Botta.../ A
proposito di papa Francesco
In riferimento all'articolo “Furbi
et orbi” di “Dada Knorr”, alias Francesca
Palazzi Arduini (“A” 385, dicembre 2013/gennaio
2014, pagg. 29-36), vorrei fare qualche precisazione.
1) Di per sé lodevolissima e comprensibile la volontà
dell'autrice di ridimensionare l'entusiasmo di molti (anche
laici indefessi e “sfegatati”) per il nuovo papa
buono. D'altronde, credo che il cambio di passo rispetto al
suo predecessore (Ratzinger, il “teologo” anche
come tale sopravvalutato, ma qui dovrei citare testi e non lo
faccio; mi limiterò a dire che l'unico gesto positivo
da lui compiuto sono state le sue dimissioni, poi altrimenti
definite, quale rinuncia etc, in conformità al codice
di diritto canonico...), non solo sul piano stilistico, ma su
quello pastorale (su quello dogmatico vedremo, per ora non certo
nell'enciclica “Lumen Fidei” scritta insieme a Benedetto
XVI) sia chiaro.
Ora, che gli anarchici considerino il papato come istituzione
qualcosa da negare e combattere è comprensibile, anzi
è “cosa buona e giusta”. Tuttavia non considerarlo
rispetto a Ratzinger e Woytila sarebbe antistorico e miope (non
dico che lo sia l'articolo citato, attenzione, ma temo possano
crearsi fraintendimenti in questo senso, allargando il discorso,
unendo questo ampio articolo ad altre prese di posizione consimili),
ma, come è acquisito essere comunque “meno peggio”
una democrazia di una dittatura, allo stesso modo dovrebbe essere
chiaro che un papato come quello di Francesco è più
vicino allo spirito conciliare rispetto a quello ratzingeriano,
sempre parlante “ex cathedra”, anche quando sembrava
non farlo.
2) Quanto ai giudizi finali, che sono tra loro diversi, ce n'è
uno che, posso assicurarlo per conoscenza diretta, è
decisamente in controtendenza rispetto agli altri: quello del
prof. De Marco, docente di sociologia della religione, “che
critica il papa per il “linguaggio liquido”, adottato
per compiacere la stampa, che pare annunciare la rinuncia del
papa cattolico alla certezza dottrinale” (cit. dall'autrice
a p.32).
Ora, come si evince chiaramente anche solo da questa citazione,
il prof. De Marco, schierato ormai sostanzialmente su posizioni
pre- (e anche anti-) conciliari (dopo un passato diverso), non
fa parte del coro di “critiche progressiste” (semplifico
per i lettori) citato da Francesca Palazzi Arduini e non ritengo
che l'intelligente articolista possa fare propria un'argomentazione
di tal genere, piuttosto ratzingeriana. Un papa che, a proposito
dei gay, ha affermato (dichiarazione mai smentita, non come
quelle “aggiustate” da Scalfari...): “Chi
sono io per giudicare un gay?” segnerà pure una
differenza rispetto ai suoi predecessori. Non può essere
semplice camouflage.
Eugen Galasso
Firenze
...e risposta/ Uno sguardo politico materialista
Ringrazio Galasso per aver ricordato che le perplessità
nei confronti di questo nuovo papato provengono sia dall'ala
cattolico-progressista che da quella conservatrice, cosa che
le conferma ancor meglio come fondate.
Ritengo però che la critica di Galasso offra spunti più
importanti: il suo definire gli “anarchici” come
coloro che “combattono il papato” a priori,
e non vogliono riconoscere l'evoluzione verso la democrazia
a suo dire proposta da 'Francesco' pone la discussione su un
falso piano, proprio sul piano che vuole la Chiesa, quello astratto.
Nel mio caso, lo sforzo di analisi è confrontare invece
queste parole, questa strategia mediatica, da un lato col fenomeno
antropologico e sociale della religiosità e soprattutto
con la loro funzionalità politica.
Per chi vive la Chiesa le parole di Bergoglio hanno tonalità
forti, dopo decenni di regime, ma sono anche semplicemente l'ultimo
disperato tentativo di salvare l'apparato dalla completa deriva,
sono strumentali quindi, e provengono dalla gerarchia alla quale
Bergoglio appartiene pienamente, e non certo dalla base, mai
ascoltata. Questo è interessante da analizzare, per noi
anarchic*, che se una virtù possediamo è quella
di essere capaci di sfuggire alle retoriche del Potere.
Proprio l'esempio dell'atteggiamento verso le persone omosessuali
(già caritatevolmente accettate dal Catechismo), fatto
da Galasso nella sua lettera, conferma la validità di
uno sguardo politico materialista nei confronti di questo papato
“del male minore”: la storia dell'astuta battaglia
del gesuita contro la regolarizzazione delle unioni gay si può
leggere nel volume curato Popo Francis, Our Brother, Our Friend
di Alejandro Bermùdez (http://www.ignatius.com/Products/OBP-H/pope-francis-our-brother-our-friend.aspx).
Francesca Palazzi Arduini
Fano (Pu)
Anarchismo o barbarie
Dico subito che non sono un teorico, dunque non aspettatevi
da me analisi sottili e tanto meno raffinate. Sono più
modestamente uno scrittore, uno che osserva gli uomini nella
loro concretezza, gli uomini come sono, non gli uomini come
dovrebbero essere. L'uomo con la sua umanità e la sua
perversione; la sua tenerezza e la sua ferocia; la sua compassione
e la sua spietatezza; la sua solidarietà ed il suo egoismo;
il suo bisogno di libertà e la sua pulsione ad opprimere;
il suo atteggiamento di vittima ed il suo ruolo di carnefice;
la sua generosità e la sua vigliaccheria; la sua moralità
e la sua corruzione; il suo cuore puro e il suo cuore corrotto.
L'uomo con i suoi enigmi, il suo sottosuolo “oscuro”,
la sua natura molteplice e spesso insondabile di angelo e demone;
di creatura pacifica ma dominata altresì, da un primordiale
istinto criminale. Uno scrittore che maneggia sentimenti, che
indaga l'agire degli uomini, i rapporti che li relazionano o
li separano, in una parola: la vita.
Uno scrittore che mette al centro della sua riflessione la vita
e ne celebra la difesa, non può non essere un libertario.
Perché si oppone, o dovrebbe opporsi, a quanti l'esistenza,
la vita, mortificano, annientano, umiliano, violentano. E quando
dico vita, intendo vita in ogni sua forma.
Io sono dunque uno scrittore e sono un libertario. Ho detto
libertario e non anarchico: possiedo una quantità considerevole
di testi di autori anarchici; conosco il pensiero e le imprese
del movimento in vari paesi del mondo; soprattutto conosco la
loro condotta esemplare, il loro sacrificio, la vita spesa senza
risarcimenti. So, inoltre, che non sono mai stati degli opportunisti,
ed io non posso non amare questi uomini e queste donne, ed ecco
perché davanti alla loro grandezza di giganti io mi sento
un nano, e non mi ritengo alla loro altezza. Lasciate perciò
che mi dichiari semplicemente un libertario, con le sue contraddizioni
e le sue difficoltà. Per un libertario è ovvio,
la libertà è fondamentale; e la storia ci dice
che la libertà è sempre costata sangue, in ogni
epoca e sotto ogni regime (...).
Vogliamo ricordare a chi ci legge, che sono venuti prima le
ingiustizie, l'oppressione, il servaggio, le disuguaglianze,
le persecuzioni, lo schiavismo, il saccheggio, l'assoluta mancanza
di diritti e di libertà; poi, ma solo molto dopo, è
venuta la rivoluzione come risposta necessaria, obbligata, contro
chi calpestava la vita e umiliava gli uomini. La rivoluzione
ha dovuto a lungo subire prima di dispiegarsi. Ha dovuto sopportare
molto sangue prima di farsi a sua volta sanguinaria. Il terrore
lo hanno cominciato i governi e gli Stati, non i sudditi o i
cittadini (...).
“A chi è spogliato di tutto restano le armi”;
non è stato né Marx né Bakunin a scrivere
questa frase, ma il poeta satirico latino Giovenale, più
di diciassette secoli prima.
Dal punto di vista di quella che io chiamo difesa della vita
nelle sue molteplici forme e delle risorse, gli Stati (fascisti,
comunisti, capitalisti e teocratici) si equivalgono; dal punto
di vista dei morti il capitalismo ne ha fatti di più,
se non altro perché la sua parabola storica è
molto più lunga, dura da più tempo. Dunque l'anarchismo
non ha nulla da imparare da essi. Dal punto di vista morale
l'anarchismo è enormemente superiore: fonda i suoi principi
sulla solidarietà e la libertà, e non scinde queste
due istanze dal bene prezioso dell'uguaglianza. Senza uguaglianza
le democrazie sono monche; senza uguaglianza le élites
al potere si impossessano dei beni pubblici; fanno valere il
loro peso economico nei confronti dei cittadini privi di risorse;
schiacciano chiunque li voglia portare in giudizio, anzi, chi
non ne possiede i mezzi economici non può neppure adire
alle vie legali; tutelano i loro privilegi e condizionano le
scelte dell'esecutivo con una pletora di giuristi, tecnici,
lobbies fra le più varie. Le società liberali
e capitaliste hanno portato i loro paesi alla guerra contro
la schiacciante volontà dei loro popoli e in spregio
ad ogni legalità, e la democrazia viene messa sotto i
piedi con tracotanza, ogni qual volta “la volontà”
dei governi e degli Stati, confligge con gli interessi dei cittadini.
Da tempo oramai, nelle società liberali, il diritto di
voto è diventato un voto senza diritti.
L'anarchismo è moralmente superiore perché pone
al primo posto la vita degli esseri umani senza distinzioni
di razze, di religioni, di tendenze sessuali; non esiste pensiero
più tollerante di quello libertario. Perché non
comprende l'idea di guerra, di eserciti, di corpi speciali,
di servizi segreti, di segreti di stato. Una società
libertaria abolirebbe immediatamente tutta questa criminosa
zavorra e userebbe le risorse per eliminare la povertà,
per favorire l'educazione, per tutelare le tre risorse fondamentali
dell'esistenza (aria, acqua e suolo) oggi minacciati da un uso
mercificatorio e rapinoso da parte del capitalismo liberale
e dai regimi imperanti in ogni dove.
L'anarchismo è superiore perché non è,
per sua fortuna, né una scienza né un sistema;
è molto di più: è un metodo e un'esperienza
pratica di vita e di lotta, fra i più umani fra quelli
finora conosciuti. Un metodo che risiede nelle mani di coloro
che agiscono e lo mettono in pratica, non sta al di fuori di
essi, non è delegato a corpi separati ed estranei. Un
metodo denso di contenuti, di proposte concrete, di istanze
fattibili qui e ora.
Dunque anarchismo o barbarie, questo possiamo affermarlo con
decisione. Il paradosso delle democrazie liberali, soprattutto
in tempo di crisi, è che si trovano davanti ad un bivio
piuttosto serio per sopravvivere come tali: accogliere alcuni
contenuti del pensiero libertario, o piegarsi ad orrende e disumane
conversioni. In passato è prevalsa questa seconda via.
L'abbraccio mortale con il nazifascismo e le dittature militari
sono lì a dimostrarlo.
Angelo Gaccione
Milano
Dalla casa di reclusione di Padova/ Non so se si possa chiamare
giustizia
Il 18-19 dicembre scorsi si è tenuto dentro la Casa
circondariale di Padova il 5° congresso di Nessuno tocchi
Caino, l'organizzazione di area radicale che da un ventennio
si batte per una moratoria internazionale della pena di morte,
contro l'ergastolo, a favore dell'amnistia e in genere si occupa
di molte tematiche e battaglie legate al mondo della detenzione.
Nella sala-cinema del carcere, mandati in onda in diretta
e video-registrati da Radio radicale (http://www.radioradicale.it/scheda/398441),
i lavori hanno ospitato numerose relazioni di grande interesse
e soprattutto alcune forti testimonianze di detenuti in regime
di alta sicurezza (il famoso 41 bis), tra i quali Carmelo Musumeci
(curatore di una rubrica sulla nostra rivista)
e Luigi Guida (autore della lettera qui di seguito pubblicata).
Ho partecipato “da esterno” ai lavori e cortesemente
il segretario “storico” di Nessuno tocchi Caino,
Sergio d'Elia, mi ha invitato a intervenire. Nel farlo, ha ricordato
di aver iniziato la sua attività politica, nei primi
anni '70, proprio negli ambienti anarchici fiorentini.
Come accenna Luigi Guida in questo suo scritto, nel mio breve
intervento ho ricordato che su “A” esiste dallo
scorso ottobre la rubrica di Carmelo Musumeci “9999, fine
pena mai” che è dedicata alla battaglia contro
l'ergastolo, con particolare attenzione alla sua forma più
“dura”, quello ostativo. Ma ho anche precisato che
con Carmelo siamo d'accordo che l'interesse si estende alla
situazione nelle carceri e dei carcerati. Quindi rivolgendomi
ai numerosi detenuti presenti li ho invitati a scriverci, a
“usare” la nostra rivista – per piccola che
sia – come un ulteriore strumento per rompere quella cortina
(assai materiale oltre che psicologica) che separa il mondo
dentro da quello fuori. E la lettera di Guida, che pubblichiamoqui
di seguito, conferma questo ulteriore possibile ruolo concreto
di “A”.
Analogamente a quanto fa Carmelo, che questa volta nella
sua rubrica dà voce alla protesta di un detenuto
improvvisamente trasferito da Torino a Tempio Pausania, in Sardegna,
nonostante gravi problemi di salute, la vicinanza agli affetti
familiari e la stessa normativa carceraria ostino (come si dice
in brucratese carcerario) al suo trasferimento. Ma tant'è.
Il carcere è spesso un mondo a parte, dove diritti umani,
dignità della persona, senso di umanità e pietas
non possono nemmeno mettere piede.
Paolo Finzi
Gentile direttore, sono il detenuto Guida Luigi, mi sono abbonato
quasi un anno fa alla sua rivista tramite il mio amico e fratello
Carmelo Musumeci.
Ieri nel convegno di “Nessuno tocchi Caino” tenutosi
nella casa di reclusione di Padova ho avuto modo di sentirla
in un suo intervento e così anche di conoscerla da vicino,
dalle sue parole mi è sembrato di capire che sarebbe
stato contento di ricevere pensieri di altri detenuti per mettere
nella pagina che con tanta gentilezza ha deciso di dedicare
al “fine pena mai” e a tutto l'universo carcerario.
Io ho trentadue anni, e dalla minore età ad oggi ne ho
trascorsi quasi tredici se pure non ininterrottamente nelle
patrie galere per reati contro il patrimonio, senza mai aver
avuto il piacere di ricevere quella benedetta liberazione anticipata
e quindi di conseguenza senza mai avere avuto la possibilità
di vedermi applicato quel benedetto art.27 della nostra costituzione
che tutti lodano ma che quasi nessuno combatte concretamente
per far sì che nelle nostre patrie galere venga attuato
veramente nei confronti dei detenuti.
Quindi in virtù anche della dichiarazione che fece il
ministro Galan sulla possibilità di riusare le caserme
dismesse per ampliare i posti disponibili, senza capire che
i detenuti non è di spazio che hanno bisogno per mettere
in discussione mentalità e comportamenti, ma di percorsi
rieducativi fatti di lavori, confronti e progetti culturali,
come è stato quel magnifico convegno di ieri, infatti
ho deciso di scriverle questo mio pensiero sulla disastrata
situazione che affligge il nostro sistema carcerario e sulle
modalità detentive che vive la stragrande maggioranza
di detenuti.
Illustrissimi lettori (Governanti) spero mi perdoniate non vorrei
sottrarvi del tempo: ma so che purtroppo dovrò farlo,
capisco che la mia storia come quella di tanti altri miei compagni
non sia docile da capire e noi stessi non saremo mai abili nel
raccontarla. Ma vede c'è veramente qualcosa che non va
nel nostro paese perché si continuano a varare leggi
cancerogene (Bossi-Fini, Fini-Giovanardi, ex Cirielli) ma nello
stesso tempo poi ci si lamenta che il sistema carcerario non
funziona, che continua a riprodurre i futuri delinquenti di
domani, mentre invece dopo un'esperienza carceraria dovremmo
aver raggiunto quanto meno l'obiettivo che i detenuti siano
divenuti persone migliori di come sono entrate, con consapevolezze
e strumenti diversi da quelli che avevano in passato, ma attualmente
è pura utopia, e se non ci affrettiamo ad abolire queste
leggi cancerogene degli ultimi anni rimarrà sempre così
perché da una parte si dichiara che le persone debbono
fare un percorso rieducativo, ma dall'altra applicate leggi
che lo proibiscono, un cane che si morde la coda insomma.
Ma è proprio da questa presente forma di espiazione che
dissento in quanto ci considera nient'altro che da escludere
da qualsiasi forma di reinserimento verso l'esterno come se
qualcuno qui dentro e lì fuori non può che ricevere
dalle persone che hanno commesso degli errori nella vita, solo
il loro passato facendoci pagare le conseguenze delle nostre
azioni due volte non tenendo conto che le persone in questione
tante volte abbiano già subito una dura condanna per
quello, quindi prendendoci per i capelli del tutto indifferenti
al fatto che le persone nel frattempo negli anni siano persone
diverse da quando hanno commesso i loro reati. Io penso che
non dovrebbe essere né scomodo, né comodo chiedere
di essere per gli altri qualcos'altro ma solo giusto e conforme
alla nostra costituzione.
In pratica o in sintesi, il detenuto ha il diritto di convergere
la sua espiazione di pena partecipando a qualcosa di sensato,
anche perché è l'unico modo per dare un senso
alla pena, e far sì che nelle persone inizi a crescere
un seme di onesto e di buono.
I detenuti hanno il diritto a non vedere sprecata la sofferenza
della pena, non facendola diventare fine a se stessa, adoperandosi
così in qualche modo a non rassegnarsi alla pena, o almeno
a qualsiasi tipo di pena.
Noi tutti dovremmo lottare perché le persone rinchuse
partecipino a qualcosa che abbia un valore, che realizzi il
senso di un cambiamento. Se si deve star male è giusto
che non sia una sofferenza così stupida, inutile, così
sprecata.
Non so se si possa chiamare giustizia parcheggiare una persona
in un luogo per ventiquattro ore al giorno senza far nulla,
solo a guardare il soffitto dalla sua branda e costringerlo
con la sua coscienza a guardare solo indietro crescendo nella
persona un approfondimento del rimorso, o rischiando di farle
costruire un nuovo muro di durezza?! Io sono convinto che rieducare
non significhi cancellare il passato delle persone o farlo dimenticare,
ma promuovere un percorso verso il futuro.
Quindi è paradossale che oggi il carcere abbia funzione
rieducativa solo per pochi eletti. È paradossale anche
in riferimento al progresso trattamentale perché come
requisito vorrebbe dire che nelle patrie galere dovrebbe esserci
un trattamento che qualcuno ha costituito un programma educativo
e le iniziative che lo attuano. Ma io le dico che non è
affatto così (almeno nelle mie sedici carceri che ho
avuto la sfortuna di girare in questi anni prima che arrivassi
a Padova...) perché quel poco che c'è è
dovuto solo da qualche iniziativa di qualche volontario, niente
viene preposto dalle istituzioni, come finalità della
pena e nessuna attività viene data come strumento per
cambiare.
Eppure non mi pare che tutti l'insegnamenti dei codici penali
siano interpretati con sfiducia quando ci si deve condannare,
anzi tutto ciò che c'è scritto si sforza di indicarci
in che direzione dobbiamo andare... Tuttavia però, le
contraddizioni riappaiono ogni qual volta le pene inflitte non
tendono alla riparazione, alla difesa e al recupero del condannato,
facendoci pagare male con male, con lo stesso linguaggio di
violenza negando di fatto la possibilità di essere altro.
Mi saprebbero dire a che cosa servono modalità detentive
di questo tipo? A niente, perché le statistiche rispondono
che non servono, che dopo il tempo inutile aumentano le sofferenze
e la recidiva, ma continuiamo a far finta di nulla perché
per una parte della nostra società resta comunque il
senso che questo sia giustizia. Il significato ventisette della
costituzione, quello che tutti lodiamo davanti alle telecamere
o nei salotti televisivi, ma di fatto continuiamo a calpestare
tutti i giorni nelle quotidianità, è opposto alla
passività perché non aggiunge altro che male di
rivalsa.
Guardi, glielo dico senza reticenze, se la mia storia come quella
di tanti altri ci ha portato in carcere, forse c'è qualcosa
da cambiare se vogliamo ottenere dei risultati migliori, questo
vale per me e per tutte quelle persone che hanno voglia di provarci
perché ognuno ha dentro delle possibilità, ma
ciò sarà possibile solo quando ad una giustizia
“utile” inizierebbe ad interessarsi anche di quello
che potremmo essere, che potremmo diventare, e non solo quello
che siamo stati.
Ieri ho ascoltato una bellissima frase che condivido molto al
convegno, mi sa che era di Cesare Beccaria: La civiltà
di un paese la si misura guardando le scuole e le carceri di
quella nazione, solo quando le scuole inizieranno ad essere
carceri, e i carceri inizieranno a diventare vere e proprie
scuole, allora potremmo dire che siamo un paese civile... Nonostante
abbia poca fiducia in un'istituzione miope come quella attuale,
penso che comunque sia vale la pena continuare a lottare perché
le cose cambino, perché le carceri diventino scuole di
cultura però!
N.B. La ringrazio per l'attenzione datami e le porgo i miei
auguri di buon Natale e felice anno nuovo a lei e a tutta la
redazione.
Luigi Guida
Carcere di Padova
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Franco Schirone (Milano)
100,00; Marisa Giazzi e Gianni Forlano (Milano) buon
anno ad “A”, 100,00; “Uro”
e “Pavolone” (Milano) ricordando l'amico
fraterno di vita e di lotte Paolo Soldati, 500,00;
Vincenzo Argenio (San Nazzaro – Bn) 10,00; Orsola
Costantini (Toronto – Canada) 10,00; Umberto
Di Giuliomaria (Velletri – Rm) 4,00; a/m Furio
Lippi, Claudio Albertani (Città del Messico
– Messico) 70,00; a/m Selva Varengo, Gianmaria
Solari (Lugano – Svizzera) 10,00; Daniele Cimolino
(Tavagnacco – Ud) 20,00; Salvo Vaccaro (Palermo)
10,00; Fabiana Antonioli (Coassolo – To) 40,00;
Roberto Pietrella (Roma) per un abbonamento in carcere,
40,00; Attilio A. Aleotti (Pavullo nel Frignano –
Mo) 10,00; Valerio Pignatta (Semproniano – Gr)
10,00. Totale € 1.134,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Matteo
Semprini (Verucchio – Fi); Gianni Pasqualotto
(Crespano del Grappa – Vi) 213,00 Silvio Gori
(Bergamo) ricordando Egisto, Maria e Minos Gori, 120,00;
Fabio Zavanella (Verona); Manuele Rampazzo (Padova);
Selva Varengo e Davide Bianco (Lugano – Svizzera);
Fiorella Mastrandrea e Amedeo Pedrini (Brindisi);
Gian Paolo Zonzini (Borgo Maggiore – Repubblica
di San Marino); Roberto Pietrella (Roma) 200,00. Totale
€ 933,00.
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