TTIP
Questo trattato non s'ha da fare
di Carlotta Pedrazzini
Volevano presentarlo come un normale accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti. Poi si è scoperto che il TTIP...
Per alcuni giorni, la scorsa primavera, un argomento poco considerato dai media – almeno in Italia – è riuscito a conquistare le prime pagine dei quotidiani. Stiamo parlando del Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti tra UE e USA (TTIP), uno dei patti commerciali più imponenti della storia. Ad avergli permesso una momentanea ribalta è stata la pubblicazione furtiva di alcuni documenti – fino a quel momento inaccessibili e secretati – da parte di Greenpeace Olanda.
La fuga di notizie riguardanti il contenuto del trattato è stata incassata senza grandi clamori dai vertici dell'UE. All'indomani della loro pubblicazione, il commissario europeo per il commercio Cecilia Malström ha affermato che l'allarmismo suscitato da quelle carte era spropositato e infondato. “A storm in a tea cup”, una tempesta in un bicchier d'acqua. Così l'ha definita.
In effetti, la documentazione trafugata non ha aggiunto niente di nuovo a quanto sostenuto da chi, a partire dal 2013, ossia da quando sono ufficialmente iniziati i negoziati, si batte per fermare il trattato denunciandone le storture. Di certo però ha contribuito a cementare quelle che fino a quel momento erano – seppur ben fondate – analisi da verificare previa lettura della bozza dell'accordo. Ora che questa c'è, anche se parziale (i capitoli trafugati sono 13 su 24), la verifica della loro fondatezza può finalmente iniziare.
Gli effetti negativi dell'approvazione del Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP), ipotizzati anche da economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman, si confermano dopo la lettura delle 248 pagine trafugate. I pericoli per ambiente, salute e lavoro, già ipotizzati restano intatti. Ne avevamo già parlato su queste pagine, esattamente un anno fa (“A” 400, L'eterno ritorno del neoliberismo).
Carta canta
L'obiettivo del trattato è quello di abbattere dazi e, soprattutto, barriere non tariffarie indicate come di intralcio al libero commercio tra le due sponde dell'Atlantico. Significa che, oltre ad un annullamento delle già basse barriere tariffarie, ci sarà anche un intervento per armonizzare norme e regolamentazioni, molto diverse tra USA e UE, in materia di tutela dell'ambiente, produzione agroalimentare e diritti dei lavoratori.
Dalla questione della tracciabilità degli alimenti e dell'etichettatura, all'utilizzo di determinate sostanze chimiche, fino alle tutele dei lavoratori, la ricerca dell'armonizzazione tra differenti standard (notoriamente più elevati in Europa rispetto agli Stati Uniti in ambito di ambiente, salute e lavoro) genererà una corsa al ribasso che lascerà per strada molte delle conquiste raggiunte dai cittadini europei. Per quanto riguarda la tutela dell'ambiente e della salute, sarà il principio di precauzione ad essere messo in questione. Proposto negli anni Settanta dai movimenti ecologisti e ambientalisti – e applicato principalmente negli ambiti di sicurezza alimentare e ambientale – prevede che in caso non sia possibile escludere scientificamente la pericolosità di un prodotto, questo non possa stare sul mercato. Divenuto uno dei capisaldi europei della tutela della salute, non se ne trova traccia all'interno delle bozze del trattato rese note da Greenpeace. Nonostante i redattori europei e statunitensi abbiano smentito la sua scomparsa, questa “dimenticanza” nei confronti del principio di precauzione è stata considerata indicativa proprio di quella spirale discendente che il TTIP è accusato di innescare. È stata notata anche la mancanza di riferimenti alle decisioni prese in materia di clima e cambiamento climatico durante Cop 21, a dispetto dei “grandi sforzi” che l'UE ha sempre dichiarato di fare (e voler compiere in futuro) per scongiurare il cambiamento climatico.
Non saranno solo l'ambiente e la salute a pagare a caro prezzo questa spinta armonizzatrice. Anche il diritto del lavoro ne risentirà. Sappiamo che gli USA non hanno riconosciuto tutti gli otto principi essenziali del lavoro sanciti dall'Organizzazione mondiale dei lavoratori; uno di questi principi riguarda il diritto alla contrattazione collettiva. Analizzando le ultime riforme del lavoro intraprese dai paesi europei, notiamo una traiettoria di convergenza tra il sistema di diritto statunitense e quello di alcuni paesi europei dopo le recenti riforme, come l'inserimento proprio degli accordi aziendali in deroga ai contratti nazionali. Una strana coincidenza se si considera che i proclami in favore dell'accordo escludono un livellamento verso il basso degli standard europei in materia di lavoro. L'inserimento della possibilità di stipulare accordi aziendali in deroga ai contratti nazionali è un passo indietro per il diritto del lavoro, ma un avanzamento proprio in direzione di quell'armonizzazione tanto auspicata dai fautori del TTIP. La corsa al ribasso, dunque, sembra essere già iniziata.
Esiti “incerti”
Lo scorso aprile lo studio commissionato dal Parlamento europeo dal titolo TTIP and Jobs è stato pubblicato; l'obiettivo della ricerca era di prevedere quali fossero le conseguenze del trattato sul mercato del lavoro europeo. “Il TTIP potrebbe portare ad una sostanziale ricollocazione dei lavoratori”, si legge, “comunque gli effetti generali sull'occupazione sono incerti”. Quel che è certo, invece, secondo il report è che l'Italia sarà seconda solo alla Germania per numero di lavoratori da ricollocare (che tradotto significa disoccupati in cerca di un nuovo lavoro); in 600.000, secondo il rapporto, dovranno trovare una nuova occupazione. Una cifra enorme, soprattutto se analizzata in un contesto - come quello italiano - di austerità e di costanti e ingenti tagli ai servizi sociali. Nessun ammortizzatore potrà attutire quella che sembra a tutti gli effetti una caduta rovinosa. Per questo il documento fa riferimento al Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG), al quale gli stati dovrebbero fare richiesta per ricevere contributi finanziari al fine di attivare percorsi di riqualificazione e reinserimento nel mercato del lavoro per quei lavoratori che saranno colpiti dalle conseguenze negative legate al Trattato. (Si noti comunque che il FEG, negli ultimi anni, ha ridotto considerevolmente la propria disponibilità di risorse, passando da 500 milioni di euro l'anno a 150 milioni. Il suo potenziale di aiuto nei confronti di un numero ingente di lavoratori europei senza lavoro potrebbe quindi risultare molto limitato).
Proprio in seguito alla pubblicazione di TTIP and Jobs vale la pena ricordare quali proclami erano stati fatti nel 2013, nel presentare il trattato ai cittadini europei. Al 39esimo summit G8, David Cameron, primo ministro britannico, aveva preannunciato 2 milioni di posti di lavoro in più. Un numero basato su non si sa quali fonti, che non teneva conto degli effetti tutt'altro che positivi dei numerosi trattati di libero scambio siglati nella storia e che, tre anni dopo, è stato sconfessato da stime di segno opposto.
Se gli esiti sono, anche a detta degli esperti, quantomeno “incerti”, se mancano i presupposti per la buona riuscita del trattato (ovvero la presenza di una domanda di beni e servizi crescente e la volontà di non comprimere i salari), se il contesto socio-economico viene identificato come incapace di far fronte ad uno “shock” come quello del ricollocamento di centinaia di migliaia di lavoratori, se l'aumento di posti di lavoro non è certificato e quello del PIL è stimato dello 0,1%, una domanda sorge spontanea: per quale motivo firmare il trattato? Ha ragione chi afferma che a guadagnare saranno solo le grandi industrie e le multinazionali, quegli stakeholder che hanno preso parte ai negoziati?
Duplice critica
La natura delle critiche rivolte al TTIP non riguarda i soli contenuti, ma anche le modalità con le quali l'intera questione è stata affrontata e gestita. Non servivano i documenti trafugati da Greenpeace per capire quanto potesse essere potenzialmente pericoloso un trattato dalle proporzioni bibliche redatto di nascosto dalla società civile. Sappiamo infatti che nessun movimento sociale e pochissimi rappresentanti sindacali sono stati ammessi ai round negoziali. Solo questo sarebbe potuto bastare per rendere il tutto quantomeno sospetto.
Nell'ultimo periodo, le manifestazioni e le prese di posizione contro il trattato sono aumentate e si sono diffuse, con diversità di partecipazione e forza, in tutta l'Europa. Nonostante questo, le richieste dei cittadini europei non sono riuscite ad arrivare sino ai vertici delle gerarchie europee. Istituzioni sorde alle richieste dei cittadini e cieche rispetto alle loro mobilitazioni è quanto di meglio le nostre democrazie hanno partorito in decenni di evoluzione socio-politica.
Carlotta Pedrazzini
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