Arte, collera e remunerazione
1.
Nei mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014, a Milano, a Palazzo
Reale, era visitabile una mostra intitolata Pollock e gli
irascibili. Si trattava di una mostra dedicata alla cosiddetta
Scuola di New York che, peraltro, annoverava pittori che si
esprimevano in modi molto diversi l'uno dall'altro, ma non è
del criterio di scelta che voglio parlare. Liberi tutti di associare
questo a quello secondo un proprio criterio. Che, in questo
caso, il criterio di scelta sia stato quello dell'irascibilità
a mio avviso non è molto significativo, perché
la storia dell'arte è piena zeppa di pittori irascibili.
Se volessimo ri-immergerci nella vita quotidiana di un Cezanne,
per esempio – anche avvalendoci dei più affettuosi
ricordi dell'amico e allievo Emile Bernard (Skira, Milano 2011)
–, lo scopriremmo furioso contro il mondo intero, imprevedibilmente
incontrollabile. D'altronde, l'artista in genere è sempre
in bilico tra la commiserazione di sé e l'orgogliosa
tronfietà e quando i riconoscimenti pubblici non arrivano
ecco che la frustrazione si traduce in ira. Mark Rothko, per
fare un altro esempio pescando proprio fra gli americani dello
stesso periodo vissuto da Pollock, ha litigato quasi tutta la
vita con chiunque gli venisse a tiro – bastava che si
appendesse un suo quadro pochi centimetri più in alto
o più in basso di come voleva lui (cfr. i suoi Scritti
sull'arte, Donzelli, Roma 2006) e sia chiaro che, comprendendone
le ragioni, questo lo dico senza aver alcuna intenzione di attribuirgli
dei torti.
Si
potrebbe dire che l'associare artisti di solito si fa in nome
di qualche particolare stilistico – in base alle assonanze
delle soluzioni espressive – e non in base a “pubblici”
aspetti caratteriali – accettandone quella sorta di autorappresentazione
che, comunque, va innanzitutto ricondotta all'artista medesimo
e non ad un “dato di fatto” –, ma il mio problema
comunque non sta lì. Purché qualcuno poi se ne
assuma la responsabilità associno pure i pittori come
pare loro e per il criterio che ritengono più opportuno
– il mio problema riguarda invece un manifesto, affisso
a Milano più o meno in contemporanea con l'evidente scopo
di promuovere la mostra stessa.
Allora: su uno sfondo scuro ci sono alcune macchie e alcuni
schizzi di colore più e meno casuali, c'è il titolo
della mostra, ovviamente – Pollock e gli irascibili –
e c'è una scritta che sovrasta tutto: “e se questa
fosse un'opera d'arte?”.
Ritengo questa domanda puerilmente retorica – e fondamentalmente
antieducativa –, per almeno due ordini di motivi. Il primo
è storico, il secondo metodologico.
Pollock è morto nel 1956 – più di cinquant'anni
fa –. Prima di lui, che so, nel 1917, Duchamp prese un
orinatoio e lo ribattezzò come opera d'arte; Man Ray,
nel 1921, prese un ferro da stiro, in ghisa, e gli piantò
14 chiodi sul fondo. Con il pregresso la smetto subito, perché
l'elenco sarebbe sterminato. Dopo Pollock, poi, abbiamo avuto
perfino Chris Burden che, come opera d'arte, si è fatto
sparare in un braccio in pubblico. Voglio dire che questa domanda,
“e se questa fosse un'opera d'arte?”, è troppo
vecchia e pelosa per essere una domanda credibile e sensata.
Sembra una domanda posta al tempo in cui la borghesia s'interrogava
inquieta sull'evoluzione dell'arte e sul suo distacco dalla
rasserenante rappresentazione della natura – prima che
l'épater les bourgeois, la parola d'ordine, per i pochi
fortunati si traducesse in quattrini – in valore dell'opera
nel mercato (un Pollock del 1948 è stato venduto nel
2006 per 140 milioni di dollari a qualcuno che evidentemente
questa domanda non se l'è posta).
Il secondo motivo per cui la domanda mi sembra insensata e diseducativa
è di ordine metodologico. La storia dell'arte ci insegna
inequivocabilmente che nulla di per sé è arte,
ma tutto può diventarlo, a seconda dell'atteggiamento
mentale che assumiamo nei suoi confronti. Solo per il fatto
di trovarlo in una galleria d'arte o in un museo siamo già
disposti a considerare arte checchessia. Nel 2006, il sociologo
Alessandro Dal Lago e l'artista Serena Giordano hanno scritto
giusto un libro che hanno intitolato Mercanti d'aura
(ne ho condotto un'analisi critica ne L'aura
fritta e i suoi cuochi, in “A”,
322, 2006-2007), dimostrando che il valore estetico è
il prodotto di un processo complesso in cui l'oggetto artistico
vero e proprio ha un ruolo minimo, perché ciò
che conta di più sono i discorsi che gli vengono fatti
intorno – con i quali gli si crea quell'aura di sacertà
che gli garantirà l'ingresso nel dorato regno dell'arte
nonché l'eventuale museificazione. Ignorare tutto ciò
significa riconfinare l'intero movimento artistico contemporaneo
nell'asfittico alveo dei pregiudizi borghesi. Sfido io che poi
gli artisti diventano irascibili.
2.
Domande: l'ira, allora, è successiva al fare artistico
– ne è una conseguenza pressoché obbligatoria
dipendente da un processo di comunicazione non andato a buon
fine? O è precedente? È questa l'esito di un tratto
caratteriale o il tratto caratteriale è l'esito del fare
artistico? Diciamo che può essere utile considerarli
come due fenomeni complementari, in reciprocità di alimentazione.
L'ira, poi, in quanto tale ha un suo oggetto. Il rendersi conto,
la consapevolezza avuta una volta e quindi protrattasi nel tempo,
relativa al fatto di esser vivo è sufficiente, io credo,
a giustificarla: ma anche la mancanza di stima, come del pane
e del companatico – la mancanza di amore, di sesso, di
denaro, di checchessia di valorizzato in quel preciso momento
– può giustificarla.
Ma, mentre mi riesce difficile vedere un irato radicale –
irato perché vivo – poi applicarsi all'operare
artistico – di solito gli è sufficiente alzare
il tasso alcolico –, posso ben capire quel meccanismo
ricorsivo, autoalimentante, in ragione del quale l'opera d'arte,
disattesa dal mondo, si ripercuote sull'artista deluso e pronto
ad adirarsi conseguentemente ingenerando, per l'appunto, comportamenti
altrui – per esempio, da parte della “critica”
– tali da rinnovare, giustificatamente, altra ira –
una produzione di ira a mezzo di ira che non promette nulla
di buono né al soggetto individuale medesimo, né
al collettivo di pensiero che lo circonda.
3.
Nel 1962, l'etologo Desmond Morris pubblicò La biologia
dell'arte (in versione italiana a cura di Giorgio Cardona,
Bompiani, Milano 1969). Il titolo era forse un po' pretenzioso,
perché, in realtà, l'oggetto del suo studio erano
soltanto quegli scimpanzè che, con un mezzo o con l'altro,
vennero incentivati a dipingere dai propri padroni-sperimentatori
(e speculatori, perché alcune delle loro opere vennero
esposte e vendute in note gallerie d'arte). Che questo genere
di iniziative fossero discutibili è ovvio: l'arte della
specie umana ha una sua storia, gli altri primati hanno una
storia loro dove di arte – nelle forme della pratica umana
– non si è mai sentita l'esigenza e, dunque, l'estensione
delle nostre categorie allo scimpanzè è di principio
un atto di protervia, a prescindere dal modo in cui potrebbe
percepire la cosa lo scimpanzè (che, in queste pratiche,
potrebbe anche divertirsi ben di più dell'artista umano).
Tuttavia, allorquando Morris giungeva alle riflessioni conclusive
sulla propria esperienza, metteva l'indice su una questione
fondamentale. Provava, cioè, ad enumerare i caratteri
universali del fare artistico e, fra questi, metteva in grande
evidenza il carattere dell'autoremuneratività. Se in
alcuni casi scimmie giovani e scimmie adulte preferivano pennelli
e colori al cibo – se erano capaci di esplodere in crisi
di collera nel caso in cui venissero interrotte nell'attività
(come Pollock?) – era perché queste azioni –
eseguite di per se stesse, senza palese scopo biologico –
a qualcosa pur servivano. Di norma, compaiono, queste azioni
– secondo Morris –, “negli animali che hanno
ormai sotto controllo tutti i loro problemi di sopravvivenza
e che hanno surplus di energia nervosa che sembra richiedere
uno sfogo”. L'arte, allora, sarebbe un mezzo inventato
dall'evoluzione per lo “scarico di energia nervosa in
sovrappiù” e, come tale, dovrebbe essere autoremunerativa.
Dico “dovrebbe”, perché – come ben
sappiamo – non è così. Alle prese con il
mercato e con l'ideologia capitalistica che lo governa, l'artista
che conosciamo – quello di cui possiamo fare storia biologica
e sociale – ambisce alle remunerazioni altrui quanto,
paradossalmente, è disposto a rinunciare alla propria.
Felice Accame
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