Cento anni di canzoni –
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Il '58
La canzone italiana nel gennaio del 1958 pareva ancora immobile,
asfittica, morta, ferma. Proprio negli anni in cui sorgeva e
risorgeva questa grande forma popolare in ogni paese –
la Francia e gli Stati Uniti ne erano assolutamente all'avanguardia,
ma anche dall'America Latina cominciava a giungere qualcosa
d'importante – l'Italia era la retroguardia di tutto.
Fu il '58 a sparigliare le carte.
Proprio nel Gran Casinò – il salone delle feste
del Casinò di Sanremo – tempio della canzone italiana,
avvenne la rivoluzione. Un soffio di bufera passa sul bel canto,
sulle ugole d'ore, sul vibrato, sui tenorini di grazia (la famosa
voce “tenorinale”, come diceva sfottendo Totò).
Nel gennaio del 1958 trionfa all'ottavo festival della canzone
italiana di Sanremo Domenico Modugno con la sua – e di
Franco Migliacci – Nel blu dipinto di blu, presto
ribattezzata e universalmente nota come Volare. Le Nilla
Pizzi, i Giorgio Consolini, i cantanti vecchio stampo con un
vecchio stile abbozzano, Claudio Villa, com'era nel suo carattere,
dà in escandescenze. Poco importa. La novità è
sotto gli occhi e nelle orecchie di tutti. Volare sarà
un enorme successo che proietterà il suo autore/cantante
nell'olimpo dello show business internazionale, in particolare
di quello americano.
Ma la rivoluzione in verità non era iniziata lì.
A ben ascoltare i tentativi di rinnovamento dall'interno della
canzone italiana sono tanti, e serpeggiano sin dagli anni '30.
I nuovi ritmi che hanno già trionfalmente conquistato
mezzo mondo sono nati, in schiavitù, nell'America nera
delle piantagioni di cotone. Fra la fine dell'800 – dopo
la guerra di secessione – e i primi anni del ‘900,
il blues e lo spiritual si sono urbanizzati, hanno incontrato
la disperata vitalità degli emigranti e dei profughi
di mezzo mondo nei quartieri poveri delle metropoli –
ebrei russi, contadini italiani, pastori irlandesi, polacchi,
tedeschi, mercanti greci e armeni – dando vita alla più
grande rivoluzione musicale dal basso: l'incontro fra la musica
nera, le ballate e le danze popolari europee e slave. Con tutte
le loro complesse sfumature jazz e blues sono assurti ai palcoscenici
di Brodway, codificati dagli editori della Tin Pan Alley, da
lì hanno preso il volo verso il mondo. La Francia degli
anni '20 è il luogo culturalmente più ricettivo
e curioso, il nascente movimento surrealista e il cubismo faranno
del jazz la proprio musica. Charles Trenet – un geniale
autore-cantante – riuscirà a far andare lo swing
al tempo della poesia, fondando di fatto la canzone d'autore
moderna e il gitano Django Reinhardt sarà il chitarrista
europeo più influente del '900.
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Il
trio Lescano |
Jazz prima e dopo la guerra
“Addio canzoni american / canzoni negre e messican /
dal Panamà o dal Perù / a noi non tornerete più”.
Anche in Italia questi ritmi vorrebbero attecchire, ma il provincialismo
e la diffidenza trovano un alleato straordinario nella nascente
politica culturale di autarchia fascista, che pendola fra l'ignoranza
e l'imbecillità: “È nefando e ingiurioso
per la tradizione, e quindi per la stirpe, riportare in soffitta
violini, mandolini e chitarre per dare fiato ai sassofoni e
percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto
per le effemeridi della moda! È stupido, è ridicolo,
è antifascista andare in sollucchero per le danze ombelicali
di una mulatta – si riferisce, si suppone, alla splendida
figura della grande soubrette Josephine Baker, che l'anno prima
aveva trionfato a Parigi – o accorrere come babbei ad
ogni americanata che ci venga d'oltre oceano!” tutto questo
nel 1928 sul Popolo d'Italia, l'organo ufficiale del Partito
Fascista. La battaglia – combattuta palmo a palmo da ogni
possibile retroguardia – è feroce e, a momenti,
prenderà gli accenti di un'infame politica razziale,
il Jazz viene definito “musica negroide” o più
per esteso “musica afrodemo-plutogiudo-masso-epilettoide”.
Intanto però le rispettive orchestre dei maestri Angelini
e Barzizza, le vere star del periodo d'oro della radio italiana
(l'EIAR), avevano un'impostazione timbrica e ritmica nettamente
jazzista. Dissimulate nella rivista, nell'avanspettacolo, nelle
balere, le forme musicali ritmate dello swing, dei ritmi afro-cubani,
si destreggiavano pure sotto il fascismo, perché in fondo
questa canzone italica non si sapeva nemmeno bene cosa fosse
e chi la volesse. A mettere moralmente in pensione – anche
se mai per sempre – l'ugola d'oro di Carlo Buti era arrivato
Alberto Rabagliati, uomo di bell'aspetto che inseguendo il mito
di Rodolfo Valentino aveva vissuto qualche tempo negli Stati
Uniti e, se non aveva coronato il sogno di diventare un divo
del cinema, era tornato con quel ritmo nell'orecchio, adatto
alla sua voce limitata nell'estensione ma duttile, al fraseggio
impeccabile, all'intonazione perfetta. C'era poi stato Natalino
Otto, il nostro migliore cantante swing: si era fatto le ossa
in una lunga gavetta sulle navi – Natalino era nato a
Genova – dapprima come batterista poi come vocalist, arrivando
a fare amicizia con un mito fondante del jazz quale Gene Krupa.
Riuscì a diventare l'idolo dei giovani stufi delle banali
tiritere che il regime promuoveva – non a caso Beppe Fenoglio
lo cita ripetutamente come simbolo di una gioventù ribelle
alla retorica fascista – senza mai prendere la tessera
del fascio, anzi ostentando una candida e superba indifferenza,
tanto che una squadraccia esagitata, durante uno spettacolo,
arrivò a puntargli una pistola alla testa sul palco quando
si rifiutò di cantare Giovinezza, “non la
conosco”, si limitò ad obbiettare.
Nel 1940 debuttava – i primissimi tempi in una formazione
tutta maschile, ma presto sostituendo con una donna la quarta
voce – il Quartetto Cetra, uno straordinario gruppo di
professionisti del palcoscenico, con tempi teatrali e musicalità
perfetta, che avrebbe dominato cinquant'anni di storia dello
spettacolo, non solo sui palchi delle riviste, ma in radio e
in televisione. Con un paradosso tutto italiano – alla
Don Camillo e Peppone – metà del quartetto era
composto da reazionari un po' baciapile – Tata Giacobetti
e Felice Chiusano – e l'altra metà – Lucia
Mannucci e Virgilio Savona, peraltro marito e moglie –
da sinistrorsi che si avvicinarono sempre più al comunismo.
Negli anni '70 Virgilio avrebbe avuto una carriera solista scrivendo
e cantando canzoni di denuncia sociale e ricercando e riproponendo
canzoni popolari.
I più grandi idoli della radio furono però le
sorelle del trio Lescano, la loro carriera fu folgorante (1936-43),
in pochi mesi arrivarono a vendere decine di migliaia di copie
in un'epoca in cui i fonografi erano ancora rari. Olandesi di
madre ebrea, figlie di un clown girovago, arrivarono in Italia
come ballerine, ma si convertirono in cantanti con le loro belle
voci armonizzate e il loro accento esotico: “Parlano d'amore
i tuli-tuli-tuli-tuli-pan”. Adorate dall'erede al trono
e ammirate dallo stesso Mussolini, che si adoperò personalmente
per fare in modo che ottenessero la cittadinanza italiana, videro
finire di colpo la loro carriera fra gli ingranaggi implacabili
delle leggi razziali. Emarginate dallo show business per qualche
anno, non riuscirono più a tornare alle scene italiane,
sprofondando in un cupo oblio, e morendo in miseria, lontane
e ignote.
I primi anni del dopoguerra segnano paradossalmente un balzo
indietro: torna in auge la melodia, il richiamo a un passato
neoclassicista, a una falsificazione retorica, e sono proprio
i ritmi sincopati, che più identificano gli anni '30
e l'accelerazione futurista, a destare sospetto: si cerca nella
canzonetta la rassicurazione e lo strazio iper-drammatico dell'opera
e dell'operetta. Sono gli anni del reuccio Claudio Villa e della
regina Nilla Pizzi, con le loro voci impostate e la prosopopea
lirica.
Ma il ritmo e l'armonia – confinati più ancora
che all'epoca fascista, nei teatrini dell'avanspettacolo, fuori
da radio e televisione – vogliono erompere di nuovo, e
lo fanno presto attraverso due eccellenti ambasciatori: un raffinato
fisarmonicista che sull'orlo dei quarant'anni è diventato
il miglior compositore/arrangiatore italiano, Gorni Kramer,
e il suo pupillo/alleato di dieci anni più giovane, il
pianista fantasista e intrattenitore Lelio Luttazzi. Fra gli
interpreti con cui lavorano la loro voce prediletta è
quella dell'impeccabile Jula de Palma, forse l'unica cantante
di livello internazionale dell'epoca, perfettamente in grado
di cantare in italiano, inglese e francese con dizione rotonda
e intonazione assoluta. Ma Jula de Palma – purtroppo per
lei – non è un'astratta figura matronale, una cariatide
in bilico fra l'edera, i papaveri e le papere, Jula è
una splendida donna che trasmette una grande sensualità,
e questo per la nascente televisione democristiana è
poco meno che un crimine, tanto che, stanca di combattere per
affermare la propria eccellenza, finì per ritirarsi ancor
giovane dalle scene.
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Jula De Palma |
La novità
Intanto anche nella canzone italiana sta accadendo qualcosa
di veramente nuovo, non solo a livello compositivo, poetico
e d'interpretazione, ma coinvolgendo allo stesso tempo questi
tre livelli in un solo inscindibile momento, che li moltiplica
fra loro: questo processo lo chiamerei “canzone d'arte”.
Quanto più è connotato dalla forte personalità
di uno stesso artista che si occupa di questi distinti momenti
– un cantante-poeta o un cantante-musicista o entrambi
– tanto più si identifica nella figura che di lì
a poco – all'inizio degli anni '60 – verrà
battezzata col lemma “cantautore”. Ecco, mi sono
azzardato nel ginepraio linguistico della definizione... ne
esco subito e torno alla storia.
La novità assoluta sta nelle tre complesse personalità
artistiche che dominano quell'ultimo squarcio degli anni '50.
Renato Carosone è uno splendido pianista e autore di
motivi orecchiabili, che ha trasfuso una nuova linfa in una
tradizione melodica e poetica nobile come quella napoletana.
Fred Buscaglione, torinese, violinista jazz sulla scorta di
Stephan Grappelli e di Joe Venuti, ha creato un mondo musicale
e poetico ricco di sfumature, riscrivendo una sorta di epopea
gangsteristica all'italiana. Questi due artisti nel '58 sono
entrambi all'apice del successo, nel cuore del pubblico più
giovane, quando un semisconosciuto cantante-chitarrista pugliese,
appena noto per delle nenie in dialetto che canta con voce piacevolmente
gutturale, riversa sulla retroguardia dell'ottavo Festival di
Sanremo la sua incontenibile vitalità, spalancando le
braccia e urlando “Volare... Oh... Oh...”.
Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com
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