I vermi dell'artivista
In
quale stato potrebbe capitarvi di vedere poliziotti solidarizzare
con l'estrema destra nelle piazze? In quale stato trovereste
un'occupazione giovanile che oscilla intorno al 40%?
In quale stato non trovereste stime concordanti riguardo al
numero dei morti sul lavoro?
In quale stato potreste assistere a folli spese militari da
parte del governo durante un periodo di pesante crisi economica?
Be', se vivete in Italia e per di più siete giovani disoccupati
o operai cassa integrati non vi sarà difficile trovare
una risposta a questi interrogativi.
E se la situazione del paese vi sembra irreale ancora più
strane a riguardo vi potranno apparire le riflessioni di due
vermi.
Ora, in molti avranno pensato a due persone di cui hanno molta
poca stima, ma qui si parla di vermi... vermi: animali invertebrati
caratterizzati da forma allungata.
Vermi di Rouge è il progetto dell'artivista, così
gli piace essere definito, Simone Rossoni in arte Rouge, appunto,
che racconta le vicissitudini di due vermi, rigorosamente gialli,
uno a righe e uno a pallini, che si svolgono sullo sfondo della
situazione italiana e internazionale.
Un progetto che inizia come un passatempo, ma che presto diventerà
per l'autore un'esigenza; molte le vignette satiriche realizzate:
536 ad ora.
Sfogliando le tavole di Rouge vi divertirete a vedere l'evoluzione,
non solo grafica, dei suo “personaggi”; li ritroverete
coinvolti in diverse situazioni dal G8 di Genova, passando per
la Palestina e la Siria, fino ad arrivare in Val di Susa.
Comunque i suoi vermi non si sono accontentati della carta stampata,
presto hanno deciso di uscire allo scoperto e di arrampicarsi
su muri e pareti.
Se abitate a Milano non potrà certo sfuggirvi il lavoro
realizzato sul muro all'entrata del centro sociale Torchiera,
dove compare un grosso verme, giallo e sorridente, accompagnato
dalla frase: “Sarà una risata...”.
Se invece vi venisse voglia di farvi una pedalata in mezzo alle
campagne dovreste assolutamente passare da Castellazzo de Barzi,
una piccola frazione di Robecco S/N, dove i vermi hanno addirittura
esagerato, con un murales di 2,5x25 metri. L'opera, che rappresenta
una strada circondata dal granoturco, vuole tenere alta l'attenzione
sulla costruzione della Toem (Tangenziale ovest esterna Milano),
prolungamento della Tangenziale est, in un territorio prevalentemente
agricolo.
Una delle loro ultime uscite pubbliche si può ammirare
all'esterno del centro sociale Sos Fornace di Rho, con un dipinto
di 60x3 metri, dove i nostri due invertebrati se la vedono con
il letale eternit.
A partire dal 2011 i vermi danno vita a una collana dal titolo
Vermi: una società che striscia, edita da La Memoria
del Mondo Libreria Editrice.
Il primo libro della serie dal titolo Io “disegno di
legge” (ovvero il pacchetto sicurezza), raccoglie
le tavole realizzate da Rouge in risposta alla redazione del
decreto legge n. 733B, il famoso “Pacchetto sicurezza”.
All'interno del libretto troverete ogni vignetta accompagnata
da un testo che illustra le vergognose modifiche normative introdotte
dal decreto.
Non passa molto tempo che arriva in libreria I vermi, la
guerra e i diritti umani. Il volume è suddiviso in
due parti: la prima ospita i lavori che raccontano la guerra
nelle sue diverse forme, la seconda invece raccoglie una serie
di vignette sui diritti umani.
Ma se il proverbio dice che non c'è due senza tre...
il 1 maggio 2013 esce In quale Stato? Vermi, una società
che striscia. Vol. 3 (2013, pp. 48, e5,00): un vero tributo
ai lavoratori.
Nel libro sono raccolte alcune tavole che ci raccontano di precariètà,
diritti negati, privilegi e sfruttamento, il tutto condito con
la solita ironia dei vermi.
All'interno troverete anche diverse fotografie di alcune opere
di street art.
Prima tra tutte il bellissimo dipinto che dà il titolo
al volume e che si può ammirare sulle pareti del circolo
arci Paz di Castano Primo (Mi) realizzato a quattro mani con
Giorgio Aquilecchia. L'opera riprende il famoso quadro di Giuseppe
Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, anche se stavolta
al posto dei consueti lavoratori in marcia troverete dei vermi
che strisciano con le tasche vuote.
“In quale Stato?” è una raccolta di sensazioni
e di impressioni sul nostro tempo; un'opera socialmente impegnata
e consapevole.
Un libro che come ricorda l'autore non ci darà risposte,
ma solo altre domande, ricco di “riflessioni e sfoghi
personali. Il tutto farcito con dei bei sorrisi. Sorrisi a denti
stretti, strettissimi, praticamente digrignati.”
Camilla Galbiati
Alle
radici dell'odio
contro i diversi
Riassumere poco meno di cinquecento pagine non è compito
agevole, ma il libro di Theodore S. Hamerow Perché
l'olocausto non fu fermato (Feltrinelli, Milano 2012, Universale
economica, pp. 491, € 14,00) è una lettura da segnalare
perché tratta in modo quasi esaustivo l'insieme delle
cause che portarono allo sterminio nazista degli ebrei. Il “quasi”
è d'obbligo, rimane infatti il lato d'ombra di un odio,
che pur palesemente costruito nei secoli, sembra mantenere non
poco di inspiegabile, proprio in quell'accanirsi a infierire,
che travalica le circostanze storiche, politiche e sociali riguardanti
un gruppo.
La costruzione dell'odio contro i diversi è forse indice
di una paura, e proprio per questo con più facilità
lo si comprende e condanna, ma odiare un intero popolo, anche
quando i suoi membri sono palesemente integrati e spesso nemmeno
distinguibili da altri cittadini, è cosa ben meno chiara.
Gli esempi che vengono in mente non per caso inquietano, e sono
quelli dell'odio razziale per i neri, perché neri, e
della misoginia che giunge all'omicidio diffuso di donne adulte
e in certi paesi al femminicidio di feti femmina e neonate,
solo perché di sesso femminile, con aborti selettivi
o uccisione alla nascita. Si parla quindi di una non accettazione
estrema che colpisce qualcuno per ciò che è, non
per quello che fa.
Tutti ci siamo posti la domanda sul perché non fu fermato
l'olocausto. Ci sono prove, inoppugnabili, che i governi alleati
sapevano molto, di certo dal 1942 sapevano quasi tutto, e Hamerow
lo documenta in questo libro, ma la realpolitik e le
sorti incerte della guerra divisero uomini di stato, parlamentari
e la stessa opinione pubblica. Il dibattito fu vivace e ricorda
molto quello attuale sulle sorti dei migranti, ma anche nel
migliore dei casi, non ci fu allora una presa d'atto dell'urgenza
di salvare vite indifese. Solo la sinistra radicale, negli Stati
Uniti, si espresse con veemenza e coraggio più volte,
ma rimase l'eccezione.
Gran Bretagna, Usa, Canada e la stessa Unione Sovietica temevano,
nelle figure di chi governava o era in parlamento o a capo del
partito, l'accusa di essere manipolati dai banchieri ebrei e
dall'altro lato, gli ebrei delle classi privilegiate non volevano
essere indicati come una setta che teneva le redini dei governi
agendo nell'ombra con l'influenza del proprio denaro. Venne
così sminuita o occultata la realtà delle deportazioni
che riguardavano la maggioranza della popolazione ebraica degli
stati dell'est Europa.
Gente povera quest'ultima, spesso poverissima, che da secoli
era parte viva di villaggi sperduti dove non mancavano pogrom
pesanti né le persecuzioni di ogni giorno.
Le fondamenta dell'odio risalivano a molto indietro nel tempo,
ma ancora negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del
XX secolo qualunque cosa gli ebrei facessero venivano accusati
delle cose peggiori: quando l'impedimento a scegliere e a praticare
un mestiere li portava a prestare del denaro a interesse, erano
usurai dipinti a tinte fosche, l'avidità a segnarli perfino
nei tratti somatici; quando sceglievano la fratellanza universale,
e furono tantissimi i rivoluzionari usciti dai ghetti, erano
fautori di un complotto comunista per distruggere le radici
dei paesi cristiani; quando raggiunsero, più tardi, i
vertici nelle professioni aperte ormai anche a loro, miravano
a impossessarsi del mondo eccetera.
Molti scelsero, a un certo punto, di essere, non più
ebrei, ma tedeschi, francesi, inglesi. L'integrazione non era
una parola, ma un fatto. Questo fatto, quando fu evidente che
le loro capacità li portavano ai vertici delle professioni,
gli venne ritorto contro.
Pensatori e scrittori di destra e a volte (duole dirlo) di sinistra
fecero sponda o adottarono una linea ambigua, contro cittadini
della loro stessa nazione, ma di diversa religione.
Se in Francia erano apertamente antisemiti alcuni tra gli intellettuali
più noti vicini all'Action Francaise, meno conosciuta
ma altrettanto contorta è la posizione di scrittori e
pensatori di fede democratica e progressista, di cui H.G. Wells
autore della Macchina del tempo è un esempio.
Wells scriveva nel 1936: “Quello che tiene insieme [gli
ebrei] è una tradizione biblica. talmudica ed economica.
La solidarietà è stata loro imposta dall'ostilità
che la loro tradizione provocava. È una tradizione che
dà grande importanza all'avidità materiale.”
Di conseguenza essi: “Arrivano si infiltrano prendono
il controllo” (p. 113). Per Wells l'ebreo è sempre
uno straniero con una mentalità straniera, non interessato
al bene comune e ad essere un buon cittadino (p. 114). Lo scrittore
inglese avrebbe potuto essere smentito con facilità,
ma si vede ciò che si vuole vedere e spesso non si verificano
le affermazioni, né si chiede a chi scrive di esporre
le prove di quello che crede reale.
Tutto sprofonda in generalizzazioni che risultano comode quanto
efficaci sui lettori superficiali e sulle masse. Se avete dei
dubbi pensate ai luoghi comuni razziali su neri e arabi o a
quelli di genere per le donne. Confutati, riprendono vigore
di volta in volta, spesso come storielle che assumono l'osceno
sapore della pura denigrazione. Tale è il potere di chi
parla da una posizione di privilegio.
I leader occidentali, a conflitto iniziato, consapevoli che
si stava attuando di fatto uno sterminio, scelsero di dare priorità
alla guerra. Vincere e quindi fermare quella macchina di morte
che era il nazismo fu considerata l'unica soluzione. Colpirono
le città tedesche e gli impianti industriali, e indebolirono
il Reich, ma non vennero bombardate le linee di comunicazione
da cui dipendevano i nazisti per i loro trasporti di essere
umani destinati alla morte.
Hamerow non tralascia alcun aspetto del dibattito di allora.
Le domande bruciano anche adesso.
L'autore non si scaglia contro le democrazie, né contro
l'Urss. Esamina ogni volta, anno per anno, le ragioni di ognuno,
i fatti, i rapporti di forza e le leggi in atto in tema di immigrazione
ed emigrazione. Si ha l'impressione che fin dal 1933 qualcosa
sfuggì ai politici, alla stampa e alle persone comuni
di ogni ceto e certo sfuggì che gli effetti delle persecuzioni
razziali potevano assumere anche forme più cruente. Anche
dopo il 1941, per i cittadini delle democrazie, male informati,
lo sterminio scientifico di esseri umani a milioni non era nemmeno
pensabile.
I paesi europei, non governati dai fascisti, ma lo stesso vale
per gli Usa e l'Urss, avrebbero potuto e dovuto impegnarsi di
più, ma tacque chi sapeva per timore di essere indicato
come una marionetta dei banchieri ebrei e la classe agiata e
parte dell'intellighenzia ebraica a loro volta rimasero quasi
silenti perché non si dicesse che avevano voluto la guerra.
A discolpa parziale delle persone comuni resta la tragedia di
un conflitto che travolse l'intero continente gettando tutti
nella confusione e ancora prima, va ricordato, pesò non
poco la complessità di una crisi economica devastante
che finì per dare forza al nuovo totalitarismo di Hitler.
Quando la realtà dello sterminio fu rivelata era ormai
tardi.
Sui sensi di colpa, ancora vivi, delle nazioni e delle popolazioni
coinvolte si potrebbe dire molto, tuttavia l'antisemitismo non
è finito con i milioni di morti. Qualcosa di tenace resiste,
come un tanfo, un odore che risale il tempo rivelando un bisogno
di capri espiatori (ebrei, rom, donne, bambine, gente di colore)
non per un atavico bollore del sangue che mai è stato
provato, ma per mancanza di pensiero, parola e sentire liberi,
dove libertà è riuscire a pensare gli altri non
come massa o gruppo, ma solo nella singolarità del loro
essere nel mondo.
Nadia Agustoni
Una
cassetta degli attrezzi per
l'auto-educazione
Elèuthera ha da poco pubblicato una nuova edizione
del Lessico minimo di pedagogia libertaria
(pp. 176, € 14,00) di Filippo Trasatti. Ne riprooduciamo
qui la prefazione di Francesco Codello.
La storia dell'educazione libertaria è ai più
sconosciuta. Ma questo patrimonio di idee ed esperienze è
vivo e concretamente sperimentato in diverse parti del mondo.
Anche questa realtà attuale è perlopiù
sconosciuta sia dal grande pubblico che, e questo è più
preoccupante, dai cosiddetti addetti ai lavori (insegnanti,
educatori, genitori). Non parliamo poi delle sedi ufficiali
del sapere pedagogico, come le università e gli istituti
scolastici di vario ordine e grado, che beatamente ignorano
(tranne poche eccezioni) questa ricchezza sia storica che esperienziale.
Nonostante tutto questo occultamento, talvolta ideologico talvolta
semplicemente ignorante, se noi entriamo all'interno del dibattito
pedagogico attuale possiamo riscontrare che molte delle tradizionali
intuizioni libertarie sono diventate patrimonio comune: la coeducazione
dei sessi, l'obiettivo dello sviluppo armonico e integrale della
personalità, il fare come condizione indispensabile di
un apprendimento profondo, un certo antiautoritarismo e una
relazione più rispettosa dei tempi e dei progressi dei
bambini/e, ecc. Ma l'acquisizione di idee e la progettazione
di interventi coerenti con esse, non ha impedito una sottile
ma più profonda deriva autoritaria nel sistema di istruzione
e di educazione più diffuso. In sostanza, il portare
a sistema organizzativo strutturato, pratiche e intuizioni educative
innovative rispetto al passato, sembra non aver prodotto una
profonda trasformazione in senso autenticamente libertario delle
relazioni educative e di istruzione oggi praticate nei diversi
contesti istituzionali. Se quindi da un lato possiamo cogliere
una nuova sensibilità terminologica, tale da indurci
a pensare che l'antiautoritarismo sia divenuto pratica comune
e accettata, dall'altra non possiamo non individuare una deriva
concretamente autoritaria nei contesti educativi.
Il motivo principale di questo fatto risiede, a mio giudizio,
innanzitutto nell'impossibilità di inserire pienamente
stili, contenuti, forme, relazioni, di marca autenticamente
libertaria, in un sistema organizzato e strutturato autoritariamente
come è quello appunto scolastico, famigliare, esperienziale
attuale. Ma soprattutto perché una autentica rivoluzione
copernicana del rapporto educativo tra adulto e bambino/a non
solo non è avvenuta ma, anzi, viene sistematicamente
ignorata quando non apertamente osteggiata. Infatti nelle discussioni
e nelle sperimentazioni (ormai poche per la verità) in
ambito educativo e di istruzione l'attenzione è sempre
più posta sull'innovazione tecnologica, sulla didattica
strumentale, sulla necessità di classificare i comportamenti
dei bambini/e e alunni/e in modo sempre più preciso e
puntiglioso, su una valutazione che si vuole meritocratica,
su modelli organizzativi sempre più frammentati e segmentati,
su ingegnerie tecniche volte a razionalizzare costi e tempi,
ecc. Poco spazio è rimasto a quelle pratiche attive che
avevano aperto uno spiraglio di luce per superare modalità
frontali di educazione e istruzione.
Ciò che è prevalso ormai, è una definitiva
impostazione sottilmente gerarchica, che ha ampliato una realtà
fortemente adulto-centrica nella relazione educativa e istruttiva.
Sostanzialmente si tratta del trionfo della gerarchizzazione
adulto-bambino non più fondata su una evidente forma
di autoritarismo ma, piuttosto, su suadenti e condizionanti
strumenti sofisticati che comunque non annullano, anzi ampliano,
la supremazia dell'adulto. Anche operatori, insegnanti, genitori,
politicamente progressisti, non escono quasi mai da uno schema
di questo genere. I tempi, gli spazi, l'organizzazione dei contesti,
rispondono ancora di più alle esigenze e ai bisogni,
ma anche al ruolo codificato, degli adulti, intorno ai quali
vengono piegate le esigenze dei più piccoli. Insomma
la centralità è posta, nella realtà e con
buona pace delle dichiarazioni d'intento, sull'insegnamento
(spazio dell'adulto) e non sull'apprendimento (spazio del bambino/a).
La vera e profonda rivoluzione consiste infatti nel capovolgere
per davvero questa logica, partendo dai tempi, dai modi, dell'apprendimento
di ogni singolo, attorno ai quali modellare un'organizzazione
completamente diversa. Insomma affermare nei fatti la centralità
della domanda, dell'incidentalità, della curiosità
e della ricerca, condivise, in una relazione autenticamente
antiautoritaria. Per fare questo è indispensabile un
grande lavoro su di sé, un confronto-ascolto dell'altro
da sé, un sistema di osservazione veramente aperto, una
continua verifica dei risultati non per declinare inopportune
valutazioni docimologiche, quanto piuttosto per ricostruire
condivise e concordate nuove ricerche e nuove piste di lavoro.
Queste premesse sono alla base invece di un variegato (sia geograficamente
che culturalmente) arcipelago di esperienze scolastiche che
si nutrono di una tradizione di pensiero, ma anche di storia,
veramente libertaria. Senza ricorrere qui alle tradizionali
(e più conosciute in ambito libertario) sperimentazioni
di Paul Robin, Sébastien Faure, Francisco Ferrer y Guardia,
Lev Tolstoj, e altri educatori raccontati in ambito storiografico,
a partire dal 1921 con la fondazione della scuola (ancor oggi
funzionante) di Summerhill in Inghilterra da parte di Alexander
Neill, si è sviluppato un insieme di realtà che
ormai sono diffuse in tutti i continenti, sostenute da periodici
incontri sia a livello mondiale (International Democratic Education
Conference, Idec) che europeo (European Democratic Education
Community, Eudec), che italiano (Rete per l'educazione libertaria,
Rel). Queste scuole hanno in comune alcune caratteristiche fondative:
democrazia diretta e paritaria nella formulazione delle decisioni
intorno alla vita scolastica, facoltatività della partecipazione
alle lezioni, apertura totale al contesto ambientale come presupposto
indispensabile per l'apprendimento attivo e partecipe, relazione
egualitaria tra adulti e bambini/e, ragazzi/e, valutazione condivisa
e non selettiva del percorso di apprendimento, molteplicità
e varietà dei curricoli, gestione non violenta e partecipata
dei conflitti, molteplicità metodologica, non confessionalità
religiosa e/o ideologica, ruolo di facilitatore dell'insegnante.
Accanto a queste realtà alternative al sistema di istruzione
ufficiale e tradizionale, numerose sono ancora le energie positive
che, singolarmente o in piccoli gruppi di resistenza, si impegnano
all'interno di contesti più strutturali e istituzionalizzati,
cercando di creare piccole aree di libertà e di autonomia,
consapevoli che comunque è il Sistema nel suo dispiegarsi
che va radicalmente modificato.
Come è facile intuire in questa contrapposizione tra
le due prospettive così radicalmente diverse dell'intendere
la relazione adulto/bambino, ci sono zone grigie, contaminazioni,
possibili interferenze e inferenze, confusioni (si pensi ad
esempio al mal inteso senso di “giovanilismo” genitoriale,
oppure alla facile confusione tra permissivismo e libertà),
che rischiano seriamente di produrre devastanti conseguenze
proprio nei confronti dei più deboli. Vi è quindi
una permanente necessità, per chi ha autenticamente a
cuore un'educazione che sia educare a essere e non a dover essere,
di riflettere interiormente, confrontarsi con altri, ascoltare
con tutto se stessi l'altro, assumere una postura profondamente
rispettosa, saper riconoscere la diversità senza dividere
ed escludere, essere se stessi senza pretendere che gli altri
siano come noi, e molto altro ancora.
Ecco perché questo libro di Filippo Trasatti, ora alla
seconda edizione, è uno strumento di lavoro particolarmente
utile e importante. Lo è soprattutto perché, nella
sua essenzialità apparente, è uno stimolo e un
rinvio a tessere collegamenti, a cogliere la necessità
di assumere sguardi diversi, approcci variegati, stimoli vari,
utili comunque a ricomporre un equilibrio olistico mai definitivo
ma sempre in cammino. Questo lavoro è una specie di cassetta
degli attrezzi che educatori, insegnanti, genitori, possono
utilizzare per costruirsi un proprio percorso di auto-educazione
in senso libertario che ristabilizzi l'ordine di un discorso
educativo: educare, ex-ducere, tirare fuori, non plasmare,
né riempire, essere non dover essere. Infine è
un libro da leggere perché scritto con tutto se stesso,
con la semplicità che deriva da esperienze vissute intimamente,
senza quel dannoso distacco derivante da una fredda e asettica
postura autoritaria, ma anche con quel rigore necessario per
ogni ricerca che sia rispettosa dell'altro.
Francesco Codello
Ispirazioni
e contraddizioni
dell'anarchismo moderno
Note a margine del volume L'anarchismo oggi. Un pensiero
necessario, curato da Luciano Lanza e pubblicato da Mimesis
(Milano 2013, pp. 229, € 18,00): ideale prosecuzione,
sotto forma di annuario, della rivista Libertaria. Il testo
di Alberto Giovanni Biuso, membro del comitato scientifico della
collana Libertaria, traccia una sorta di filo conduttore tra
gli interventi ospitati e offre interessanti chiavi di lettura.
Le dinamiche antropologiche e sociali sono così complesse
da rendere perdente ogni riduzionismo metodologico che intenda
aggredire la realtà senza prima averla compresa quanto
più a fondo possibile. La politica, si potrebbe dire,
si è sinora limitata a tentare di trasformare il mondo;
è arrivata l'ora di comprenderlo. È infatti solo
“agendo su regimi di verità e credenze” (S.
Boni, p. 34) che si possono delineare modi e strategie capaci
di incidere sulle strutture sociali, trasformandole.
Uno degli elementi di forza e di costante fecondità dell'anarchismo
è dunque il suo costituire non un'ideologia ma un approccio
metapolitico alla realtà sociale, “una teoria e
una pratica della libertà, dell'eguaglianza e della diversità”
(L. Lanza, 9). L'anarchismo si fonda infatti su un peculiare
concetto di koinonia, intesa non come semplice comunità
ma in quanto costante e radicale stare-insieme di individui,
strutture, visioni del mondo diverse tra di loro ma convergenti
in una pratica della libertà intesa come rifiuto di comandare
e di essere comandati, come rinuncia alla volontà di
fare da padrone, poiché tale volontà – come
sosteneva Nietzsche – “si trova nella profondità
del cuore di ogni schiavo. (...) L'anarchia inizia quando
impariamo a rinunciare. Rinunciare a cosa? L'ipotesi che possiamo
formulare è la seguente: alla rappresentazione metafisica
dell'arché”. (M. Amato, 101). L'affermazione
di Proudhon secondo la quale “a misura che la società
s'illumina, l'autorità regale diminuisce”, si può
quindi spiegare in questo modo: “A misura che l'esistenza
umana si dispiega esplicitamente a partire dalla Lichtung,
e quindi come il lavoro ogni volta finito del disascondimento,
la rinuncia all'appropriazione dell'arché fa sì
che la regalità finita di ogni uomo possa coincidere
con la libera sottomissione alla Lichtung” (Amato,
127), dove sostanza della Lichtung – dell'apertura
che si apre nell'oscuro – è la intrinseca convergenza
di ciascuno con i molti e della parte con il tutto, senza che
i molti e il tutto soffochino la parte e senza che uno solo
o un gruppo soltanto possa ergersi a decisore ultimo di ogni
conflitto. “Mentre 'comunità' pone in rilievo ciò
che è comune, o in comune, quindi una sorta di comune
denominatore che ha già sempre inglobato ogni differenza
e a cui ogni differenza deve poter essere ricondotta (reductio
ad unum), nella koinonia come ancora la intende Aristotele
si deve saper leggere non il fondamento che accomuna ciò
che ha tendenza a separarsi, ma l'essere-insieme stesso
nel movimento, o meglio nella movimentatezza che lo caratterizza
propriamente. La traduzione di koinonia dovrebbe quindi
essere: essere-insieme” (Amato, 129).
Da questo fondamento discendono alcune ovvie e decisive conseguenze.
La prima è “l'assunto che la libertà di
espressione è il germe da cui si sviluppa ogni altra
libertà” (P. Adamo e G. Giorello, 91); quella libertà
di espressione che fa dire a Chomsky parole assai chiare a proposito
del principio che guida da sempre la politica estera degli Stati
Uniti d'America, principio che consiste nel “diritto di
usare la forza a proprio piacimento”, tanto da concludere
che “il nostro desiderio di democrazia sta all'incirca
al livello dei discorsi di Stalin sull'impegno russo per la
libertà, la democrazia e la libertà nel mondo”
(Chomsky, 15 e 16).
La seconda consiste nell'oltrepassamento di ottimismi e pessimismi
antropologici che si rivelano sempre più dei miti invalidanti
e funzionali soltanto a impedire ogni reale cambiamento, o sul
versante di un sempre differito sorgere del 'sol dell'avvenire'
o della conservazione inevitabile di ciò che esiste ora.
Gran parte dell'anarchismo contemporaneo va dunque certamente
oltre Hobbes ma va anche oltre Rousseau, integrando “eguaglianza
e differenza al di fuori di uno schema ottimistico sulla natura
umana che Rousseau ha idealizzato in contraltare all'antropologia
pessimistica di Hobbes, ma di cui fortunatamente il pensiero
anarchico più avvertito è esente” (S. Vaccaro,
217).
Superamento dunque di due paradigmi fondamentali della modernità:
il contrattualismo e la crescita. Già in
uno dei testi fondanti il libertarismo – il Discours
sur la servitude volontaire di Étienne de La Boétie
– ci si pone con chiarezza a favore della Differenza
e contro l'Identità: “È più
che evidente come l'impianto teoretico di de La Boétie
si ponga ante litteram in direzione ostinatamente contraria
ad ogni successiva narrazione contrattualistica, che muove dalla
passione della paura per conseguire il duplice risultato di
erigere l'Unità del politico e assegnargli una potente
legittimità di dominio, dissimulando il tasso di violenza
in esso accumulato e economicizzato” (Vaccaro, 138-139).
Gli anarchici sono assai sensibili verso un altro paradigma
moderno quale “'il mito della crescita', il santuario
decrepito del prodotto interno lordo, l'espansione illimitata”
(Lanza, 10) e quindi sanno che se nessuna parola è mai
neutra e neutrale, il “termine 'crisi', è un dispositivo
di potere di tipo nominativo, ovvero influenza la concettualizzazione
di ciò che succede, mediante la scelta lessicale, emanata
dai media, e fatta propria, con parziale passività, dal
corpo sociale. La nozione di 'crisi' ha infatti caratteristiche
che si coniugano bene alla visione promossa dai poteri consociati”
(Boni, 30). Non a caso Serge Latouche congiunge il paradigma
della decrescita con l'esigenza di decolonizzare l'immaginario,
vale a dire il metapolitico e il metaeconomico: “Si tratta,
una volta usciti dall'illimitatezza dell'economia produttivistica,
di costruire una società dell'abbondanza frugale o della
prosperità senza crescita. La prima rottura consiste
nel decolonizzare il nostro immaginario e quindi uscire dalla
religione della crescita e rinunciare al culto dell'economia”
(Latouche, 81).
È anche tale varietà di fondamenti, strategie,
prospettive a suggerire che quello nel quale siamo immersi è
e sarà sempre più – nonostante le apparenze
contrarie – il secolo dell'anarchismo, il tempo di una
teoria e pratica capace di evitare il feroce autoritarismo del
comunismo e l'implacabile diseguaglianza dell'ultraliberismo
trionfante: “La resistenza si dà: in tutti i tempi
la gente si è opposta al potere, in vari modi, e l'esercizio
del potere riproduce sempre le proprie forme locali di resistenza.
Grandi insurrezioni contro le strutture di potere possono certamente
aver luogo ma, al contrario di quanto credevano gli anarchici,
non sono immanenti alle relazioni sociali. Un'insurrezione va
a costruirsi attraverso le molteplici e locali resistenze che
prendono campo nelle pieghe sociali della vita quotidiana. A
questo punto, possiamo affermare insieme ai situazionisti la
necessità della 'rivoluzione della vita quotidiana'.
(...) È necessario riconoscere che l'insurrezione contro
il potere è più frammentata e incerta, emergendo
da luoghi differenti, e spesso soggetta a strategici ribaltamenti”
(S. Newman, 166). Soltanto rinunciando alle grandi narrazioni
sul futuro, solo attraversando la porta stretta del rifiuto
di ogni palingenesi a favore dell'azione individuale e collettiva
quotidiana che muta qui, ora e subito le forme della
vita, solo ammettendo – pur con dispiacere, certo –
che “in qualsiasi relazione sociale, anche in una relazione
sociale anarchica, a un certo livello ci sarà sempre
potere, anche se in quest'ultima (presumibilmente) le relazioni
di potere sarebbero più fluide, reciproche ed egualitarie”
(Newman, 165), si potrà avere il coraggio libertario
di porsi domande di questo genere: “Come possiamo essere
sicuri che la rivolta contro il potere non lo riprodurrà
semplicemente sotto un'altra forma? può allo stesso tempo
una politica rivoluzionaria essere rivolta contro i nostri celati
desideri di dominio?” (Newman, 163)1.
La sintesi che ho tentato dei contenuti anche assai diversi
di un libro vasto e prezioso non deve tuttavia indurre nell'errore
di pensare all'anarchismo contemporaneo – anche solo a
quello degli autori qui presenti – come a una scuola unitaria
e ben compatta. Tutt'altro. Basta scorrere queste pagine per
capire come le analisi non soltanto a volte divergano radicalmente
ma siano proprio tra di loro quasi incompatibili (faccio un
solo esempio: se Heidegger è uno degli ispiratori dell'eccellente
saggio di Amato, lo stesso filosofo è definito da Vaccaro
– ancora e stancamente a dir la verità –
come senz'altro 'fascista'). E questo accade perché “l'anarchismo
moderno è permeato da innumerevoli contraddizioni”
(D. Graeber e A. Grubacic, 42). Per dirla con il linguaggio
di Kant, l'anarchismo appare più un principio regolativo
che costitutivo, ma anche e proprio in quanto regolativo
è necessario: “In una tensione perenne e interminabile
volta a 'raddrizzare' quel 'legno storto dell'umanità':
sforzo eutopico, probabilmente, sempre imperfetto per costituzione,
e quindi perfettibile, senza una meta definitiva da raggiungere,
pur tuttavia orizzonte imprescindibile per oltrepassare i limiti
delle forme-di-vita storicamente date. Priva di questo slancio,
l'umanità si condannerebbe a una evoluzione eterodiretta
dalla tecnica, cioè da una forma dell'umano reso inconsapevole
della propria umanità” (Vaccaro, 206).
Ma c'è qualcosa che sin dall'inizio e ancora oggi –
e confidiamo sempre – ha segnato il discorso anarchico
come paradigma di una libertà senza padroni: è
la volontà di volgere in dubbio e sottoporre a critica
tutte le affermazioni. Anche le proprie. È ancora Saul
Newman a dirlo con chiarezza, quando fa dell'anarchismo –
andando in tal modo ben al di là del filosoficamente
corretto – un principio non soltanto politico e sociale
ma anche epistemologico e ontologico, un principio che non vuole
“semplicemente sostituire un tipo d'autorità con
un altro (l'autorità politica dello stato con l'autorità
scientifica della ragione) e perciò al posto di un fondamento
ne sarebbe messo un altro” (157). Al di là dei
padri, ai quali molto dobbiamo, possiamo però “scorgere
il vicolo cieco degli approcci positivisti e razionalisti degli
anarchici classici, tra cui Kropotkin e Godwin. Dovremmo valutare
i discorsi egemonici della verità razionale, della scienza
e della morale in tutto e per tutto alla stregua di istituzioni
politiche con i loro effetti di dominio” (165). In questo
modo l'anarchismo diventa ciò che è, ciò
che lo renderà sempre necessario e ben vivo: una forma
della libertà senza divinità senza maestri e senza
definitive verità.
Alberto Giovanni Biuso
- Newman osserva che «si tratta degli stessi interrogativi
sollevati da Lacan in risposta al radicalismo del maggio '68:
'L'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità,
quella di portare, sempre, al discorso del Padrone. È
ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò a
cui aspirate come rivoluzionari è un padrone. L'avrete'»
(Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi,
qui a p. 171). Profetico, certamente.
Quel
fornaio di
Minervino Murge
Chiarisco subito – per coloro i quali fossero interessati
a una lettura storiografica prettamente anarchica del volume
di Domenico Cangelli Carmine Giorgio nella storia del sindacalismo
rivoluzionario in Puglia (edizioni del Rosone, Foggia 2013,
pagg. 180, € 10,00 + spese di spedizione postale, richieste
a: anarres56@tiscali.it)
– che non vi sono riferimenti specifici poiché
il periodo in esame si conclude nel giugno 1914 in coincidenza
con la Settimana Rossa quando le Camere del Lavoro di Minervino
Murge, Cerignola, Lucera e Bari – che facevano già
parte della corrente interna alla CGdL denominata “dell'Azione
Diretta” – avevano da poco (gennaio 1913) aderito
all'Unione Sindacale Italiana costituitasi a Modena alla fine
di novembre del 1912.
Il pregio del libro di Domenico Cangelli sta proprio nell'accendere
i riflettori in quel vero e proprio magma vulcanico che era
il Psi pugliese – specie nella sua componente giovanile
– nella prima decade del novecento. Un magma dal quale
è, oggettivamente, difficile distinguere i riformisti
dai rivoluzionari; i legalitari dagli antimilitaristi; gli aderenti
alla Prima o Seconda Internazionale e costituisce il “brodo
di coltura” che consente a intellettuali organici di etichettare
quel particolare periodo storico e quel particolare movimento
popolare come “marginale”, “ininfluente”,
“primitivo”, e in cui spicca la figura del giovane
Di Vittorio che – dalle pagine de “La Fiumana”
organo della Camera del Lavoro di Bari e provincia (Usi) –
a partire dal gennaio 1913 spiega, in modo inequivoco, la sua
posizione anarcosindacalista in aperta contrapposizione con
il riformismo “votaiolo” e “parolaio”
del Psi.
Basato su una mole imponente di dati e riferimenti bibliografici
– come documentato dalla bibliografia riportata a margine
– il saggio di Domenico Cangelli non si limita a ripercorrere
un trentennio di travaglio sociale della Puglia operaia e contadina
ma lo inserisce in una “cornice sociale” specifica
e documentata: quella nazionale all'indomani dell'unità
e, soprattutto, dei “moti” del Matese (1874).
L'opera prende spunto dalle vicissitudini personali –
raccolte in una memoria a tutt'oggi inedita – di Carmine
Giorgio, un fornaio di Minervino Murge – e attraversa
con riferimenti storici precisi e dettagliati l'intero periodo
che va dalla “rivolta” di Minervino (1898) alla
Settimana Rossa (7-13 giugno 1914). Con particolare riferimento
alla violenza – spesso gratuita – delle forze dell'ordine
e degli organi di autorità giudiziaria affiancati, in
quest'opera disgregatrice, dalla legislazione “compiacente”
formulata “ad hoc” di un governo presieduto da chi
– come Giolitti – proveniva dalle fila “socialiste”.
La ricostituita sezione pugliese dell'Unione Sindacale Italiana
aderente all'Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ait)
è impegnata in un – difficile ed impegnativo –
percorso di ricostruzione della memoria storica per troppo tempo
offuscata da “narrazioni” parziali e fantasiose
se non, addirittura, travisate ad uso e consumo di un'unica
fazione politica. E sindacale.
Emblematico, in questo contesto, il tentativo posto in essere
– nell'estate del 2012 – dalla Cgil con la “complicità”
della Fondazione Di Vittorio e l'ausilio tecnico di un “intellettuale
organico” – il prof. Vito Antonio Leuzzi –
di stravolgere il significato sociale, storico e politico della
distruzione della Camera del Lavoro Sindacale (Usi) di Bari
– ubicata nella città vecchia – disconoscendo
e mistificando il ruolo – preponderante – svolto
dagli anarco-sindacalisti e dagli anarchici nella formazione
e nella costituzione degli Arditi del Popolo che furono –
in tutti i modi – ostacolati non solo dal potere costituito
(e dai suoi organi repressivi) ma anche dal Psi, dalla CGdL
e dal PCd'I di Gramsci e Bordiga.
A ben vedere – per rimanere ai giorni nostri – dietro
il governo delle “larghe intese” si scorge il tragico
filo rosso che percorre la storia di un paese nato per “creare
un mercato” e cresciuto così, malato dei mali del
suo capitalismo “incompiuto”: penuria di capitale
per scarsa accumulazione primitiva, nessuna propensione al rischio,
frazionamento politico e assenza di un grande mercato interno.
L'Italia che Garibaldi unì, insomma, non era un mercato.
Mancavano investimenti e smercio e ci pensò lo stato,
in mano a un capitalismo molto interessato al controllo delle
leve governative. Iniziò così una rapina costante,
un travaso ininterrotto di ricchezza prodotta dal lavoro e regalata
al capitale dei Lanza e dei Sella, impegnati a “pareggiare
il bilancio” per risarcirsi delle spese delle guerre per
l'indipendenza. I lavoratori sputarono sangue, pagarono tasse
persino sul grano macinato e fu la fame. La finanza, in compenso,
divenne “allegra”, e i proventi fiscali finirono
alle banche, pronte a sostenere ogni avventura industriale.
Quando scoppiò la bolla immobiliare, s'intravidero legami
oscuri tra politica e mafia e nel 1893 si scoprì che
le banche d'emissione truccavano conti e stampavano banconote
false. Non pagò nessuno e cominciarono i salvataggi:
le banche fallivano, i lavoratori pagavano e quando la speculazione
mise piede in Africa, si andò alla guerra. Nessuno ha
calcolato mai quanto c'è costata in oro, sangue e civiltà
l'avventura del cattolico Banco di Roma nel mare di sabbia libica,
mentre il Sud mancava d'acqua e lavoro. Da Adua all'Amba Alagi,
passando per l'ignominia di Sciara Sciat, la Spagna martoriata,
la tragica Siberia e da ultimo l'Afghanistan, chi cercherà
notizie serie sul debito di cui cianciano gli economisti, dovrà
andare a cercarle tra i bilanci delle banche e incrociare i
dati con quelli dello stato. Altro che welfare. Qui da noi,
la storia del capitale oscilla tra avventure, salvataggi e lavoratori
strangolati. Gronda sangue. Anche la Comit è stata salvata:
oggi si chiama Intesa e ha ministri al governo.
Valga per tutti quanto formulato in un vecchio manifesto antiprotezionista
formulato – giusto cent'anni fa! – dall'Usi e riportato
su “La Fiumana” organo ufficiale della CdL Sindacale
di Bari e provincia che sembra adattarsi perfettamente al presente:
“I nuovi briganti sono rappresentati oggi in Italia dagli
industriali e dagli agrari protetti. Costoro però non
vivono nella macchia in attesa di poter aggredire il viandante,
ma alla luce del sole: occupano i migliori posti nella vita
pubblica italiana ed hanno a loro disposizione i poteri dello
stato (...) agrari, zuccherieri e siderurgici dal 1887 impunemente
possono comandare alla nazione italiana; per il governo borghese
che tiene il sacco alle loro rapine quotidiane; per la stampa
prezzolata che sostiene con menzogne la necessità di
mantenere il privilegio camorristico dei zuccherieri, degli
agrari e dei siderurgici; per il popolo che ignora, tace e subisce.
I guadagni dei briganti sono superiori ad ogni immaginazione.
18mila latifondisti – mercé la protezione –
truffano al popolo italiano oltre 40 milioni; sei società
siderurgiche – mercé la protezione – truffano
al popolo italiano 260 milioni all'anno.”
Pasquale Piergiovanni
Tutto
il potere
ai soviet
Negli ultimi giorni del febbraio 1917 aveva inizio il rivolgimento
che andrà a condizionare più di ogni altro evento
la storia del XX secolo, la rivoluzione che abbattendo l'autocrazia
zarista voleva trasformare la dissoluzione dello sterminato
impero russo nel faro che portasse alla liberazione e all'autodeterminazione
dei lavoratori e di tutti i popoli oppressi. L'insurrezione,
cominciata nelle strade di Pietrogrado, si trasmise immediatamente
alla vicina Kronštadt, la città-fortezza posta
a difesa della capitale, dove si trovava una concentrazione
dei rivoluzionari più radicali e intransigenti dell'intera
Russia.
I soldati e i marinai presero il potere, regolando rapidamente
i conti con la feroce gerarchia militare che li aveva oppressi
fino a quel giorno, e trasmisero il potere al soviet, esercitando
un continuo controllo dal basso sul suo operato. Tra i membri
del soviet c'era Tomasz Parczewski, polacco di Russia (non esisteva
allora una Polonia indipendente) insegnante di ginnasio e, contro
ogni suo desiderio, ufficiale dell'esercito russo in quei giorni
di guerra contro gli Imperi centrali.
Parczewski è un testimone prezioso degli avvenimenti
accaduti a Kronštadt durante quegli anni tumultuosi,
sia per la sua estraneità agli schieramenti politici
(nel soviet aderiva ai Senzapartito) sia per il suo tentativo,
da uomo di studi filosofici e letterari, di raccontare imparzialmente
gli eventi.
La storia rivoluzionaria di Kronštadt fu del tutto straordinaria:
sin dall'inizio fu attuata dal basso quella rivoluzione socialista
(nel senso ampio e liberatorio che aveva al tempo, non quello
immiserito imposto dalle pestilenziali ideologie del '900),
che portò rapidamente alla rottura con il governo provvisorio
e, come conseguenza di quello scontro, all'elezione di Parczewski
a governatore dell'isola.
I rivoluzionari di Kronštadt si batterono senza sosta
contro il potere di chi voleva che la guerra proseguisse e cercava
di impedire ai contadini russi di prendere possesso della terra,
e furono in prima fila nella Rivoluzione d'ottobre, forse impossibile
senza i marinai della flotta baltica. Quella che doveva essere
la liberazione definitiva dai vecchi padroni portò invece
al potere non il popolo lavoratore ma il Partito comunista,
i suoi commissari e la sua polizia politica, la eka di Lenin.
L'amara disillusione dei rivoluzionari di Kronštadt divenne,
nel marzo 1921, aperta rivolta contro i bolscevichi, un'insurrezione
che l'Armata rossa di Trockij spazzò via con un enorme
massacro.
La testimonianza di Tomasz Parczewski (Kronstadt nella Rivoluzione
russa, Edizioni Colibrì / Candilita, pp. 311, €
14,00, traduzione di Alina Maria Adamczyk, a cura di Giuseppe
Aiello), rifugiatosi nella Polonia divenuta indipendente, fu
stampata nel 1935, tre anni dopo la morte dell'autore ed è
rimasta pressoché sconosciuta, mai tradotta e scarsamente
citata. Questa prima traduzione dal polacco è corredata
da un apparato di note per restituire una completezza alla dimensione
storica della narrazione, e vuole contribuire con un tassello
fondamentale alla ricostruzione di quel tratto di storia volutamente
nascosta e mistificata dalla storiografia ufficiale che Volin
chiamò Rivoluzione sconosciuta.
Giuseppe Aiello
Camillo Berneri né santino né liberale
Le edizioni Zero in condotta pubblicano in una nuova edizione
il volume Camillo Berneri. Scritti scelti (pp.
322, € 20,00), con introduzione di Gino Cerrito,
prefazione, note e biografia di Gianni Carrozza.
Camillo Berneri, nato il 20 maggio 1897 a Lodi, laureato
in filosofia, aderì al movimento anarchico nel 1916,
dopo aver militato nella Federazione Giovanile Socialista. Per
la sua molteplice attività di scrittore, organizzatore
e propagandista, subì le persecuzioni del regime di Mussolini
che lo costrinse all'esilio nel 1926 prima in Francia, poi in
Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania. Ciò non gli impedì
un'intensa opera di approfondimento teorico, sui principali
temi in discussione nei movimenti rivoluzionari dell'epoca,
che trovò ospitalità prevalentemente sulla stampa
editata dalla diaspora anarchica e antifascista in esilio. Accorso
in Spagna all'indomani dell'insurrezione popolare contro il
colpo di stato militare – prima in veste di organizzatore
e di combattente della sezione italiana della Colonna Ascaso
poi di animatore delle trasmissioni in italiano di Radio Barcellona
e del giornale Guerra di classe – Berneri, per la sua
circostanziata denuncia del ruolo controrivoluzionario dei comunisti
e dei loro alleati, divenne oggetto della loro rappresaglia.
Il 5 maggio 1937, non ancora quarantenne, venne assassinato
da una pattuglia della polizia.
I testi raccolti nella presente antologia riguardano un periodo
di grande importanza per le vicende politiche e sociali che
caratterizzano la storia europea del primo trentennio del novecento,
dall'opposizione alla guerra del '14-18 all'insurrezione antifranchista
del '36 in Spagna, passando per la rivoluzione russa, il biennio
rosso, la dittatura fascista.
Riproduciamo qui di seguito la premessa di Gianni Carrozza.
|
Camillo Berneri |
L'antologia che le edizioni Zero in condotta presentano è
stata pubblicata nel 1988, in francese, dalle Editions du Monde
Libertaire. Gino Cerrito ne aveva curato l'introduzione fin
dal 1983 ed è il suo ultimo scritto, che ha preceduto
di poco la sua morte. All'epoca, e durante quasi vent'anni,
è stata la più completa antologia di scritti berneriani.
Ma perché presentarla oggi? Occorre fare un passo indietro
per comprendere il modo in cui Berneri è stato conosciuto
e vissuto dal movimento anarchico. Durante la sua vita, la quasi
totalità dei suoi scritti (con l'eccezione di alcuni
opuscoli) appare sui giornali anarchici, soprattutto di lingua
italiana, ma anche spagnola, francese, inglese, ai quattro angoli
del mondo e principalmente in Europa, Stati Uniti, America Latina.
La sua fama di intellettuale militante comincia a diffondersi
nella prima metà degli anni '20, ma la maggior parte
dei suoi scritti circola sull'onda della diaspora anarchica
e antifascista italiana nel mondo.
Se i giornali anarchici di lingua italiana lo ospitano volentieri
sulle loro colonne, non avrà quasi mai la possibilità
di fare una pubblicazione veramente “sua”, una pubblicazione
che esprima non soltanto il suo punto di vista su questo o quel
problema specifico, ma una visione d'insieme, una visione del
mondo. Ci proverà, tra mille difficoltà, nel fuoco
dell'azione, in Spagna, con Guerra di classe, ma l'esperienza
sarà interrotta dalla sua morte. Si aspettava comunque
che questa interruzione si producesse per effetto della stessa
censura che aveva tagliato i fondi a giornali come L'Espagne
Antifasciste, le cui analisi critiche davano fastidio al gruppo
dirigente della CNT.
Tutta la stampa anarchica internazionale si riempie di articoli
sulla sua morte, sul suo pensiero, sulle sue prese di posizione.
Lo scritto più completo e acuto è quello di Max
Sartin (Raffaele Schiavina) sull'Adunata dei Refrattari,
che tanti articoli di Berneri aveva pubblicato. Possiamo datare
la tendenza a trasformarlo in icona, in santino, che ha prevalso
poi per molti anni, a partire proprio da questo scritto. A partire
da questo momento Berneri non è più uno che discute
di tutto e con tutti, ma diventa il martire dell'anarchia, il
simbolo della rivoluzione spagnola assassinata alle spalle dagli
stalinisti, diventa il simbolo dell'intransigenza anarchica
di fronte al ministerialismo del gruppo dirigente della CNT
e la sua “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny”
farà il giro del mondo.
L'anno
dopo, il comitato Camillo Berneri pubblica a Parigi la prima antologia
postuma (Pensieri e battaglie), con una introduzione di
Emma Goldman, e nel 1939 esce a Barcellona l'antologia Ensayos.
La fine della guerra di Spagna e il successivo scoppio della guerra
mondiale inghiottirà nella tempesta tutto quello che tenta
di andare oltre il tentativo di sopravvivere da parte degli anarchici
scampati alla barbarie nazista, fascista, stalinista e alla repressione
più soft e selettiva (ma non meno efficace) dei paesi democratici.
La tendenza a farne un santino perdura in Italia nel dopoguerra,
accentuata dal fatto che i giornali su cui Berneri scriveva
sono diventati introvabili e dalle riedizioni dei suoi testi
politicamente più innocui e meno controversi. Dall'altro
lato alcuni militanti più giovani, Masini in testa, tentano
di utilizzare l'autorità morale di Berneri e pubblicano
alcuni opuscoli riesumando scritti che hanno un forte odore
di zolfo: parlare del rispetto che Berneri nutriva per Gramsci
ad un movimento arroccato sull'anticomunismo, rievocare la polemica
sulle elezioni che aveva preceduto quelle spagnole del 1936
parlando di “cretinismo anti-elettorale”, rimettere
in discussione l'anticlericalismo virulento che era una parte
costitutiva dell'identità anarchica nell'Italia del dopoguerra,
poteva sembrare un'operazione iconoclasta. Lo era, nel senso
che dava una scossa ad un movimento arroccato sulla propria
identità, ma l'operazione non permetteva di conoscere
meglio né Berneri né il contesto in cui questi
scritti avevano visto la luce. Ma soprattutto non poteva risolvere
i problemi che erano all'origine della crisi dell'anarchismo
del dopoguerra.
Un primo contributo alla conoscenza di Berneri viene ancora
da Masini, con Pietrogrado 1917 - Barcellona 1937, ma
da un Masini profondamente cambiato rispetto a quello che aveva
partecipato ai GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria)
nel decennio precedente. Fino all'uscita di questa antologia,
di Berneri si conosce molto poco: si sa che è stato assassinato
in Spagna e gli articoli che appaiono di tanto in tanto sulla
stampa libertaria ne tengono viva la memoria ed il mito. Del
suo pensiero si sa ancora meno.
A partire da questo momento si comincia a cercare di ricostruire
la biografia di Berneri, il contesto del movimento, a cercare
di capire chi sono i suoi interlocutori. Il convegno di Milano
del 1977, la tesi di Paco Madrid pubblicata da Aurelio Chessa
nel 1985, la Memoria antologica pubblicata sempre da
Chessa nel cinquantesimo anniversario della sua morte, hanno
il merito di riaprire la discussione sulle discutibili (e discusse
finché era vivo) opinioni di Berneri. Punti di vista
diversi trovano il modo di esprimersi, ma a partire dalla fine
degli anni '80 si afferma la tendenza a leggere Berneri più
come un liberale atipico che come un militante anarchico che
esprime una concezione propria, originale, dei problemi che
tratta. I capitoli dedicati a Berneri in studi più generali
prodotti da Nico Berti, gli interventi di Pietro Adamo sono
alla punta di questa tendenza. L'antologia di scritti editi
e inediti curata sempre da Adamo offre un'analisi della formazione
e delle opzioni culturali del nostro, sempre in questa chiave.
Senza parlare della caricatura che viene fornita da un certo
Carlo Lottieri, che lo arruola sfacciatamente – insieme
a Francesco Saverio Merlino – fra i predecessori dei cosiddetti
“anarcocapitalisti”. Onda lunga dell'implosione
dell'Urss? Sintonia con il pensiero unico dominante? Una cosa
non esclude l'altra, ovviamente, ma sembra che gli effetti tocchino
in pieno anche il cuore del movimento anarchico attraverso alcuni
prestigiosi docenti universitari. Questa tendenza trova una
conferma nello studio biografico di Carlo De Maria – sicuramente
il più serio e completo pubblicato fino ad oggi –
e negli interventi che questi studiosi hanno fatto in vari convegni
degli ultimi anni.
Manca a tutt'oggi una raccolta seria degli scritti che permetta
di uscire da una lettura ideologica di testi berneriani, che
spesso vengono letti, selezionati ed utilizzati come pezze d'appoggio
per convalidare le chiavi di lettura degli uni o degli altri.
Solo una raccolta di scritti, se non generale, almeno degli
scritti politici, intorno a cui venga ricostruito il dibattito
militante dell'epoca in cui questi sono stati prodotti, permetterebbe
di fare un salto di qualità e di ridare all'opera di
Berneri quello spessore analitico, etico, militante che finora
solo pochi topi di biblioteca hanno potuto apprezzare nella
sua complessità.
Merita di essere segnalato uno scritto sintetico di Claudio
Strambi, che esprime un punto di vista opposto, e che a mio
avviso coglie bene il senso dell'attività intellettuale
e militante di Berneri. La scheda biografica che gli è
stata dedicata nel Dizionario biografico degli anarchici
italiani tenta una ricostruzione equilibrata dei passaggi
nodali della sua esistenza, richiamandone le caratteristiche
politiche fondamentali.
Va detto infatti che è proprio Berneri ad aver facilitato
una lettura contrastata di sé stesso. La quasi totalità
dei suoi articoli ha un carattere frammentario, è legata
a problemi e momenti precisi della sua epoca, si inquadra molto
spesso dentro discussioni o polemiche che si sviluppano sulle
colonne della stampa libertaria. È ovvio quindi che,
a seconda dell'interlocutore, del momento storico, del dibattito
politico, possa dire cose diverse e con qualche estrapolazione,
qualche citazione estratta dal contesto, qualche brogliaccio
o appunto trovato in un archivio, gli si possa far dire più
o meno tutto quello che l'autore desidera leggere. L'inesistenza
di uno o più lavori d'insieme che pongano rimedio a questo
stato di cose ci riporta alle difficoltà, alle contraddizioni
e alle debolezze del movimento anarchico qual è stato
fino ad oggi in Italia.
Veniamo quindi alla nostra antologia, che, pur non colmando
i vuoti e le insufficienze di cui abbiamo parlato, è
un passo importante che il pubblico italiano non aveva ancora
a disposizione. Essa rappresenta l'ultimo tentativo in ordine
di tempo di ridare la parola allo stesso Berneri, con una scelta
ampia di scritti pubblicati quando era vivo, che spazia su tutti
gli aspetti della sua produzione politica e permette di farsi
un'idea della consistenza del suo lavoro. Non è soddisfacente,
certo, e ci auguriamo che questo lavoro venga rapidamente superato
da ulteriori ricerche e pubblicazioni.
Se dovessimo segnalare al lettore qualcosa che caratterizza
più di tutto il pensiero di Berneri, potremmo dire che
la sua scelta rivoluzionaria è critica viva, è
desiderio di non accontentarsi dell'esistente, è una
spinta ad andare più lontano a partire dalla concretezza
delle difficoltà che ci troviamo davanti.
C'è una differenza profonda fra la situazione che conosciamo
attualmente nelle società occidentali a capitalismo maturo
e quella che ha preceduto l'ultima guerra mondiale. Per capire
l'azione e le varie posizioni di Berneri non si può fare
astrazione dalla prospettiva concreta e costante di avviare
la rottura rivoluzionaria, cercando tutte quelle soluzioni che
la rendono possibile per le élites rivoluzionarie, desiderabile
e realizzabile per la maggioranza del proletariato, migliore
della società esistente per l'umanità intera.
Questa prospettiva è talmente presente nell'attività
di Berneri (come pure di Malatesta e di buona parte dei militanti
della loro generazione) che non ha bisogno di parlarne in modo
esplicito. Ma se a 70 anni di distanza vogliamo capire il senso
di quel che fa, scrive o dice, dobbiamo fare uno sforzo per
tornare a questo elemento che la nostra realtà quotidiana
non ci permette necessariamente di sentire come una prospettiva
immediatamente praticabile.
Gianni Carrozza
1945/La Sicilia scandagliata da un giornalista molisano
Nell'autunno del 1945, lo scrittore molisano Francesco Jovine
venne in Sicilia per seguire, come inviato del quotidiano romano
L'Epoca, i fermenti separatisti che agitavano l'isola. Jovine,
autore già noto e apprezzato per il suo romanzo La
signora Ava (pubblicato nel '43), e per il suo impegno sociale
sui temi e le battaglie del meridionalismo, dal 27 ottobre al
13 dicembre, tenne, per il quotidiano diretto da Leonida Rèpaci,
una temporanea rubrica dal titolo Separatismo siciliano
e in dieci articoli raccontò storie e personaggi, passioni
e umori, grandezze e miserie della Sicilia del dopoguerra.
Nel suo primo pezzo, del 27 ottobre, che ha per titolo “24
ore di repubblica”, Jovine informa che il separatismo
in Sicilia è davvero “nell'atmosfera e si giova
di cento, mille ragioni, di innumerevoli impulsi sentimentali,
delle sottigliezze bizantineggianti degli avvocati, del candore
degli illusi, delle torbide mene dei reazionari, degli incoffessati
interessi di gruppi politici e di clientele, della rozzezza
mentale del popolo”. Ma, constata Jovine, gli effetti
concreti che gli agitatori del movimento separatista riescono
a realizzare, mischiandosi a briganti e criminali, ai quali
chiedono aiuto e sostegno, sono gli assalti a piccoli e spesso
remoti e isolati municipi (Falcone, Montelepre, ecc.) e l'instaurazione
di fragili repubbliche locali che durano a malapena un giorno,
per svanire l'indomani.
Nel pezzo successivo, in “Sguardi verso cielo”,
del 31 ottobre, Jovine affronta un tema drammatico per l'isola,
denunciando la grave mancanza di energia elettrica, che rallenta
la produzione nei luoghi di lavoro; la sera fa assomigliare
a catacombe gli alberghi palermitani, con i corridoi e le stanze
a malapena illuminate con le antiche “lumere” ad
olio; e rende invidiosi i messinesi che al buio, di notte, vedono,
“sfolgorante di luce”, Reggio Calabria, al di là
dello stretto. “Tutti i giorni la Sicilia ha luce appena
sufficiente per prendere coscienza delle sue tenebre”,
constata Jovine. Ed è questo solo un aspetto della grave
e diffusa precarietà che caratterizza l'isola e che acuisce
la voglia di parte del suo popolo di staccarsi dal continente,
come continua a mostrare Jovine nel suo articolo del 1 novembre
dal titolo “Viva la 49a stella”, ricostruendo
storicamente i sentimenti separatistici, nati subito dopo il
Risorgimento e ora incanalati in una consistente presenza organizzata,
politicamente e militarmente, soprattutto a Palermo, anche se
variamente composita. Del movimento separatista, infatti, nel
capoluogo vi è un'ala ultra-conservatrice di cui fanno
parte “un manipolo di baroni e marchesi decaduti che ronza
attorno ai pochi rappresentanti di famiglie principesche dal
patrimonio ancora solido”, sotto la guida della principessa
Lanza di Trabia (“che è ancora donna piena di fascino,
di mente perspicace e incline all'intrigo politico”),
che vorrebbe liberare la Sicilia e consegnarla al re; un altro
gruppo di latifondisti e nobili parteggia, invece, per il “paternalismo
illuminato” del primo sindaco separatista della città,
Lucio Tasca Bordonaro, ritenuto un agricoltore modello, che
conduce delle tenute con i più arditi ritrovati della
tecnica agraria, non dimenticando neppure di preoccuparsi del
benessere dei contadini. Tutti però hanno un obiettivo
comune e primario: “immunizzarsi dal bacillo rosso”
(come recita il titolo dell'articolo del 3 novembre), e fanno
proprie le parole pronunciate dal leader maximo del separatismo
nell'isola, l'on. Finocchiaro Aprile: “le classi sociali,
i partiti, i gruppi politici che paventano il comunismo, se
vorranno salvarsi non avranno che un mezzo: fare un blocco e
aderire all'indipendenza della Sicilia”.
Per realizzare questo obiettivo e per mantenerlo, annota Jovine
in “Maffia che nasce e maffia che muore” (dell'8
novembre) “i separatisti pensano che la Maffia sia sicuramente
un elemento di ordine”, poiché “in una regione
che soffre della progressiva disgregazione molecolare dei poteri
pubblici, in cui domina una violenza armata imponente, sanguinaria,
tumultuosa, sorprendente, senza carattere deciso o stabile,
sia da preferire un'altra violenza limitata nei fini, nei mezzi,
di volto domestico di cui si conoscono il linguaggio e il codice,
che ubbidisce a norme abiette, ma tradizionali e inviolabili”.
Nota però Jovine che la vecchia criminalità organizzata
sta mutando nelle forme, nei metodi, negli obiettivi della sua
corsa al denaro e al potere, traendo ispirazione dal gangsterismo
di stampo nordamericano.
Esempio di questa trasformazione della Maffia a Jovine pare
di vederli in Papuzza, il capo mafia di Adrano, grosso centro
agricolo del catanese. Delle sue gesta e della sua ramificata
organizzazione (ha tre o quattromila seguaci sparsi in tutta
la provincia di Catania, perfettamente organizzati, la maggior
parte dei quali vive mescolata alla gente comune, ma ubbidisce
fanaticamente agli ordini dell'invisibile capo), Jovine scrive,
il 13 novembre, in “Papuzza inaridisce le fonti”.
E se Papuzza spadroneggia nella parte orientale dell'isola,
a comandare nei grandi feudi della Sicilia centro-occidentale
sono i campieri che a colpi di lupara si stanno adoperandosi
per rendere vani i tentativi di riforma agraria voluti dal ministro
Gullo: e sparano sui contadini che vorrebbero avere la giusta
parte dei prodotti dei campi, che hanno coltivato e raccolto
col loro lavoro. L'articolo “I campieri sparano dalle
alture” (del 15 novembre) dà conto di queste violente
intimidazioni e soprattutto della triste vita dei braccianti
e dei contadini giornalieri.
Dell'inferno delle miniere, invece, dove non vi è limite
d'età in chi vi è condannato a lavorare, a causa
della miseria, Jovine parla nell'articolo “Il divertimento
del Caruso” (del 17 novembre) raccontando della sua visita
alla miniera di Trabonella, dove a colpirlo, tra l'altro, è
l'incontro con un ragazzo di dieci anni, di nome Michele Milanese.
È “bello, di tenere membra, di viso sottile e dorato
con grandi occhi azzurri pesanti e di antichissima malinconia”;
ha addosso “come soli indumenti, un paio di mutandine
tutte a toppe, incrostate di mota e un cappuccio fatto con un
cencio di impermeabile”. Pronuncia una sola parola: 'travagghiu',
ma viene subito ripreso dal capomastro che, mentendo spudoratamente,
dice allo scrittore che il bambino è lì per giocare
a impastare lo zolfo.
Una visita a Catania, poi, diventa l'occasione per constatare
come i pochi tentativi dell' imprenditoria locale vengano vanificati
dalla burocrazia nazionale: in “Fiammiferi senza fosforo”
(uscito il 24 novembre), Jovine racconta la tragicomica vicenda
capitata ad un'impresa catanese che vedendosi negare pretestuosamente
dal governo l'autorizzazione a produrre fiammiferi, mette ugualmente
in commercio, clandestinamente, le poche quantità che
aveva già realizzato: solo che questi fiammiferi, viene
detto a Jovine, forse perché “adombrati seriamente,
per l'ostile trattamento, si rifiutarono d'accendersi, non solo
sulle lastre di vetro come si prometteva nella loro confezione,
ma finanche sulla carta vetrata”.
È un'isola scandagliata in ogni sua parte, quella che
prende corpo negli ampi racconti di Jovine, ricchi di storie
e di aneddoti, di rilievi e riflessioni che, ricercando le ragioni
dei separatisti, illuminano sulla realtà complessa del
dopoguerra, sul feudo e indagano sul carattere e l'identità
dei siciliani, sui loro pubblici comportamenti.
Il suo ultimo articolo dalla Sicilia dal titolo “Esportazione
dei cervelli”, del 13 dicembre, offre il ritratto del
pubblico impiego isolano, della piccola e media borghesia impiegatizia
che trasforma il suo ruolo di servizio in potere e crea attorno
alla sua funzione, abusandone, clientela e sudditanza, perpetuando
così, nel rapporto tra cittadini e rappresentanti dello
Stato, modi e mentalità feudali e borboniche. Per questo
gran parte dei funzionari siciliani parteggia per il separatismo:
vogliono amministrare 'sicilianamente' – secondo i loro
interessi e scopi personali – l'isola, allontanando il
controllo del centro, del governo e della politica nazionale.
Stefano Livolsi
Parola
di
fisarmonicista
“Questo libro che racconta la vita di Jovica Jovic non
è scritto per i moralisti, è invece per chi è
disposto a contemplare e ad accogliere il valore della fragilità
umana, per chi capisce che cos'è l'umanità e la
rispetta in tutte le sue manifestazioni”. Così
Moni Ovadia mentre dà parola, insieme a Marco Rovelli,
alla narrazione della vita particolare di Jovica Jovic (Moni
Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic,
Feltrinelli, Milano 2013, pagg. 187, € 15,00). Un'esistenza
fuori dalle logiche omologanti di quella cultura che continua
a farsi carico del pesante “fardello dell'uomo bianco”,
presunta depositaria di una missione civilizzatrice ancora da
compiere.
Un libro nato dall'incontro di amici intorno a un tavolo di
una trattoria di campagna. Condividono il talento per la musica
e una visione del mondo che intende contrastare le gabbie di
un'ottica ristretta, deformante, miope, discriminante che pesa
ancora troppo, soprattutto sulle culture minoritarie, escludendo
altri mondi possibili.
“Io sono nato in un bosco”, dice Jovica. “Sono
stato partorito da una zingara, io. Sono colpevole. Non ho mai
avuto la mia terra. E non si sa da dove vengo e dove vado. Per
questo tutti ci disprezzano, perché siamo senza terra”.
Ancora: “Io vi ho raccontato tutto di me. Adesso voi dovete
scrivere un libro sulla mia vita. Non ho mai scritto un libro,
non ho mai pensato di poter scrivere...” Si convince:
“E poi a voi vi ascoltano. Se lo scrivete voi questo libro,
tutti sapranno che cosa vuol dire essere rom. Sapranno che è
anche bello essere rom”.
Una vita inedita, capace di suscitare meraviglia per l'intensità,
il gusto e la forza, il coraggio, la tenacia con la quale Jovica
sceglie di viverla. Con un bel gesto empatico, gli autori intrecciano
parole, frammenti di lettere, favole, profonde riflessioni,
ricordi suscitati da vecchie fotografie, dando origine al racconto
di una vita che va oltre la dimensione individuale, per abbracciare
un più ampio scenario di un mondo “altro”,
sfaccettato, complesso, avventuroso, spesso tragico, a volte
inafferrabile. Viene restituito un genuino e autentico mosaico
corale di tradizioni mai uguali, perché “le diversità
tra i rom dipendono da dove sono cresciuti”. Ma tutti
accomunati dalla parentela e dalla lingua romanes. Non riconosciuta
tra le lingue minoritarie, sopravvive ai margini portandosi
addosso i segni di una cultura alla quale non è stato
concesso mettere radici.
Jovica è ultimo anello di una catena secolare di musicisti.
Una vita con la musica. La musica dentro la vita, si potrebbe
dire. Le armi di famiglia, strumenti a corda e la voce: “Un
vero cantante deve saper spegnere le fiammelle della lampada”.
Il padre Dusan suonava violino e contrabbasso e ha fatto il
partigiano. Il bisnonno è morto a centosei anni con il
violino in mano e vestito a festa. “La musica tzigana
si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore”.
Ma poi arriva la fisarmonica, e “per avere una fisarmonica,
mangiavano la crusca!”. Jovica la imbraccerà presto.
A tredici anni avrà già guadagnato il rispetto
dei suoi parenti grandi musicisti, per saper suonare i Kolo,
la musica delle danze ai matrimoni. Dopo dirà: “C'è
forse un modo più nobile di guadagnarsi la vita che offrire
la tua musica a chi vuole ascoltarla accettando in cambio da
lui quello che liberamente si sente di darti? No, io credo che
non c'è”. Nei locali di tutta Europa, suonerà
i bottoni della sua nuova Dallapè comprata a Stradella
nel 1971. Fidata, inseparabile perché “noi fisarmoniche
conosciamo le parole dei poeti”.
Ma il passaporto vero per il mondo, il mestiere di vivere lo
apprenderà fin da bambino nell'ascolto religioso delle
parole del nonno Mikailo, vecchio e saggio: “La saggezza
no: quella dovete cercarla da soli”. Parole da imprimere
in testa come un testamento. “Più tardi capii che
essere giudicati senza essere conosciuti era il destino secolare
del popolo rom”. Così la solidarietà immediata
e naturale verso chi dice di essere perseguitato, calunniato,
infangato, non creduto diventa la chiave privilegiata per leggere
la realtà.
L'intreccio di sette lettere di Jovica rivolte ai lettori, storie
cantate che spaziano tra genti diverse del suo popolo, l'abilità
affabulatoria e intrigante e la persuasione della parola ci
restituiscono lo spirito resiliente del popolo rom. Uno spirito
solido, coraggioso, energico e vitale, mai disperato, perseverante
e capace di resistere alle avversità e di uscirne rafforzato.
Uno spirito che intende resistere all'omologazione.
Nella terra serba ortodossa che lo ha accolto al mondo, la madre
Radmila e il padre Dusan si guadagnano verso le altre famiglie
quel rispetto fatto di gratitudine che sarebbe durato tutta
la vita. E viene trasmesso al piccolo Jovica dalla madre, guardata
con gli occhi di bambino innamorato, capace di cogliere la destrezza,
la sapienza di Radmila nell'improvvisare tavole imbandite per
ospiti inattesi, sempre graditi. Il cibo, dono dell'accoglienza,
condivisione e ospitalità.
Nella Kris Romanì, il valore della sincerità.
Corte di giustizia del mondo rom, è considerata “giusta”
non perché imposta dall'autorità dello stato,
ma chi deve essere sottoposto al suo giudizio ne riconosce la
saggezza, l'equilibrio, la fama di uomini giusti capaci di giudicare
con sapienza. Accettare il giudizio della Kris, riconoscere
la propria colpa in modo sincero, significa riguadagnarsi la
dignità perduta.
Le parole di Jovica invitano inoltre a cogliere il senso profondo
della famiglia allargata: “Ricco è chi ha più
figli”. E ancora: “Ognuno sente di appartenere all'altro”.
Il racconto si dipana sul significato della verginità
e degli ottanta ducati di dote per sposare Angelina. Parole
per capire, astenendoci dal giudicare anche le croci che segnano
questo popolo. Come quella del furto: “Nessuno vuole rubare,
se ha un'altra possibilità”. Spiega: “Povero
è il rom al quale non entra nessuno in casa, e non si
mangia un piatto in casa sua, e non è invitato da nessuna
parte, né ai matrimoni, né alle feste, a niente.
Quello è povero. Quello che non ha una casa, ma solo
una tenda, che non ha niente, però è generoso
e ospitale, e vanno tanti a frequentare la sua tenda, quello
è ricco. Questa è la differenza di ricchezza tra
i rom”. La ricchezza sta nel carattere, nell'onestà,
nella parola mantenuta, nel metterci la faccia.
Le parti narrative si intersecano con le riflessioni di Moni.
Ci riporta ai nostri metri di giudizio e sollecita un decentramento
di prospettiva. L'ipocrisia della nostra cultura abolisce la
forza logica ed etica dei contesti. Il furto al fisco reca danni
deleteri non più sopportabili dalla collettività.
Derubare il concittadino è classificato tra i comportamenti
veniali. Ancora: “Quali metri di giudizio abbiamo per
capire chi chiede l'elemosina?” Così, parlare di
culture “altre” consente di riportare l'attenzione
sulla nostra cultura guardandola con la lente di ingrandimento
per svelarne le ipocrisie.
Anche Marco, in veste di insegnante, riconduce il discorso nella
quotidianità: la maglietta della Juventus, indossata
da uno studente, con scritto dietro Pirlo, calciatore di origini
sinte o le considerazioni sulle abilità di un altro grande
calciatore svedese di origini rom, uno dei più completi
attaccanti di talento. Ogni occasione è proficua per
aprire spiragli sul mondo rom. Ma l'elenco potrebbe continuare
annoverando nomi di personaggi noti e altrettanto apprezzati,
per capire quanto i nostri pregiudizi siano stigmatizzanti.
Circostanze propizie per intraprendere la storia di questi popoli
stanziali indo-ariani, ma costretti al nomadismo a più
ondate migratorie. Un popolo che ha conosciuto lo sterminio
nei lager. E proprio ad Auschwitz, madre e padre di Jovica sono
statti deportati.
Un popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno, ma che
dalle guerre si trova travolto, perseguitato, torturato. Come
nelle guerre balcaniche, con la cancellazione della Jugoslavia
dalla carta geografica: “Io non capivo e dicevo che non
dovevo scappare, non avevo nemici”. Ancora oggi in Italia,
Jovica con la sua famiglia sta combattendo un'altra guerra.
Sgomberi. Documenti regolari che scadono. Impossibilità
per lui di un ritorno in Serbia a salutare il padre morente.
Impronte digitali e denuncia per detenzione illegale di armi:
due cacciaviti. Decreto di espulsione. Permesso di soggiorno
provvisorio per motivi umanitari. Presto scaduto. Di nuovo straniero
illegale. Il musicista che non ha ancora una patria ha affiancato
artisti come Piero Pelù, Moni Ovadia, Dario Fo, suonato
a Milano al “Binario 21” della stazione e in tournée
con il suo gruppo I Muzikanti. Oggi è maestro di fisarmonica,
con metodo a orecchio, proprio come si conviene a una cultura
che si basa su una trasmissione orale. Ma il suo non è
ancora riconosciuto come un lavoro.
Jovica nella sua ultima lettera si fa portavoce del suo popolo.
Cosa desideriamo? Documenti in regola, terra a pagamento per
costruire casette e vivere insieme alla famiglia allargata.
E un lavoro. Una vita normale. È tutto.
Così, le parole in musica composte dal padre Dusan ad
Auschwitz, ritrovate da Jovica dopo la sua morte, suonano ancora
come un monito per una società che voglia considerarsi
civile: Na bi strena men – Non dimenticateci.
Claudia Piccinelli
Jovica, Moni e Marco sono tre amici di “A”
(e miei personali). Con Jovica da anni mi capita di partecipare
a iniziative pubbliche, spesso nelle scuole, in cui io presento
il nostro dvd sullo sterminio nazista degli zingari e lui, spesso
con altri, suona la fisarmonica (e come la suona!). Viaggi,
lunghe chiacchierate, conoscenza reciproca: una storia che continua.
Di Moni mi piace ricordare, tra le altre cose, la comune
partecipazione, tanti anni fa, a un'iniziativa pubblica in occasione
del giorno della memoria, promossa dal e al Teatro Parenti,
di Milano, da Andree Ruth Shammah. Io ero stato chiamato come
anarchico per ricordare i compagni nostri passati per il camino.
Nei pochi minuti previsti, io ricordai appunto la presenza anarchica
anche nei lager nazisti, ma preferii utilizzare il “mio”
tempo per ricordare chi lo sterminio l'aveva subito come conseguenza
non di una personale scelta politica (come, tra i tanti “politici”,
gli anarchici) ma i rom e i sinti che – unici insieme
agli ebrei – furono sterminati su basi “razziali”.
E Moni, che suonò dopo le mie parole, ad esse si unì
sottolineando come nel suo gruppo ci fosse uno zingaro.
E anche Marco, prima per il cd dei “Les anarchistes”
e poi con i suoi volumi di denuncia sociale (lavoro nero, immigrati,
ecc.), ha trovato spazio sulla nostra rivista più volte
in questi anni.
Ecco perché questo libro a sei mani di/su Jovica lo
sentiamo molto come (anche) una nostra storia. Come tutte le
storie di persecuzione e di emarginazione.
Paolo Finzi
Carlo Oliva, un anarchico giallo
Quella che segue non è una recensione, ma è un
atto di stima e di amore verso un amico e un intellettuale di
grande spessore. Non sarò dunque “distaccata”
quanto basta e quanto deve essere chi si accinge a recensire
un'opera, ma poi penso anche che non si debba sempre esserlo:
la lettura è passione, e di razionale vi è ben
poco.
Carlo Oliva era sì un grande critico della letteratura
di genere, ma era soprattutto uno degli uomini più colti
e intelligenti che abbia conosciuto. Rileggere molte delle sue
recensioni e sentire la sua voce mi dà la stessa emozione.
Perché la voce di Carlo Oliva che arrivava dalle onde
di Radio Popolare, per me era quanto di meno radiofonico esistesse,
ma era anche, allo stesso tempo, un'esperienza ipnotica, così
che quando finivo di ascoltarlo: a) mi veniva voglia di leggere
il libro di cui aveva parlato; b) mi veniva voglia di parlarne
con lui. Spesso, per mia fortuna, entrambe le cose sono capitate.
|
Carlo
Oliva disegnato, tanti anni fa,
dalla matita
di Roberto Ambrosoli |
Le curatrici del volume (Giallo popolare, Mimesis, Milano
2013, pp. 150, € 12,00), Nicoletta Vallorani e Nicoletta
Di Ciolla scrivono nella prefazione: “Questa raccolta
è dedicata a Carlo Oliva, che è stato partecipe
del progetto, ma non ha fatto in tempo a collaborare concretamente.
Le curatrici hanno cercato di mantenerne lo spirito e di intuire
le scelte che avrebbe fatto lui. Dunque la selezione va intesa
in questa prospettiva, ovvero come un tributo a una personalità
che ha contribuito in modo determinante, con la mente e col
cuore, a creare e mantenere un circolo di scrittori e lettori
che alla letteratura di genere facevano riferimento. In questo
lavoro, un ruolo fondamentale va assegnato alla Libreria Sherlockiana,
per anni animata dalle iniziative e dallo spirito inarrestabile
di Tecla Dozio, contro le avverse fortune di questo nostro difficile
contesto culturale.
E già in queste poche righe sta il senso dell'intero
volume: la letteratura poliziesca, popolare e di genere; la
partecipazione attiva di Carlo Oliva alla sua crescita che ha
visto negli anni l'affermazione di alcuni tra i più importanti
autori e le più importanti autrici, italiani e internazionali,
di questo genere letterario che spazia dal noir, al giallo,
al poliziesco, al gotico e va oltre, approdando in quell'unica
categoria che vale e che contiene tutto: la Letteratura”;
ed infine, ultimo elemento ma non meno importante, anzi spesso
vero e proprio pilastro per molti degli autori recensiti da
Carlo, la Sherlockiana di Milano di Tecla Dozio, luogo nel quale
non solo si trovavano libri noti o introvabili, ma in cui ci
ritrovavamo noi, autori e, soprattutto, si potevano incontrare
Carlo e Tecla, le due persone che, insieme a poche altre –
per esempio Luigi Bernardi, scomparso da poco – sono stati
i e sono i grandi “costruttori” della letteratura
di genere italiana.
Le parole di Tecla Dozio che insieme a quella delle curatrici
dà voce all'uomo Oliva oltreché all'intellettuale,
sono rivelatrici: “Non era snob nonostante fosse un serio
intellettuale, nel senso più nobile del termine. Non
evitava di sporcarsi le mani con la letteratura di genere che,
anzi, aveva messo al centro dei suoi interessi di lettore e
studioso. Questo da molti anni, non da quando il 'giallo' è
diventato di moda. Era anarchico nel senso più puro del
termine.”
È facile usare aggettivi, soprattutto quando si deve
scrivere o parlare di qualcuno che non c'è più,
ma in questo caso tutti quelli utilizzati sia da Dozio che da
Vallorani e Di Ciolla corrispondono a una verità profonda
e pura. Sullo stile della scrittura delle recensioni di Oliva,
su quali sono state selezionate e con quale criterio, sono notizie
che troverete nel libro.
Io vi posso dire che leggerlo è riascoltare la voce di
un uomo davvero grande, un intellettuale generoso e un amico
che ha fatto vivere un pezzo importante della cultura di questo
paese miope e un po' mediocre in cui la cultura non è
mai messa tra le priorità per un riscatto morale e civile
come, invece, Oliva e tanti di noi cittadini – autori
e lettori – auspicheremmo.
Barbara Garlaschelli
Bambini
e diritti/
Una proposta pedagogica
Alice nel paese dei diritti (edizioni Sonda, 2013, pp.
176, € 12,00) è un libro realizzato con la collaborazione
di molte persone e dedicato a bambini e adulti. La presentazione
di Daniele Novara sui diritti e i doveri dei bambini denuncia
la deriva consumistica a cui sono sottoposti i fanciulli nel
mondo occidentale e cosiddetto benestante, ribadendo la necessità
della presenza di educatori che rispettino la differenza infantile,
per una pedagogia “amica” della crescita dei bambini
e delle bambine. Le illustrazioni di Pia Valentinis corredano
il racconto di Alice che esce dal paese delle meraviglie per
esplorare il mondo reale, compiendo un percorso iniziatico e
a tappe, per scoprire e spiegare come sono nati i diritti dell'infanzia.
Le scoperte di Alice sono poi rese fruibili attraverso test,
giochi e racconti. Proseguendo nella lettura, si trova un capitolo
dedicato alla “Convenzione dei diritti dei bambini”:
un documento molto importante, approvato dall'ONU e da tanti
paesi del mondo, impegnati per la tutela dell'infanzia, abilmente
ritrascritto, in formula didattica, da Mario Lodi. Questo libro
ludico e divertente apre ad una serie di riflessioni imprescindibili
non solo sul mondo dell'infanzia, a partire dalla “Dichiarazione
universale dei diritti umani”, fino ad arrivare alla “Convenzione
internazionale sui diritti dell'Infanzia”, approvata dall'Organizzazione
delle Nazioni Unite (ONU) il 20 novembre 1989. Questi documenti
aiutano a comprendere il valore della condizione dello stato
del bambino e della bambina, oltre gli stereotipi, i pregiudizi,
le discriminazioni, perché “siamo noi stessi nella
misura in cui siamo gli altri”, per scoprirci attraverso
le reciproche differenze, le implicite contraddizioni ed esplicite
conflittualità. Infatti, in un contesto sociale micropedagogico,
proprio il conflitto – secondo gli autori –, non
la violenza, favorisce l'incontro e trasforma l'indifferenza
in consapevolezza, per il diritto dei bambini di litigare in
pace, oltre i falsi miti del perbenismo, perché la condizione
infantile del litigio è un diritto. Ovviamente si intendono
contesti di conflitto e non di violenza: due aspetti pedagogici
ben distinti. È necessario gestire i litigi come occasioni
formative, per aprirsi a nuovi ambiti di incontro e transitare
dall'appartenenza escludente alla cittadinanza aperta e solidale,
per favorire la diversità come risorsa.
Alla radice dell'educazione sussiste il concetto di umanità
e lo scopo di adeguare la cultura e gli atteggiamenti sociali
delle persone a una dimensione planetaria, in cui il diritto
del singolo e dei popoli assuma un ruolo centrale. Nel tempo
delle grandi migrazioni, l'intero apparato educativo e formativo
deve considerare la necessità di accogliere bambini provenienti
da vari “altrove”. L'accoglienza comporta di vivere
una relazione che innesti fiducia, valorizzazione e capacità
di trasformare i problemi in risorse. I grandi spostamenti umani
del nuovo millennio costituiscono un segnale importante di una
fase rinnovata dell'umanità, in un percorso collettivo
vissuto come sfida arricchente e non come minaccia che impoverisce.
È sempre più necessario transitare dalla logica
dell'accoglienza, basata sulla visione dello “straniero”
come ospite, all'idea che dobbiamo costruire una convivenza
possibile con il concetto e la pratica della gestione del conflitto.
Infatti il conflitto e il disagio sono provocati da ogni convivenza,
ogni incontro con il nuovo e il diverso, ed è proprio
attraverso la situazione conflittuale e la condizione di disagio
che possiamo giungere alla scoperta dell'altro, ma anche di
noi stessi, per vivere pienamente una cittadinanza aperta, plurale
e solidale, in una innovativa grammatica interiore e in una
nuova e ampia concezione dell'essere umano, aperta al dialogo
e all'incontro, per favorire contesti di pace e rispetto dei
diritti di tutti gli esseri viventi.
Laura Tussi
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