si svolge all'interno della comunità: la
ricerca di spazi è considerata parte del processo educativo.
“La città offre un numero incredibile di laboratori
di apprendimento: l'arte si studia nell'Art Museum, la biologia
al giardino zoologico; i corsi commerciali e professionali si
svolgono sui luoghi di lavoro, per esempio quelli di giornalismo
nelle redazioni dei giornali, quelli di meccanica nei garage
eccetera.” Il Parkway Program dichiara: “Per quanto
si ritenga che le scuole preparino alla vita sociale, per lo
più invece isolano gli studenti dalla comunità
al punto da rendere loro impossibile capire come questa funziona
[...] Poiché la società come gli studenti
soffre per le carenze del sistema scolastico, non è parso
irragionevole chiedere alla comunità di assumersi qualche
responsabilità nella formazione dei suoi giovani.”
Qualsiasi autorità scolastica locale potrebbe dar vita
a un progetto Parkway domani, se lo volesse.
Ma il più probabile incentivo al cambiamento, per indurre
le autorità scolastiche locali a sostenere l'avvio di
esperimenti di descolarizzazione, non sarà dato dall'esempio
o dalla critica dall'esterno, ma dalla pressione dal basso.
La massa di scolari e studenti recalcitranti e ribelli, ingabbiati
dal sistema per un anno in più con l'allingamento dell'obbligo
scolastico, rappresenteranno l'argomento più forte a
favore del cambiamento.
È sempre esistita una certa percentuale di studenti che
frequentano contro voglia, che mal sopportano l'autorità
della scuola e le regole arbitrarie, e che attribuiscono uno
scarso valore al processo educativo, perché l'esperienza
personale dice loro che si tratta di una corsa a ostacoli, nella
quale sono così spesso i perdenti che sarebbero stupidi
a mettersi in competizione. Hanno appreso questa lezione proprio
a scuola e non gli va di entrarci a cinque anni e a uscirne
a quindici.
Che cosa succederà quando questo esercito di tagliati
fuori in partenza, non più intimoriti dalle minacce,
non più gestibili con le lusinghe, non più riducibili
a una cupa acquiescenza con la violenza fisica, diventerà
abbastanza numeroso da impedire il funzionamento della scuola
tradizionale con una minima sembianza di efficienza? Sir Alec
Clegg ci ha prospettato per anni questo scenario per avvertirci
che dovremmo cambiare le nostre priorità in campo educativo
e sociale. La crisi di autorità della scuola ci renderà
tutti, insegnanti e studenti, descolarizzati e uniti nella richiesta
di stare altrove.
Tutte queste piccole iniziative di centri di non frequenza,
di laboratori collettivi e di alternative alla scuola, verranno
allora assunte e sostenute dalle autorità, non perché
si saranno convertite a una diversa teoria pedagogica, ma per
sfruttarle come espedienti per togliere i ragazzi dalla strada
e dalla scuola, che a sua volta sarà ben lieta di sbarazzarsi
di quegli elementi che le impediscono di portare avanti il compito
di preparare gli studenti più docili a occupare i propri
posti nella meritocrazia certificata. Temo che lo stesso valga
per l'idea del ruolo creativo per il sistema scolastico ufficiale,
nello sviluppo di una formazione extra-scolastica in una società
del tempo libero: la sua occupazione pratica funzionerebbe solo
da terapia occupazionale per chi è disoccupato a vita.
È sciocco cercare di convincere i vari ministri dell'educazione
o della pubblica istruzione di tutto il mondo di smontare il
sistema: un sistema che rispecchia e tutela i valori dello stato.
Sarebbe come se l'estinzione dello stato avvenisse per una legge
del parlamento. E non dobbiamo nemmeno cadere nella trappola,
avendo indicato nello stato un'istituzione restrittiva a protezione
del privilegio, di rivendicare una legge che vieti la discriminazione
nella scuola. Quello che dobbiamo rivendicare è il diritto
a pratiche educative alternative per concorrere su un piano
di parità. Quando l'Imperatore chiese al filosofo che
cosa potesse fare per lui, il filosofo rispose: “Spostati
un po' in là: mi togli la luce.”
Colin Ward
Leggere
Colin Ward
(in italiano)
Anarchia
come organizzazione, Elèuthera, Milano, 2013,
I ed. 1996.
(a cura di Colin Ward), P. Kropotkin, Campi, fabbriche,
officine, Antistato, Milano, 1975.
Dopo l'automobile, Elèuthera, Milano, 1992.
La città dei ricchi e la città dei poveri,
e/o, Roma, 1998.
Il bambino e la città, Ancora del Mediterraneo,
Napoli, 2000.
Acqua e comunità, Elèuthera, Milano,
2003.
David Goodway e Colin Ward, Conversazioni con Colin
Ward, Elèuthera, Milano, 2003.
L'anarchia. Un approccio essenziale, Elèuthera,
Milano, 2008.
Per una efficace introduzione al suo pensiero consigliamo
di leggere di Stuart White, L'anarchismo pragmatico
di Colin Ward, Bollettino dell'Archivio Pinelli, n.
30, Milano.
Leggere
Colin Ward su “A”
Di e su Colin Ward sono apparsi, negli ultimi quattro
anni, su “A”:
- “La lezione
di Colin Ward”, di F. Codello, in “A”
n. 352 (aprile 2010)
- “Mio
padre e Colin”, di P. Finzi, in “A”
n. 352 (aprile 2010)
- “Leggere
Colin Ward”, di F. Codello, in “A”
n. 362 (maggio 2011)
- “Luoghi dove s'impara”,
di C. Ward, in “A” n. 362 (maggio 2011)
- “Ricordando
Colin Ward” di AA. VV., in “A”
n. 364 (estate 2011)
- “Martin
Buber. Un filosofo contro (e per)”, di C. Ward,
in “A” n. 366 (novembre 2011)
|
|