violenza di genere
Al centro, i centri
di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia
Sono i centri antiviolenza: sessantasei in tutta Italia.
Due operatrici di centri attivi in Toscana, rispettivamente a Prato e San Miniato, ne raccontano il contesto culturale e sociale, spiegandone le modalità di funzionamento e gli strumenti di intervento.
|
Zapatos Rojos (Scarpe rosse), progetto d'arte pubblica contro la violenza sulle donne dell'artista Elina Chauvet |
Donne che sostengono donne
La pratica della differenza per il contrasto della
violenza di genere nella concreta esperienza dei centri antiviolenza.
La cultura di genere come antidoto
Quotidianamente si tenta di negare, eludere, far scomparire
quanto di più universale e trasversale esista nella relazione
tra donne e uomini: la differenza di genere e di conseguenza
la violenza di genere.
La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime,
così come gli autori, sono di tutte le età e di
tutte le professioni, e gran parte della violenza avviene in
famiglia, per mano di un partner o marito, spesso dinanzi ai
figli.
È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi
solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà
culturale. Nessuna società o cultura ne è immune.
La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella
sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante
i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza
alle donne perché essa attiene a profonde motivazioni
culturali e ai modelli di relazione tra generi: la violenza
altro non è che un modo per riappropriarsi di un ruolo
gerarchicamente dominante, a cui sono da sempre stati concessi
privilegi. Un modo per riappropriarsi di un potere.
Con il termine contrasto alla violenza di genere intendiamo
un universo di attività che nel loro complesso sono impegnate
a condurre chi ha subito violenza verso la riscoperta della
propria identità, del proprio valore, delle proprie competenze,
per ritrovare così il desiderio di un nuovo progetto
di vita.
Nei centri antiviolenza vengono accolte e, se necessario –
e possibile – ospitate donne di ogni paese, cultura e
religione. Il capitale principale è costituito dalla
motivazione, dalla competenza e dall'esperienza delle operatrici
e ricercatrici, i cui migliori investimenti sono i programmi
di libertà che mettono in atto.
I centri antiviolenza non sono pensati in chiave assistenzialistica,
nella convinzione che le forme dell'assistenza lascino i problemi
così come sono, senza modificarne alcun aspetto, tanto
da farli resuscitare nel momento stesso in cui l'aiuto cessa.
Il sostegno dei centri tende invece a restituire nelle mani
della donna, accolta o ospite, la sua stessa vita, ma arricchita
dall'esperienza che l'ha condotta verso la conquista dell'autonomia,
fattore indispensabile per proiettarsi verso un futuro scelto
e non imposto con il sopruso. Una donna libera di scegliere,
forte nella sua identità, capace di una analisi critica
delle relazioni, consapevole delle sue competenze, è
una donna preziosa per l'intera società.1
Nelle associazioni di genere e nelle case delle donne si riversa
tutta l'attualità difficile in materia di genere e sessualità;
questi luoghi sono infatti come degli oblò attraverso
i quali si scorgono le relazioni dispari fra i sessi, ma anche
i disagi sociali e i traumi dei più piccoli.
Qui dentro entrano tutte le forme della violenza sociale e culturale,
realtà dolorose come lo stupro perpetuato dal genitore
o da un parente, il rischio di morte per aggressione da parte
della persona amata, la negazione dei più elementari
diritti umani, il malessere e il dolore dei minori. Il nucleo
di ogni intervento che si attua nei centri antiviolenza è
costituito dalla capacità di ascoltare la donna e dalla
disponibilità a sostenerla. La maggior parte delle donne
che si rivolgono a uno sportello o centro antiviolenza per rompere
il silenzio e chiedere aiuto mostrano sorpresa e sollievo nella
scoperta, finalmente, semplicemente, di essere credute.
Talvolta uscire dalla violenza può essere particolarmente
difficoltoso; ci sono infatti dei fattori che portano la donna
a non riuscire ad uscirne, o a ricaderne vittima. Per fattori
situazionali intendiamo quelli che inducono la donna a rimanere
o a tornare dal partner violento; le donne maltrattate sono
infatti nella maggior parte dei casi dipendenti economicamente,
terrorizzate rispetto a ripercussioni fisiche e psicologiche,
vittime di stalking, impaurite dalla perdita dell'affidamento
dei figli, prive di informazioni, carenti di relazioni parentali
ed amicali che le facciano sentire accettate e comprese, spaventate
di fronte all'ignoto, prive di un posto dove potersi rifugiare
e dove sentirsi accolte.
Questione di sopravvivenza
I fattori emozionali sono quelli che condizionano la
donna rendendo difficoltoso il percorso di fuoriuscita dalla
violenza: l'insicurezza, la paura di non farcela, il crollo
del progetto di vita costruito con il compagno violento e i
sentimenti di lealtà verso di lui (lo devo capire),
il desiderio di aiutarlo a cambiare, i sensi di colpa nei confronti
dei figli e/o della famiglia d'origine per averne disatteso
le aspettative, i sentimenti di amore e di speranza che le cose
cambino, la bassa autostima indotta dalle umiliazioni subite,
il senso di impotenza e di esaurimento.
Influiscono poi le credenze personali, fattori che condizionano
la donna nelle proprie scelte: idealizzazione della famiglia,
forte senso religioso e/o forte credo nel vincolo del matrimonio,
e altre false credenze indotte dal contesto sociale (i bambini
hanno bisogno di un padre anche se violento, la salvezza della
famiglia dipende da me).
La donna vittima di violenza tende a proteggere il violento
e cerca di giustificare il suo comportamento, rifiuta di collaborare
per proteggersi dal dover prendere consapevolezza, esprime rabbia
ed aggressività verso le forze dell'ordine e i servizi
sociali se cercano di aiutarla, si assume la responsabilità
della violenza del partner.
La motivazione, nella maggioranza dei casi, è la sopravvivenza
personale.
Per questa ragione, uno dei punti cardine della metodologia
d'accoglienza dei centri è quello per cui deve essere
la donna stessa a doversi rivolgere alla struttura: parenti,
amici, istituzioni non possono sostituirsi a lei, poiché
il primo passo per allontanarsi da un uomo violento è
avere la consapevolezza di essere vittima di violenza.
È da qui che nasce la propria, personale determinazione
e volontà di fuoriuscita.
La pratica della relazione
Nella maggioranza dei casi il primo contatto è telefonico:
la donna chiama il centro antiviolenza per chiedere aiuto, spesso
dopo un episodio o una serie di episodi particolarmente violenti,
e fissa un appuntamento con la struttura. Anche in questo caso
la volontà di scelta viene messa alla prova, fissando
la data dell'appuntamento a qualche giorno dopo la telefonata
(tranne in casi di emergenza) e non richiamando la donna in
caso non si presenti. Può sembrare un metodo incoerente
con la gravità e il pericolo che il fenomeno della violenza
porta in sé, ma il know-how delle operatrici dei
centri nasce dall'esperienza quotidiana con le donne vittime
di maltrattamento, e trova conferma e riconoscimento in studi
di livello internazionale. Nelle situazioni di vero e proprio
pericolo di vita, la donna viene invece ospitata nel centro
per un periodo di tre mesi. Durante il primo colloquio la donna
esterna dubbi, paure e riceve tutte le informazioni necessarie
a comprendere quali siano i propri diritti e le possibilità
pratiche per uscire dalla condizione che sta vivendo. La donna
elabora così un primo progetto di uscita dalla violenza,
costituito da varie tappe, ciascuna delle quali caratterizzata
da obiettivi specifici: richiesta di separazione, stesura di
denunce-querele, consulenze specialistiche. Il percorso legale
viene accompagnato dal percorso di elaborazione del proprio
vissuto attraverso una serie di colloqui strutturati con le
operatrici. Le operatrici dei centri, adeguatamente formate,
conoscono bene le dinamiche della violenza.
La metodologia che attuano durante i colloqui con le donne è
finalizzata a ripercorrerne le tappe con la donna, ad accogliere
il suo racconto personale senza apporre alcun segnale di giudizio,
spogliandosi dei pregiudizi, delle aspettative e dei desideri
salvifici, per mettersi in una posizione di ascolto sincero.
Il percorso di fuoriuscita dalla violenza di cui le operatrici
si fanno guida, attraverso i colloqui e le attività con
le donne, è teso ad accogliere la donna nella sua interezza,
rendendola consapevole delle proprie debolezze, dei punti di
forza e di criticità, delle ansie personali e delle proprie
motivazioni e attitudini. Gli anni di maltrattamenti perpetrati
da parte del partner minano profondamente l'autostima della
donna, che arriva a credere di essere la responsabile della
situazione in cui si trova, di non essere una brava madre, una
brava moglie, di essere brutta e stupida, di essere un'incapace.
Non sono capace a fare niente, da sola non ce la farò
mai, era meglio se morivo, queste sono le parole
che spesso ascoltano le operatrici durante i colloqui.
La formazione di genere e l'esperienza permettono alle operatrici
di ascoltare, ricordare, guidare e valorizzare, non consentendo
a intrusioni esterne, rappresentate da pregiudizi e stereotipi,
di inficiare i momenti di condivisione. I colloqui non hanno
il solo scopo di accogliere il dolore, ma di ricostruire l'autostima
della donna, attraverso la lettura della sua storia in un'ottica
di genere, che colloca cioè la violenza in una dimensione
culturale e come tale ne riconosce il fenomeno. La donna ripercorre
a ritroso la sua vita, fino a prima dell'incontro con l'uomo
violento; si riscopre, si riconosce, ritrova la sua forza, che
la violenza ha l'obiettivo di annullare e sottomettere. Si tratta
di riprendere in mano le redini della propria vita, uscire dallo
stato di vittima e ricominciare a decidere per sé,
senza paura.
Riconoscere la propria storia come simile a quella delle altre
donne vittime di violenza di genere è un momento fondamentale
per la presa di consapevolezza della sua origine culturale:
la donna si spoglia del senso di colpa e di inadeguatezza personale
e si identifica come parte di genere.
L'intero cammino è segnato dalla scelta costante di riconoscere
la donna come una sopravvissuta alla violenza, una forza
viva a cui si deve dare la possibilità di essere sostenuta
affinché possa liberarsi dal senso di colpa e ritrovare
un senso di sé. Aiutare le donne a ritrovare il
senso di sé e far rinascere in loro il desiderio di progettualità
è il risultato finale a cui tende il lavoro dei centri
antiviolenza. Un simile obiettivo non può che avere come
strumento privilegiato quello della comunicazione profonda
ed empatica generata dalla pratica della relazione femminista.
Perché solo in questo modo possono essere scorti i bisogni
e le risorse reali di ogni donna, in quanto donna. Taluni
sono turbati nell'immaginare quest'attività come dolorosa.
È invece una straordinaria avventura collettiva di donne
che si incontrano su un desiderio comune: conquistare per sé
e per le altre una liberazione mai raggiunta, ma tenacemente
perseguita. Per mezzo di una solidarietà profonda, i
centri trovano nella politica delle donne le fondamenta
del fare e dell'elaborare.
Attraverso la pratica della relazione con le operatrici
specializzate, basata sull'affidamento e la disparità,
gli strumenti principe esercitati dal femminismo della differenza
attraverso l'autocoscienza, la dignità della donna, ascoltata,
creduta e accolta, lentamente riemerge, permettendole nuovamente
di ritrovare il piacere delle cose della vita.
La
spirale della violenza
Il vissuto personale di ciascuna donna vittima di maltrattamento
in famiglia viene ripercorso nei centri attraverso i passaggi
descritti dalla spirale della violenza. Da quanto emerge
da numerose indagini2, la violenza
domestica presenta delle peculiarità comuni, caratterizzate
da alcuni meccanismi che si susseguono e si ripetono ciclicamente
in maniera sempre più grave, fino ad intrappolare la
vittima in una spirale, “immobilizzata come in una tela
di ragno, tenuta a disposizione, psicologicamente incatenata,
anestetizzata”3. L'uomo
che perpetra tali maltrattamenti annienta gradualmente
la sua preda fino a renderla incapace di reagire, senza
mai ammettere siano modalità di potere e di controllo,
giustificandone anzi le condotte come manifestazioni di eccessiva
gelosia e affetto esasperato. La matrice culturale del fenomeno
della violenza impedisce a sua volta alla donna di riconoscerli
come tali, poiché i messaggi introiettati fanno rientrare
nella normalità culturale certi comportamenti
maschili.
Durante il percorso di fuoriuscita dalla violenza, la donna
viene sottoposta al modello della spirale, ripreso dal
modello Duluth, Minnesota, della Power and Control Wheel
(La ruota del potere e del controllo, 1993); il vantaggio
è la portata globale di questo modello poiché,
fermo restando le differenze culturali esistenti in ogni paese
e quelle che possono essere le caratteristiche particolari di
una realtà rispetto a un'altra, la modalità con
cui viene agita la violenza all'interno di una coppia segue
una strategia, un modello appunto, riscontrabile nella
maggioranza dei casi.4
In genere non ha inizio con maltrattamenti di tipo fisico, bensì
di tipo emotivo psicologico, attraverso azioni subdole e meno
evidenti. La prima tappa della “spirale” consiste
nelle intimidazioni che avvengono attraverso la coercizione,
minacce atte a spingere la donna a comportarsi come l'uomo vuole
(se esci vuol dire che non ti manco, che non mi vuoi bene...
se fai questo mi arrabbio...). Intimidazioni e minacce
indeboliscono la donna e creano insicurezza nelle sue capacità
decisionali autonome.
Parallelamente viene attuato un progressivo isolamento
della donna dal suo contesto familiare, lavorativo, sociale.
L'uomo tenta di limitare i contatti della donna con i suoi amici,
la possibilità di coltivare interessi, di lavorare (tua
madre si mette sempre in mezzo... la tua amica è poco
seria...). L'isolamento può arrivare a forme di segregazione,
quali chiudere a chiave la donna in casa, portar via il telefono
di lei o controllare le chiamate al rientro in casa.
Una fase ulteriore è quella della svalorizzazione.
Ogni attività della donna viene sminuita, ogni sua capacità
e risorsa viene irrisa; l'obiettivo è la totale privazione
dell'autostima della donna, al fine di privarla di qualunque
possibilità di libera scelta e autodeterminazione. La
svalorizzazione avviene anche attraverso la distruzione di oggetti
e beni della vittima, la quale introietta in questa fase la
sensazione di totale annullamento di se stessa (senza di
me non sai fare niente...non sei capace a far nulla...
non capisci niente... ma chi ti credi di essere... ma ti
sei vista?)
L'aggressione fisica, preceduta dalle tappe di violenza psicologica,
arriva nel momento in cui una donna comincia a ribellarsi o
cerca di uscire dalla violenza. Sono violenze fisiche e sessuali,
in cui l'uomo usa la forza per obbligare la donna a essere toccata
nella parti intime, ad avere rapporti sessuali (fai il tuo
dovere coniugale...), o per picchiarla, incuterle terrore
e impedirle così di ribellarsi o andarsene, ripristinando
lo status quo di potere e manipolazione.
Questi meccanismi della violenza sono alternati a momenti determinanti
per il mantenimento della spirale e la crescita della tela di
ragno: le false riappacificazioni. L'uomo violento alterna
gesti e periodi di falso pentimento e di apparente normalità
ad altri di improvvise, inaspettate fasi di aggressività
e violenza, prostrando la vittima in un perenne stato di ansia,
in cui non si conoscono mai né il tempo né la
ragione dell'aggressione. Questa non continuità
della violenza è una delle cause più rilevanti
ad indurre una donna a restare, a non uscire dalla sua
condizione. Questa sorta di fase da luna di miele induce
la donna a credere che la situazione sia tornata come prima,
che il suo compagno sia cambiato per amore (se la
violenza fosse stata continua me ne sarei subito andata... c'erano
sempre periodi di speranza e la cosa strana è che durante
i periodi buoni, in cui faceva regali, mi aiutava in casa, andavamo
fuori, io a malapena mi ricordavo dei brutti tempi...).
Un'ulteriore fase che caratterizza la spirale della violenza
è il ricatto sui figli. Per sostenere questa affermazione
e utilizzarla realmente come minaccia, l'uomo si affida all'isolamento
e alla paura in cui ha segregato la donna e al fatto, consequenziale,
che le informazioni di cui ella necessita per confutare tale
timore le siano inaccessibili. Maggiore è il tempo in
cui la vittima permane in questo abuso psicologico, maggiore
è quello in cui a tale abuso sono esposti i figli. È
proprio questo il momento in cui la vittima si rivolge generalmente
al centro: per salvaguardare l'integrità psichica dei
figli. L'esperienza nei centri antiviolenza e numerose ricerche
scientifiche dimostrano infatti che dalla spirale della violenza
non si riesce a uscire da sole. Sono necessari percorsi
di consapevolezza, scelte coraggiose e impegnative, figure di
supporto competenti.
Diamo i numeri?
“Dire che c'è crisi economica, e quindi le donne
possono continuare ad essere maltrattate e uccise, sinceramente
non lo accetto. Perché è vero, siamo in un momento
molto difficile, ma quello che manca in questo paese è
l'assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni”.
A parlare è l'avvocato Titti Carrano, presidente dell'Associazione
Nazionale DiRe, Donne in rete contro la violenza, che
rappresenta sessanta tra centri antiviolenza e case delle donne
in tutta Italia, quasi il 50 per cento dell'offerta nazionale,
dal momento che in Italia si contano 150 associazioni di questo
tipo.5
L'associazione DiRe è attiva sul territorio nazionale
con due strumenti: i centri antiviolenza e le case
delle donne. In questi luoghi le donne in difficoltà
possono trovare un aiuto concreto, ospitalità in caso
di pericolo, un luogo accogliente e sicuro per sé e per
i propri figli.
Le operatrici delle associazioni sono donne competenti e specializzate,
che hanno frequentato formazioni ad hoc e hanno praticato
tirocini sul campo, affiancate da operatrici esperte, in un
passaggio e una condivisione di competenze professionali e risorse
umane che le donne sono capaci di sviluppare e restituirsi in
ogni ambito, in nome di quella solidarietà femminile
che le ha unite nelle lunghe lotte per la libertà e l'autodeterminazione.
Nel 2011 si sono rivolte ai centri di DiRe 13.137 donne, di
cui 70 per cento per la prima volta, il 70 per cento italiane.
Questo dato, da solo, è sufficiente a riflettere sull'urgenza
di sportelli, centri, posti letto. Dei sessanta centri dell'associazione,
invece, neanche la metà ha la possibilità di ospitare
donne in difficoltà: in Sicilia c'è un solo centro
con qualche posto letto, a Palermo, per 2 milioni e 600mila
donne siciliane. Uno solo. In caso di emergenza, di una donna
in pericolo di vita, si attiva la rete, ma si isola la donna.
In Calabria, un solo centro, a Cosenza, ma non ha fondi, ed
è senza posti letto. In Puglia due centri, a Barletta
e a Polignano, in gravissime difficoltà economiche, entrambi
senza posti letto. In Basilicata e in Molise non esistono centri,
ne case rifugio. In Campania ci sono per fortuna tre case rifugio,
aperte di recente in luoghi confiscati alla camorra. A Napoli
invece il centro ha dovuto sospendere le attività perché
dal 2009 non percepisce i fondi che il Comune gli deve. Le regioni
italiane che contano il maggior numero di case sono la Lombardia,
l'Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio: laddove i centri ci
sono, le donne arrivano a decine di migliaia. Il Centro Maree
è uno dei tre centri finanziati dalla Provincia di Roma,
Istituzione Solidea, con un milione di euro all'anno. È
considerata una priorità della giunta della Provincia,
ch'è riuscita a non tagliare i fondi a lei dedicati.
Nel 2011 sono passate per questi centri più di 5.000
donne, solo per un colloquio, mentre moltissime altre negli
anni vi hanno trovato un rifugio in cui essere protette, uscire
dalla violenza, ricostruirsi una vita per sé e per i
propri figli.
Statistiche comparate ed elaborate dall'associazione Women
Against Violence Europe dicono che la forbice tra le Women
Shelters (linguaggio militare che sottolinea l'urgenza di
protezione, a dispetto del più morbido case delle
donne) e quelle degli altri paesi europei, si allarga inesorabilmente
nella conta dei posti letto: la Germania ha 7.000 posti disponibili
all'anno, corredati da assistenza sanitaria, psicologica, sociale
e legale; la Spagna, grazie al governo Zapatero, ha 4.500 posti
letto, l'Inghilterra 3.890.
I dati che impressionano sono quelli che ci vedono indietreggiare
di fronte a paesi quali la Turchia, con un numero tre volte
superiore rispetto al nostro e, se si prende come riferimento
lo standard europeo di un posto letto per 10.000 abitanti, è
impressionante leggere che la nostra percentuale è relativa
allo 0,09 per cento. Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni
che basterebbe seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere
1 posto d'emergenza per le donne ogni 10.000 abitanti, per un
totale di 5.700 posti letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici
volte in meno: 1 posto letto ogni 110.000 abitanti.
Hanno fatto meglio di noi la Grecia, l'Albania, l'Armenia, la
Bosnia-Erzegovina, la Croazia, Cipro, la Georgia, l'Islanda,
l'Irlanda, la Macedonia. Abbiamo battuto, sul filo dei decimi,
l'Azeirbaigian, la Bulgaria, l'Estonia.6
Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni che basterebbe
seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere 1 posto d'emergenza
per le donne ogni 10.000 abitanti, per un totale di 5.700 posti
letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici volte in meno: un
posto letto ogni 110.000 abitanti.
Costi sociali e tagli ai bilanci
Se una donna prigioniera già da molto tempo delle percosse
e della paura non ha vicino a sé un posto a cui rivolgersi,
a cui chiedere aiuto, o se quel luogo è stato aperto
per qualche anno o per molti, accumulando esperienza, capacità,
contatti, capitale umano, risorse, ricchezza, e poi chiude e
disperde tutto a causa dei fondi a singhiozzo e di scelte politiche
diverse, quanto costa all'intero paese questa assenza gravissima,
in termini di salute, di welfare, di mancata crescita, di partecipazione
sociale, lavorativa, professionale, umana? Nei casi in cui queste
risorse mancano, o sono distribuite in modo disomogeneo sul
territorio nazionale, creando territori di serie A e di serie
Z, a farne le spese sono sempre le donne che poi vengono uccise
anche perché non hanno potuto fare affidamento su una
rete funzionale di servizi che le proteggesse.
In termini di costi, sociali oltre che umani, alcuni studi del
2003 di Dugan, Nagin, Rosenfeld7
dimostrano che i tagli che i governi operano a sfavore dei servizi
di tutela per la vittima per prevenire la reiterazione della
violenza, fanno lievitare i costi che ne derivano (spese sanitarie,
legali, forze dell'ordine, della giustizia, perdita di produttività,
costi legati all'infanzia privata della madre, che deve sopravvivere
al doppio trauma della violenza assistita e della perdita dei
genitori). Allo stato in fin dei conti costerebbe molto meno
spendere per la prevenzione e affidarsi alle competenze preziose
maturate negli anni dalle donne che sostengono altre donne,
salvando loro la vita.
In Italia la variabile della continuità a quanto pare
però, non è prevista: nel 2012 sono stati lanciati
dei bandi ministeriali, 20 milioni di euro in più, con
lo scopo di coprire i territori regionali scoperti e aprire
12 nuove case delle donne. Il problema è che il piano
viene finanziato per pochi anni, e già con il dubbio
che nell'anno in corso non si trovino i fondi per rinnovare
il finanziamento. I progetti vengono infatti coperti per 24
mesi, dopodiché il rischio è aver aperto strutture
che gli enti locali non riescono a sostenere o che non percepiscono
come priorità nella loro agenda politica, e che quindi
dovranno chiudere.
Tutto chiede che sulla violenza non si tagli, ogni nome, ogni
dato dice che sulla violenza non si può tagliare, perché
se si taglia sulla violenza avremo per sempre donne vittime
e bambini che pagheranno le conseguenze di quanto vissuto. Tutto
dice che le donne che escono dalla violenza tornano attive nella
vita sociale, culturale, tornano a lavorare, tornano ad essere
una risorsa per tutti. Le operatrici delle case delle donne
insegnano: prima si esce dalla violenza, meno tempo serve per
ricostruirsi una vita.
Solo i paesi che combattono la violenza e ogni forma di oppressione
contro le donne figurano di diritto tra le società più
avanzate.
Note
- differenzadonna.org/attivita/centri-antiviolenze/index.html.
- M. A. Gainotti e S. Pallini (a cura di), Uscire dalla violenza.
Risonanze emotive e affettive nelle relazioni coniugali violente.
Edizioni Unicopli, Milano 2006, pag. 32.
- A. C. Baldry, Dai maltrattameti all'omicidio. la valutazione
del rischio di recidiva e dell'uxoricidio. FrancoAngeli,
Milano 2008, pag. 39.
- Ibidem, pag. 39.
- R. Iacona, Se questi sono gli uomini, Chiarelettere,
Milano 2012, pag. 114.
- Ibidem, pagg. 119-120.
- A. C. Baldry, Op. Cit. pag. 59.
Come operano i centri antiviolenza
Assistenza legale, gruppi di auto mutuo aiuto, gruppi di conoscenza
e di cura di sé, gruppi di sostegno alla genitorialità,
incontri protetti, codice rosa, servizi anti-stalking. Viaggio
tra i mille modi per affrontare un fenomeno molto più
diffuso di quanto si creda.
a) Assistenza legale
L'assistenza legale dei centri è specializzata in materia
di violenza di genere e nella difesa dei diritti delle donne
e dei loro figli minorenni. Si compone di avvocate specializzate
afferenti a tre settori: diritto civile, diritto penale e tribunale
per i minorenni. Le donne che lo richiedono sono poi seguite
lungo tutto l'eventuale percorso legale fino alla sentenza definitiva.
Il valore più alto del supporto legale dei centri antiviolenza
sta nel suggerire un cambiamento nello sguardo colpevolizzante
e discriminatorio che spesso le leggi gettano sulle donne che
hanno subìto violenza e coloro che le rappresentano,
quando chiedono che ciò sia riconosciuto, chiedendo giustizia
per questo.
Gli obiettivi più specifici dell'ufficio legale sono:
- innovare la cultura giudiziaria attraverso lo studio delle
fonti dell'Ue e delle organizzazioni internazionali in materia
di violenza di genere;
- elaborare strategie difensive e le prassi giudiziarie a vantaggio
delle donne e dei figli minorenni che hanno subito violenza;
- ricercare la giurisprudenza penale, civile e internazionale
più innovativa.
Questo tipo di assistenza mira a realizzare un intervento interdisciplinare
e interistituzionale operando in stretta sinergia con le psicologhe,
le operatrici e tutte le altre figure professionali presenti
nelle associazioni di genere per assicurare a ciascuna donna
un intervento mirato e specifico. I servizi prevedono la formazione
e la stretta collaborazione tra i centri, le forze dell'ordine,
i tribunali, e tutti i servizi di giustizia coinvolti.
b) I gruppi di auto mutuo aiuto
Sono rivolti essenzialmente alle operatrici dei centri ma
in alcune associazione si formano anche gruppi per le vittime
di violenza domestica. I gruppi di “auto mutuo aiuto”
si basano su una cultura solidaristica e si pongono come nuovi
modi per far fronte a situazioni di disagio personale.
Attraverso questi gruppi si rende possibile una ricca e diversificata
circolazione di esperienze, modi di pensare che si traducono
nella opportunità di ampliare i confini della propria
esperienza e delle proprie prospettive. I feedback diventano
informazioni condivise significative riguardanti il modo di
essere e di comportarsi di ognuna, contestualizzando così
la propria esperienza personale nel più ampio spettro
della violenza di genere quale fenomeno culturale. Attraverso
le esperienze delle altre vengono compresi in modo differente
i vissuti di ciascuna donna, e quindi le modalità per
affrontare e superare le diverse problematiche che l'impegno
nei centri richiede. Anche se questi gruppi vivono essenzialmente
del valore del confronto fra le partecipanti, si rivela preziosa
la presenza di una operatrice competente ed esperta che coordini
gli incontri.
c) I gruppi sulla conoscenza e cura di sé
Sono rivolti alle ospiti dei centri. Sono incontri sull'igiene
della persona e sull'igiene alimentare. Sono condotti da specialiste
di informazione medica e da dietologhe, in aiuto alla scoperta
delle motivazioni che impediscono alle donne di aver cura di
sé e al confronto sui percorsi idonei per il raggiungimento
del proprio benessere. Tali interventi si rendono necessari
poiché molto spesso le donne che vengono ospitate, sopraffatte
dalle difficoltà vissute, dimenticano la propria persona
in un crescendo di trascuratezze personali. Si ritiene
un prodromo di cambiamento positivo, quando una donna ospite
migliora visibilmente il suo aspetto e la cura che dedica agli
eventuali figli.
Le operatrici ormai sanno che il primo momento di un progetto
di successo è sempre la scoperta della cura di sé.
d) I gruppi di sostegno alla genitorialità
Per le donne accompagnate da figli minori è previsto
un percorso di rafforzamento della relazione affettiva e del
rapporto tra madre e figlio attraverso il sostegno alla genitorialità.
I centri propongono alle donne la possibilità di condividere
con le altre le proprie scelte e le proprie difficoltà,
per riconoscere la comune appartenenza ad un contesto sociale
in cambiamento, promuovendo gruppi che rappresentino delle reti
sociali che consentano alle mamme di riappropriarsi e di rivitalizzare
le proprie reti sociali naturali. Un gruppo di sostegno può
accompagnare le mamme a sviluppare ciò che è già
presente in loro internamente, senza sostituirsi al loro ruolo,
aiutandole però ad esprimerlo e ad approfondirlo.
e) Gli incontri protetti
A volte il tribunale dispone che il genitore non affidatario
possa incontrare il figlio solo in condizioni protette. Le ragioni
possono essere molteplici. Può accadere semplicemente
perché il genitore è stato per lungo tempo lontano
dal piccolo e deve quindi lentamente ristabilire con lui una
relazione. Spesso però le ragioni sono più gravi:
il bambino può aver assistito alla violenza esercitata
sulla madre, e dunque teme che il genitore sia una minaccia
anche per lui, o può essere stato maltrattato, o rischia
di essere portato oltre il confine nazionale nel caso in cui
il genitore è cittadino di un altro paese. In questi
casi particolarmente problematici il tribunale tutela il minore
disponendo per lui questo sistema di protezione, evitando così
di interrompere definitivamente il rapporto fra il genitore
e il figlio.
Spesso il tribunale o i servizi sociali incaricano i centri
antiviolenza di svolgere gli incontri protetti all'interno dei
propri centri. In ognuno dei centri antiviolenza vi è
un locale accogliente e fornito di giocattoli destinato a questi
incontri.
Inizialmente il genitore viene convocato dalla struttura ospitante
e messo al corrente delle modalità in cui si svolgono
questi incontri, che potranno iniziare solo dopo che il genitore
abbia accettato e firmato il regolamento che li norma.
Un'operatrice specializzata dell'associazione accompagna il
bambino e resta come testimone attenta durante le ore di incontro
(due ore circa).
L'operatrice scrive poi una breve relazione sui comportamenti
del genitore, sui miglioramenti nella relazione fra padre e
bambino o sulle difficoltà a volte insormontabili che
questi incontri denunciano. Semestralmente il tribunale riceve
una relazione complessiva dove si può dedurre se gli
incontri hanno dato buoni risultati o se invece i rischi iniziali
si sono attenuati o accentuati. Le operatrici dei centri svolgono
quindi non solo una funzione di tutela del bambino, ma anche
di garanti dei provvedimenti del tribunale lavorando in stretto
contatto con i servizi territoriali e con le istituzioni.
f) I servizi antistalking
Ancor prima che venisse promulgata la legge antistalking 38/2009
l'associazione Differenza Donna di Roma, riconoscendo la gravità
del fenomeno, si è dotata in ogni suo centro di sportelli
antistalking che offrono: counselling psicologico; consulenza
e assistenza legale per le vittime di stalking; sostegno psicologico,
indispensabile in particolar modo durante quella delicata fase
dove alla vittima si richiede collaborazione nel processo di
raccolta delle prove; valutazione del rischio di recidiva e
di escalation, utilizzando per i casi di stalking tra
ex partner il metodo Thais (Threat Assessment of Intimate
stalking) e il Sara (Spousal Assault Risk Assessment);
monitoraggio dei casi attraverso studi di follow-up per
la verifica dell'efficacia dei vari percorsi giudiziari ed extragiudiziari
intrapresi; contatto diretto con lo stalker, qualora non ci
sia un procedimento in corso, per informarlo dei rischi legati
alla sua condotta e delle possibili conseguenze, e per proporgli
un percorso di sostegno e di elaborazione delle sue problematiche;
promozione di percorsi di formazione e aggiornamento rivolti
ad altre associazioni di genere, psicologhe, educatrici, operatori
dei servizi sociali, forze dell'ordine e della giustizia, operatori
sanitari, scuole, professionisti, università, istituzioni
nazionali e internazionali.
g)
La salute delle donne: il Codice Rosa
La violenza denunciata spontaneamente dalle donne è
solo una parte del reale numero delle vittime di violenza.
Così come le forze dell'ordine a cui esse si rivolgono
hanno il dovere di informarle sui propri diritti, piuttosto
che consigliar loro di non rovinare una famiglia, tanto
il medico o l'infermiere che incontra una donna con lesioni
dirette o indirette, presumibilmente dovute ad uno o più
episodi di maltrattamento, ha il dovere di renderla consapevole
della correlazione tra lo stato di salute in cui versa e le
conseguenze traumatiche del suo vissuto.
Le vittime di violenza utilizzano frequentemente i servizi legati
alla salute: medico di famiglia, pronto soccorso, consultori
per Ivg o visite ginecologiche, centri specialistici per cefalee
o altri disturbi cronici. Eppure, anche in questo caso, gli
operatori addetti tendono a non vedere, a non riconoscere,
e ad attuare quindi gli schemi stereotipanti di cui abbiamo
già parlato, correlati cioè all'esonero del
violento e ad atteggiamenti di biasimo/colpevolizzazione
della vittima fino a ritenere, nei casi dei peggiori pregiudizi,
la possibilità che le vittime siano masochiste,
o complici della violenza. L'emergenza codice rosa
nasce per individuare i fattori predittivi di una situazione
presumibilmente correlata alla violenza di genere, a partire
dalla constatazione di uno stato di malattia, con l'obiettivo
di individuare ed attivare gli interventi più adeguati
allo specifico caso.
L'associazione Differenza Donna, attuatrice della sperimentazione
del codice rosa presso alcune strutture mediche della
capitale, tra cui il policlinico Umberto I, ha attivato negli
ultimi anni un servizio in loco grazie al quale ha affiancato
gli operatori sanitari, per individuare con loro gli indicatori
di violenza atti a redigere l'anamnesi del malessere e della
violenza da accludere all'anamnesi clinica della donna o
del minore, realizzando le buone pratiche dell'accoglienza
in sinergia con gli operatori sanitari.
Il codice rosa, attualmente attivo, garantisce:
- un attento ascolto del contesto sanitario, in cui è
possibile individuare situazioni di violenza; la possibilità
di attivare le risposte necessarie attraverso il coinvolgimento
immediato di altre figure (forze dell'ordine, magistrato competente);
- il confronto tra l'operatrice specializzata in violenza di
genere e gli operatori sanitari, per il riconoscimento dei singoli
casi come parte di un fenomeno sociale più ampio;
- la possibilità di documentare le attività svolte
per produrre dati utili a ricerche epidemiologiche e qualitative,
e dunque per monitorare e convalidare le prassi adottate;
- la sperimentazione di un approccio prognostico per individuare
i fattori predittivi di un probabile rischio di recidiva, utile
a realizzare un piano efficace di gestione e contrasto della
stessa. La rete messa in atto dal codice rosa prevede
l'intervento della magistratura penale e civile dei tribunali
ordinari e dei tribunali dei minorenni, le forze dell'ordine,
le aziende ospedaliere, le aziende sanitarie locali, i servizi
socio-assistenziali e socio-sanitari, le scuole e, ovviamente,
i centri antiviolenza.
Specializzare, sensibilizzare, informare, comunicare
a) Formazione
Una delle attività fondamentali dei centri antiviolenza
è la formazione, intesa come crogiuolo di azioni volte
a sensibilizzare, informare, specializzare,
raggiungendo in tal modo il maggior numero di persone e attori.
Dal 1993 l'associazione Differenza Donna nello specifico offre
gratuitamente ogni anno a circa 45 donne un corso teorico pratico
di nove mesi per future operatrici, e una formazione permanente
alle operatrici già attive nei suoi centri antiviolenza.
Ogni associazione di genere e centro antiviolenza promuove,
all'interno di progetti finanziati da enti locali, dipartimento
pari opportunità della presidenza del consiglio, ministero
della salute, ministero del lavoro, ministero degli affari sociali,
provveditorati agli studi, regione di competenza, corsi di formazione
specializzata per operatori del settore, magistrati, forze dell'ordine,
polizia municipale, psicologi, operatori sanitari, assistenti
sociali, associazioni di donne, nonché corsi di sensibilizzazione
per studenti e docenti delle scuole pubbliche primarie e secondarie
e corsi specialistici o laboratori promossi da alcune università.
b) Prevenzione
Contrastare la violenza di genere significa lavorare non solo
sulle conseguenze e i traumi che questa comporta per le donne
e i loro figli, ma anche e soprattutto nel contribuire a prevenirla.
Ogni attività di formazione promossa dai centri antiviolenza
è intesa come occasione di prevenzione.
Le associazioni di genere scelgono spesso di lavorare con le
adolescenti e gli adolescenti con l'obiettivo di favorirne la
crescita, portando l'ottica di genere quale apprendimento
necessario per la costruzione dell'identità di sé
e il riconoscimento di quella degli altri e delle altre attorno
a sé.
Dall'esperienza delle metodologie proprie del lavoro politico
tra e per le donne vittime di violenza fatta nei
centri antiviolenza, le socie hanno messo a punto, grazie a
professionalità diverse, percorsi didattici di prevenzione
rivolti ai ragazzi e alle ragazze delle scuole pubbliche primarie
e secondarie con i principali focus sull'alfabetizzazione
emotiva, la de-strutturazione degli stereotipi di genere e l'attivazione
di letture critiche del fenomeno della violenza, attuati con
metodologie relazionali innovative e secondo un'ottica di genere.
Nascono così progetti di prevenzione primaria che di
volta in volta trovano la collaborazione delle istituzioni nazionali
e locali, delle associazioni professionali, della scuola, del
mondo della ricerca.
I percorsi didattici di prevenzione alla violenza sulle donne
permettono di entrare in contatto con i bambini e gli adolescenti
attraverso uno scambio intergenerazionale non-giudicante sui
temi di genere, di costruire con loro una presa di coscienza
critica della propria identità di genere, di ri-leggere
le loro relazioni tra pari in un'ottica di rispetto e
apprezzamento delle differenze.
c) L'Osservatorio che comunica la violenza di genere
Solidea, l'Istituzione di Genere femminile e Solidarietà
della provincia di Roma, attiva nel 2005 un osservatorio sulle
donne vittime di violenza e i loro bambini.
Questo spazio provvede da allora alla costruzione di strumenti
di diffusione e di divulgazione delle informazioni diretti sia
ai cittadini che agli operatori del settore, al fine di supportarne
la difficile gestione delle quotidiane criticità.
A partire dalla raccolta sistematica dei dati, l'organizzazione
e lo studio di alcuni aspetti del fenomeno, l'esperienza maturata
a livello locale è divenuta un esempio di buona pratica
nel campo della diffusione e della disseminazione delle informazioni,
tanto da allargarsi alla provincia di Vibo Valentia in Calabria
e in Toscana, attraverso la formazione delle operatrici dell'associazione
Frida di Ponte a Egola (Pi).
L'Osservatorio copre diverse aree di studio e di ricerca:
- l'area giuridico-normativa (leggi promulgate sul tema, livelli
di attuazione delle norme, aree tematiche e territorio);
- l'area statistica (sistema di indicatori di genere, contesti,
approfondimenti tematici, soggetti specifici);
- la mappatura dei servizi presenti sui territori;
- la diffusione delle pubblicazioni dell'osservatorio e dei
link utili.
L'osservatorio ospita inoltre un'area riservata (intranet)
nella quale è in fase di sperimentazione l'attivazione
di un flusso informativo basato sulla rilevazione di una serie
di dati socio-demografici e dei bisogni specifici relativi alle
donne che si rivolgono ai centri, che alimentano una base di
micro-dati.
Attraverso un sistema di warehousing, la raccolta e l'incrocio
dei dati garantisce la produzione di mini-report aggiornati
con le informazioni statistiche aggregate per vari livelli.
L'area riservata alle operatrici dei centri per l'inserimento
dati è ovviamente governata in base alle norme sulla
tutela della privacy (d.lg. 196/2003).
L'analisi della totalità dei dati inseriti permette un
approfondimento sulle condizioni della donna nelle aree che
fanno parte dall'osservatorio, sulle forme di espressione della
violenza di genere, sulle azioni più efficaci attuate
per accrescere la consapevolezza della gravità della
situazione nelle vittime, sui percorsi virtuosi intrapresi per
affiancarle nel momento di fuoriuscita dalla violenza.
La homepage dell'osservatorio è nel sito: solideadonne.org.
Una porta che apre ad un mondo che non è fatto solo di
donne, ma di donne e di uomini.
Perché la violenza dell'uomo sulla donna impone una riflessione
che li comprenda entrambi: affinché il cambiamento culturale
si traduca in comune consapevolezza del valore reciproco e paritario
della dignità umana e della ricchezza delle sue differenze.
La più felice espressione di tale consapevolezza si realizza,
infatti, nella relazione.
Francesca Cuccarese e Milena Scioscia
|