mondo arabo
Maledette primavere?
con un'intervista a Salvo Vaccaro e un testo di Hamid Zanaz
Sono passati alcuni anni da quella stagione, per alcuni entusiasmante per altri scontatamente destinata alla sconfitta, che va sotto il nome di “primavera araba”. Dal Marocco all'Egitto la situazione è assai difficile e a fatica si ritrovano tracce delle manifestazioni, dell'aria di libertà e laicismo che pur in quei mesi si respirava in giro. Cerchiamo di capirne il perché. Abbiamo posto alcune domande a Salvo Vaccaro, anarchico, redattore di Libertaria, docente universitario, autore del volume L'onda araba (Mimesis, 2012). E poi ad Hamid Zanaz, saggista algerino (con Elèuthera ha pubblicato, nel 2013, Sfida laica all'Islam), abbiamo chiesto di descrivere sinteticamente il panorama socio-politico di alcuni dei paesi protagonisti delle “primavere arabe”, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia. Con un occhio attento al ruolo delle donne.
Tradizione laica e profondità delle rivolte
intervista della redazione a Salvo Vaccaro
Sull'esito delle rivolte del 2010-2011 ha pesato molto anche l'interruzione della memoria rivoluzionaria. In paesi sottoposti da decenni a dominazioni oppressive e a dittatori civili o militari.
La questione delle “primavere arabe” è molto complessa. Per capirne il significato e le conseguenze avute nel mondo arabo, ne parliamo con un docente universitario, anarchico, autore di un libro in materia dal titolo L'onda araba (Mimesis, 2012).
Le rivolte, denominate dai media “primavere arabe”, che hanno avuto luogo in diversi paesi tra cui Tunisia, Marocco, Egitto, Yemen tra il 2010 e il 2011 sono terminate con controrivoluzioni che hanno dato vita a regimi autoritari di diverso tipo. Qual è la ragione, se anche tu la vedi così, del sostanziale fallimento delle sollevazioni?
Ovviamente occorre stare attenti a non generalizzare, ogni situazione è complicata e diversa, l'iter non è stato lineare da nessuna parte e le occasioni contingenti sono state singolari, anche se indubbiamente la spinta acceleratrice dell'avvio in Tunisia è stata determinante per la diffusione delle rivolte dappertutto nel mondo arabo, così come precedenti rivolte abortite o represse (ad esempio, fuori dal mondo arabo, in Iran qualche anno prima) hanno apportato insegnamenti e pratiche di collegamento, informazione e azione. Detto ciò, in stringata sintesi, direi che un fattore determinante è stata la concentrazione demografica degli strati giovanili – che in quei paesi contano fino e talvolta oltre il 50% dell'intera popolazione – soprattutto nei centri urbani, dove la rivoluzione ha avuto modo di manifestarsi appieno grazie alla “geografia” stessa della città in rivolta; ciò tuttavia ha comportato un'insufficiente diffusione della rivoluzione nelle periferie rurali di quei paesi, dove spesso si concentrano strati di popolazione più anziana, meno propensa alla “ginnastica” rivoluzionaria, più conservatrice insomma. Ciò implica, a mio avviso, una seconda ragione di fondo per il regresso delle rivolte arabe, ossia l'interruzione della memoria rivoluzionaria in paesi sottoposti da decenni a dominazioni oppressive di dittatori civili o militari, e anche laddove i governi locali si approssimano a standard di democrazia (pur in assenza o parzialità di stato di diritto), si sconta altresì la nemesi post-coloniale, con élite al governo che hanno studiato le arti del potere nelle accademie e nelle università delle nazioni imperiali che le hanno assoggettate per secoli, riproducendone, una volta conseguita l'indipendenza, modelli e pratiche.
Secondo l'analisi di alcuni ricercatori, tra cui il sociologo Mohammed Bamyeh, le rivoluzioni che si sono avute nei paesi arabi non erano prevedibili; non c'erano state avvisaglie o segnali che il popolo fosse in procinto di sollevarsi. Questo vuole probabilmente dire che le rivolte non sono scaturite da una generale presa di coscienza o dalla creazione di un movimento ben articolato, con una comunanza di obiettivi. Quanto tutto questo ha influito sul risultato fallimentare delle “primavere arabe”?
Forse l'imprevedibilità sta tutta nelle nostre menti, situate lontane anni luce da quelle realtà che fatichiamo a comprendere. E comunque, quando si ha a che fare con corpi e menti vivi, non esiste alcuna scienza delle predizioni dei fatti. Ogni rivolta nasce da qualche seme radicato in un recente passato, ogni movimento di ribellione trova linfa in pratiche ribelli clandestine, sotto traccia, invisibili alle forze di polizia e ai servizi segreti, per emergere ed esplodere senza freni tutto d'un botto. Indubbiamente, se intendiamo leggere il fallimento delle rivolte a partire dall'assenza di un movimento strutturato di opposizione rivoluzionaria, dobbiamo avere ben chiaro che tale ottica di lettura appartiene alla nostra storia, alla nostra esperienza, ai nostri ideali progettuali. Non saprei quanto compatibili con le condizioni oppressive di regimi polizieschi, militari, dittatoriali, in società ancora stratificate per segmenti clanici, tribali (eccetto forse nelle metropoli) e legate in buona parte da sentimenti religiosi sui quali si consolida una resistenza politica e culturale al potere – ma anche di segno economico – che per noi, laici secolarizzati, risulta difficile capire.
Tornando agli anni 2010-2011, quali sono state le connotazioni libertarie e autogestionarie delle sollevazioni verificatesi nei paesi arabi? Nello specifico, ci sono stati gruppi che si sono richiamati direttamente all'anarchismo?
Domanda difficile e impegnativa! In Palestina (vedasi il recente annuario di Libertaria), in Egitto, in Tunisia, abbiamo visto bandiere con le A cerchiate sfilare nei cortei, segno di una presenza accettata, non saprei dire quanto profonda, ma senza dubbio legata da una certa condivisione culturale protrattasi negli anni, anche grazie a qualche contatto straniero. Analizzando i documenti delle rivolte arabe, emerge il dato indiscusso dell'insofferenza verso la corruzione del potere, in senso lato, quindi non solo moralistico, e la correlata domanda forte di affermazione di principi e valori democratici, soprattutto di pratiche democratiche in cui la rappresentanza non sia svuotata di senso (come ormai largamente nel nostro mondo occidentale), ma anzi sia vista come propedeutica alla partecipazione dei cittadini. Certo, è difficile aspettarci una cultura libertaria autoctona e persino analoga alla nostra, specie in paesi che non offrono strutture e istituzioni di acculturazione primaria e secondaria, mentre si riserva la cosiddetta alta formazione (universitaria) alle sole élite istituzionalizzate, ricche e affluenti del paese (come ho potuto constatare personalmente rispetto al caso libanese). D'altro canto, però, sembrerebbe che le metodologie di rivolta, di preparazione alla rivolta, siano orizzontali e partecipate, nei limiti sopra ricordati, perché solo così può nascere una rivolta non etero-diretta da partiti o formazioni clericali, come lo sono state quelle rivolte.
La mancanza di una tradizione laica, intenzionata a mettere fine all'influenza asfissiante della religione, può aver compromesso sin dall'inizio l'esito delle rivolte? Come si spiega l'acuirsi dell'integralismo islamico e la presa di potere dell'ISIS dopo le “primavere arabe”?
Ma proprio quei paesi arabi dove sono scoppiate le rivolte sono i paesi in cui la tradizione laica è stata la più presente nei decenni scorsi, e se oggi risulta appannata dall'affermazione dell'integralismo religioso e dal fanatismo fondamentalista (che sono due cose leggermente differenti) è proprio grazie all'immenso credito politico ed economico di cui leader arabi corrotti e dittatoriali hanno goduto con le alleanze stipulate con le democrazie occidentali, cieche di fronte alle istanze della popolazione, non solo di natura economica, e cieche di fronte ai metodi repressivi dei governi caduti sotto l'incalzare delle rivolte. Le ribellioni hanno cercato di disfarsi dell'integralismo religioso (Tunisia, Egitto), ma troppo tardi quando tutto il mondo ha preteso consultazioni elettorali in cui le masse più diseredate hanno dato sostanzialmente consenso a quelle formazioni religiose e politiche che hanno utilizzato i fondi sovrani sauditi per finanziare una sorta di “welfare della povertà” (il caso di Hamas in Egitto e a Gaza è esemplare, ancor più presso i palestinesi che rappresentavano nei decenni passati, anche nell'immaginario europeo, la punta di diamante del laicismo rivoluzionario in Medio oriente). Eviterei di parlare di un ruolo dell'ISIS in quegli anni nel mondo arabo, esso nasce sulle ceneri dell'Iraq di Saddam Hussein, suoi sono i quadri militari e politici che costituiscono l'ossatura delle pratiche micidiali e assassine dell'ISIS (del resto, che facevano gli sgherri di Saddam se non gasare i curdi e massacrare gli sciiti nel sud dell'Iraq?). Lo stallo della militarizzazione siriana della rivolta ne ha favorito l'installazione in ampie aree della Siria, così come la disgregazione libica all'indomani dell'attacco Nato diretto all'eliminazione del dittatore Gheddafi ha favorito, non sappiamo quanto “voluto” dagli stessi strateghi, la penetrazione in Libia. L'ISIS ha sostituito Al Qaeda nell'immaginario fondamentalista musulmano, ma ha adottato e adotta strategie e tattiche totalmente differenti dalle politiche di Bin Laden & soci, accreditandosi come una sorta di stato-in-formazione, con controllo territoriale, pretesa fiscale, ferreo ordine pubblico, minima redistribuzione delle ricchezze saccheggiate, propaganda fidelizzata ad alto tasso digitale.
In questi anni c'è stato anche chi ha sostenuto che le rivolte siano state “teleguidate” per generare instabilità in Medio Oriente. Cosa pensi di queste concezioni, sono solo dietrologie?
Per carità, tutto è possibile, pure che esista una Spectre nel Pentagono americano o nell'Esagono francese! Personalmente, non sono portato alle dietrologie “complottarde”, pur in presenza di finanziamenti non certo disinteressati di gruppi economici e formazioni politico-culturali occidentali verso organismi arabi dediti, ad esempio, alla comunicazione tramite social, il che è stata utile per socializzare tecniche di ribellione prima e poi, nelle fasi delle rivolte, per comunicare meglio senza farsi intercettare facilmente. Ma da qui ad una etero-direzione mi sembra eccessivo e ingrato verso chi è sceso in piazza rischiando la vita e il proprio futuro. Per l'instabilità medio-orientale bastano e avanzano le politiche occidentali, l'ingerenza delle potenze (non da ultimo la Russia), l'endemico conflitto israelo-palestinese, l'asimmetria degli scambi economici e commerciali sud-nord, la cecità europea degli anni passati sull'area mediterranea, il suicidio politico delle politiche di accoglienza a fronte di qualche centinaio di migliaio di migranti. In una prospettiva più ampia, mantenere calda la situazione nel medio oriente arabo, ma non solo perché la questione dell'Iran non è araba, fa comodo ad una strategia globale del divide et impera di romana memoria, al fine di precludere una ipotetica autonomia europea dalla sfera di influenza americana, a zavorrare economie dei costi di guerre permanenti e conflitti sociali (Russia ad esempio), a ridimensionare le fortune finanziarie di potentati privati o di fondi sovrani arabi data la fibrillazione delle borse globali ad ogni segnale di guerra, a pilotare il prezzo del componente energetico ancora oggi prioritario per la crescita economica mondiale. Sono certo che per ciascuno di questi fattori, le potenze che contano studiano e ipotizzano scenari e simulano tattiche immediate e strategie di medio periodo, sulla pelle delle popolazioni ridotte a comparse sacrificabili nel risiko del potere mondiale.
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Il Cairo (Egitto) - Un raduno in piazza Tahrir |
Un lungo e freddo inverno
di Hamid Zanaz
Tra il 2010 e il 2011 i paesi del Maghreb sono stati protagonisti di diverse rivolte. Per capire il significato delle sollevazioni e il loro lascito, un saggista algerino propone un'analisi socio-storica di quei paesi. Uno sguardo al fondamentalismo religioso, ai regimi autoritari e al ruolo della donna in Marocco, Algeria, Tunisia e Libia.
La regione del Maghreb designa tradizionalmente tre paesi dell'Africa del Nord: Marocco, Algeria e Tunisia; in seguito alla fondazione dell'Unione del Maghreb (UMA) nel 1989, a questi tre paesi – che rappresentano l'area centrale – si sono aggiunti anche la Mauritania e la Libia.
Il Maghreb è al tempo stesso arabo (a partire dalla conquista del VII secolo), berbero (la popolazione tradizionale a partire dalla preistoria), musulmano (con la conquista, gli arabi hanno portato la loro religione, l'Islam), africano e mediterraneo. [...] In questo vasto insieme che si estende su oltre sei milioni di chilometri quadrati, con una popolazione di circa cento milioni di abitanti e un patrimonio comune, ognuno dei paesi nutre delle aspettative nei confronti degli altri mentre il commercio intra-regionale (al di fuori del petrolio) rimane insignificante. Gli scambi commerciali inter-magrebini rappresentano meno del 2% di quelli verso l'estero, uno dei tassi regionali più bassi del mondo. [...]
Maghreb: unitamente diversi
Il Marocco, l'Algeria, la Tunisia e la Libia presentano alcune caratteristiche comuni che giustificano un approccio complessivo di analisi, la più rilevante di queste è il predominio di un potere forte. Le traiettorie socio-storiche di questi paesi si sono fortemente divaricate dopo l'indipendenza e l'instaurazione di sistemi politici nazionali ed è difficile conferire una coerenza all'UMA (Unione del Maghreb Arabo).
Sul piano storico e socio-culturale, il Marocco, l'Algeria, la Tunisia e la Libia sono molto vicini. Abitati anticamente da popoli berberi (ma anche Kabili e Beduini), hanno conosciuto un'ondata di islamizzazione e arabizzazione nel VII secolo. I popoli del Maghreb presentano un'uniformità abbastanza forte sul piano culturale, religioso e per quanto riguarda usi e costumi. Tale uniformità si spiega in parte per il contesto geografico che condiziona il modo di vita delle popolazioni.
A partire dal XIX secolo, le traiettorie storiche di questi paesi sono state abbastanza simili: prima la colonizzazione da parte dei paesi occidentali, poi la lotta contro l'occupante che ha coagulato il sentimento di un'identità nazionale, di un destino comune e la volontà di vivere insieme. In ultimo, questi paesi affrontano ciascuno a modo suo le stesse delicate e cruciali questioni della democratizzazione e dello sviluppo.
Per capire la situazione di ogni paese è necessario tornare al periodo dell'indipendenza e alla nascita degli Stati moderni. Lo Stato si consolida in maniera diversa in Tunisia, in Libia, in Marocco e in Algeria. In Libia, indipendente dal 1951, il potere è affidato a re Idris I, che sceglie la via del «pluralismo sociale e non politico». Nel 1969 il colonnello Gheddafi mette in atto un colpo di Stato contro il re e cambia radicalmente la politica del paese. Nel 1977 proclama quindi la «Jamahiriya araba libica», popolare e socialista.
Tunisia e Marocco conquistano l'indipendenza nel 1956; s'iscrivono nella logica delle società «liberali». Ma mentre il Marocco conserva la monarchia e consacra il multipartitismo nella Costituzione, la Tunisia opta per una via repubblicana imponendo però di fatto un partito unico: il Partito Socialista Desturiano (PSD). Il Bey Lemine viene deposto dai vertici dello Stato nel 1957 e sostituito da Habib Bourguiba.
L'Algeria conquista l'indipendenza più tardi, nel 1962, dopo una guerra che provoca decine di migliaia di vittime. Sceglie l'instaurazione di un partito unico, il socialismo di Stato e un'economia pianificata fino alla fine degli anni Ottanta.
L'avaria economico-sociale
Nonostante le promesse generate dai processi di indipendenza dal colonialismo, il Maghreb affronta una crisi economica strutturale da parecchi decenni. L'impoverimento si aggrava, anche per la classe media dei funzionari. Questa crisi economica discredita la modernità e il suo corollario di concetti e valori agli occhi di milioni di magrebini. Nel giro di una generazione (1975-1995) il clima di relativo liberalismo e trasformazione sociale risulta compromesso.
Nonostante questa crisi, le classi agiate continuano ad accedere a una società dei consumi di tipo occidentale. Queste classi privilegiate sono diverse a seconda dei paesi: ufficiali e importatori in Algeria; alti funzionari del partito di Stato e industriali vicini al potere in Tunisia; ufficiali di alto livello, banchieri, industriali e medici liberali in Marocco. [...]
Nascita dell'islam politico
In un primo tempo l'islamismo magrebino ha mobilitato minoranze di attivisti e gruppi studenteschi pronti a opporsi a quelli marxisti, senza una particolare strategia politica. Ma gli sconvolgimenti del mondo arabo, che si tratti delle due guerre del Golfo, dell'embargo contro l'Irak o delle Intifada in Palestina, hanno conferito a questo movimento una maggiore ampiezza. L'islamismo è diventato così un freno importantissimo alle diverse transizioni democratiche nel Maghreb.
I giovani si mostrano particolarmente sensibili ai discorsi degli islamisti. C'è infatti una rottura rispetto alle generazioni precedenti. I giovani hanno perso la memoria delle lotte politiche dei loro genitori. A questo si aggiunge la frustrazione per l'impossibilità di accedere al mondo «moderno». Gran parte della società possiede una televisione, spesso equipaggiata di antenna parabolica che consente la ricezione di immagini provenienti da «fuori». Questo universo ha un effetto destabilizzante sui giovani magrebini perché, nei suoi tratti essenziali, questo «altro» mondo non è accessibile per loro e diventa sorgente di frustrazione.
La crisi economica contribuisce a mettere in atto una “contro-riforma”. La tradizione culturale identitaria torna in primo piano come reazione alla paura dell'ignoto e a evoluzioni percepite talvolta come troppo rapide. I leader islamisti se ne fanno cantori. La classe media colta, colpita dalla pauperizzazione degli anni Ottanta, si rivela particolarmente sensibile a questo movimento, come le migliaia di studenti diplomati senza impiego che costituiscono un'intellighenzia di «seconda fila», dal momento che non ha accesso alle funzioni del potere.
Algeria
Gli islamisti fanno la loro comparsa in quanto forza organizzata nel 1984, in occasione della sepoltura a Kouba (periferia algerina) di un rispettato islamista, Sheikh Soltani.
La riforma della costituzione (1988), l'instaurazione del pluralismo (1989) e la nascita di una stampa plurale (1990) creano nel giro di pochi mesi condizioni politiche radicalmente nuove. In quegli stessi anni nasce il FIS, Fronte Islamico di Salvezza. Il lavoro di beneficenza e l'educazione popolare realizzate dagli islamici a partire dal 1975, pagano. Alle elezioni municipali del 1990 il FIS ottiene la maggioranza assoluta, provocando la costernazione del vecchio FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale, l'ex partito unico. Il potere militare interrompe il processo elettorale. Con oltre il 40% dei suffragi espressi, il FIS sta per ottenere la maggioranza parlamentare. Comincia allora una guerra civile che provoca oltre centocinquantamila morti. Qualche anno più tardi, nel 2000, l'Armata Islamica della Salvezza (AIS), braccio armato del FIS, si scioglie. Dal 1999 a oggi tutte le elezioni, spesso truccate, danno sempre come vincitori il FLN e il RND (Riunione Nazionale Democratica, un partito creato dal nulla dal potere in carica). Bouteflika è presidente dal 1999 nonostante l'età avanzata e i gravi problemi di salute.
Nel 2013, a 79 anni, Bouteflika è stato colpito da un ictus che ha ridotto le sue capacità di locomozione e locuzione. Da allora si sposta in sedia a rotelle e lavora nella sua residenza a Zéralda, a ovest di Algeri. [...] Le voci di un deterioramento dello stato di salute di Bouteflika sono ricorrenti e i dirigenti dell'opposizione non esitano a evocare un «vuoto di potere» nel paese, a loro parere «accaparrato» da persone vicine al presidente, in particolare il fratello e il consigliere particolare del presidente, Saïd. [...] In quale altro paese al mondo potrebbe accadere che un presidente «trionfalmente» rieletto per un quarto mandato con il 81,53 % dei voti (nel 2014) non compaia mai in pubblico, non prenda mai posizione, non faccia mai sentire la propria voce? Accade in Algeria, dove nella prolungata «assenza» di Abdelaziz Bouteflika, vecchio e malato, il potere viene esercitato in maniera opaca, non si sa bene da chi. Molto probabilmente dal fratello Saïd, consigliere della presidenza, dai generali che da dopo l'indipendenza hanno sempre esercitato una grande influenza sul destino del paese e da una ristretta cerchia di fortunati imprenditori, che dominano il mondo degli affari. [...] Fino a oggi la popolazione si divideva tra chi accettava con rassegnazione il vecchio capo di settantanove anni e chi lo rispettava, e i movimenti di protesta erano più o meno circoscritti. Ma il dato sociale sta cambiando.
Tunisia
Nel 1970, Rached Ghannouchi e Abdelfattah Mourou riuniscono i primi membri del Movimento islamico tunisino (MTI); nel 1973, a Sousse, radunano in pubblico un centinaio di persone. La repressione colpisce duramente; a quel punto il partito entra in clandestinità. Nel 1979, dopo la rivoluzione iraniana, il Movimento di tendenza islamica (Ittijah islami) tiene il suo primo congresso, si insedia nel paese e coopera con altri oppositori. Nel 1987 un migliaio di militanti vengono arrestati per appartenenza a un'organizzazione illegale. Arriva al potere Zine El-Abidine Ben Ali; apre un dialogo con i prigionieri e li libera. Ma a partire dal 1991-1992 la repressione torna a colpire; durerà fino al 2009-2010. Il MTI, diventato Ennahda, non gioca alcun ruolo nella caduta di Ben Ali, avvenuta nel gennaio 2011; nello stesso anno, in ottobre, vince le elezioni e forma un governo di coalizione in cui è il membro dominante. La cattiva gestione dello Stato, dell'economia e dell'ordine pubblico suscita opposizioni sempre più forti che l'obbligano a ritirarsi, lasciando il potere nelle mani di un gabinetto di tecnocrati. Nonostante le congratulazioni della comunità internazionali e il premio Nobel per la pace ottenuto per la loro transizione democratica pacifica, i tunisini sono in pieno disincanto.
Difficoltà economiche, terrorismo, confusione politica e attacchi alle libertà sono state le ragione della «rivoluzione dei gelsomini» del 2010-2011. «Cinque anni dopo la rivoluzione» scriveva recentemente il popolare quotidiano tunisino Ach-Chourouq «il bilancio è deplorevole e nettamente al disotto delle attese del popolo tunisino. A eccezione della libertà d'espressione che spesso si è trasformata in “libertà d'attacco alla sicurezza nazionale”».
Dopo le primavere arabe, dopo la «rivoluzione dei gelsomini», la Tunisia deve affrontare molte sfide:
– la minaccia terroristica (tre attentati importanti nel 2015);
– il fatto che il paese sia fra i principali fornitori al mondo di jihadististi;
– la difficile situazione economica (con il 15,3% di disoccupazione lo scorso trimestre, il paese è entrato in recessione nel 2015);
– la stagnazione dei salari e l'aumento dei prezzi.
Purtroppo alcuni tunisini non vedono che terrorismo e crisi economica come risultato della loro rivoluzione.
Marocco
In Marocco il re detiene il monopolio del potere religioso, in virtù del quale ha negato a lungo ogni rappresentanza agli islamisti. Ma la manifestazione di Rabat nel 1991 contro la guerra del Golfo ha mostrato la potenza dell'islamismo nel paese. Nel 2002 l'unico partito islamico ufficiale del Marocco, il Partito della giustizia e dello Sviluppo (PJD), ottiene il terzo posto in Parlamento in seguito alle elezioni legislative, diventando così la prima forza d'opposizione parlamentare marocchina.
Dal 2011 gli islamisti di questo stesso partito, il PJD, governano il Marocco. Il capo del partito, il cinquantanovenne Abdelilah Benkirane, in gioventù è stato membro dello Chabiba islamiyya, il primo gruppetto islamista comparso in Marocco all'inizio degli anni Settanta. Movimento radicale, violento e clandestino, nel 1975 lo Chabiba islamiyya è stato coinvolto nell'assassinio di Omar Benjelloun, uno dei leader della sinistra. Dopo il siluramento di Abdelkarim Moti, fondatore del movimento, nel 1982 Benkirane crea la Jamaa al-islamiyya in seguito a una dura autocritica nella quale ripudia il ricorso alla violenza e predica il rispetto dei buoni costumi e l'adempimento degli obblighi religiosi.
Dieci anni dopo, in vicinanza con il leader tunisino di Ennahda, Rached Ghannouchi, fonda il Partito del rinnovamento nazionale per lanciarsi nell'agone elettorale. Fallimento: il Palazzo lo rifiuta. Nel 1999, Benkirane e i suoi amici del Movimento dell'Unicità e della Riforma (MUR) confluiscono nel moribondo Movimento Popolare Costituzionale e Democratico (MPCD) del dottor Abdelkrim Al-Khatib, un cacicco monarchico fedele alla dinastia alawita. È il prezzo da pagare per essere autorizzato a concorrere. Si tratta del primo tentativo alle elezioni legislative del 2007 che è volontariamente limitato, il MPCD presenta solo cinquantacinque candidati e non è presente in trentasei circoscrizioni elettorali. Arriva in seconda posizione.
Il 20 febbraio 2011 grandi manifestazioni scoppiano in diverse grandi città al grido «Abbasso la dittatura». Dopo Tunisia ed Egitto, la Primavera araba approda nel regno. Benkirane e i suoi sono assenti dalle strade, dove invece si distingue una nuova organizzazione, il «Movimento del 20 febbraio», che raduna soprattutto giovani ostili ai partiti «ufficiali» come agli islamisti più radicali, che dal 1980 in poi si erano riuniti intorno a Al-Adl wal-Ihsane (Giustizia e spiritualità), fondato dallo sceicco Abdessalam Yassine. Alle elezioni legislative del novembre 2011 il PJD è il primo partito con 107 seggi, ma non ottiene la maggioranza assoluta. È un islamismo sotto controllo; il Marocco è governato dagli islamisti del Partito della giustizia e dello Sviluppo (PJD), ma solo il re ha una presa sull'aspetto religioso.
Nel settembre 2015 Francia e Marocco hanno firmato un accordo per consentire a decine di imam francesi di recarsi a Rabat per beneficiare di una formazione teologica destinata a combattere il radicalismo religioso nelle moschee francesi. Oltre alla formazione degli imam, il regno ha dispiegato tutta una panoplia «made in Marocco» per lottare contro la radicalizzazione, mentre millecinquecento marocchini combattono attualmente in Irak e in Siria.
Libia
15 febbraio 2011: estese manifestazioni si verificano a Bengasi,
represse con violenza.
20 ottobre 2011: linciaggio di Mu'ammar Gheddafi in seguito
all'intervento militare dell'ONU. Nello stesso giorno Sirte
passa in mano Consiglio nazionale di transizione.
9 giugno 2015: Daesh (il gruppo Stato Islamico, ISIS) annuncia
la conquista della città di Sirte, della quale controllava
già l'aeroporto. [...]
Oltraggiata dall'arresto di un militante per i diritti umani,
la popolazione di Bengasi (Libia) si solleva il 15 febbraio
2011. Mu'ammar Gheddafi, al potere dal 1969, promette di soffocare
la rivolta nel sangue e mantiene la parola. Spinta da Nicolas
Sarkozy, allora presidente francese, l'ONU accetta di patrocinare
un intervento aereo per proteggere i civili, che si conclude
con l'uccisione del colonnello Gheddafi.
Nel 2012 si tengono elezioni legislative. Ma questo paese, grande
tre volte la Francia e sei volte l'Italia, si frattura rapidamente
fra islamisti e partigiani della rivoluzioni, mentre le milizie
commettono violenze contro la popolazione civile. Nel giugno
2014 le due fazioni instaurano due governi rivali, uno islamista
a Tripoli, uno riconosciuto dagli occidentali a Tobruk.
Il verme jihadista è già nel frutto: riproducendo
lo scenario iracheno e siriano, Daesh (il gruppo Stato Islamico)
prospera nel caos generalizzato e installa campi di addestramento
presso Sirte, dove si impadronisce dei pozzi di petrolio. Dei
trentasette attentati suicidi perpetrati nel 2015 nel paese,
ventisette vengono attribuiti al gruppo Daesh (Stato Islamico).
La situazione rimane altamente imprevedibile e incerta [...].
Oggi lo scenario libico è spezzettato in una moltitudine
di poteri locali. Il disordine che è seguito alla caduta
di Gheddafi ha portato i libici a ripiegarsi «sulla loro
identità primaria, il villaggio, la tribù».
Nel 2014 si sono formate due grandi coalizioni: da una parte
le milizie islamiste, conservatrici, riunite sotto il nome di
Fadjr Libya (Alba della Libia). Sul fronte opposto, l'alleanza
Karama, milizia costituita da vecchi militari vicini a Gheddafi,
presieduta dal generale Haftar. Ma queste alleanze sono instabili
e scontri fra «alleati» sono frequenti; assistiamo
a una spirale autodistruttiva, quella della guerra di tutti
contro tutti.
In questo clima di confusione, l'organizzazione Stato islamico
Daesh si permette di pubblicare manifesti lungo le strade con
le caratteristiche obbligatorie degli abiti femminili. In un
manifesto per le strade di Sirte vengono elencati gli obblighi
riguardanti le tenute femminili; le caratteristiche del velo
sono le seguenti:
1. dev'essere spesso e non trasparente;
2. dev'essere brutto;
3. deve ricoprire il corpo intero;
4. non deve essere elegante;
5. non deve somigliare agli abiti di uomini o donne infedeli;
6. non deve essere attraente o attirare l'attenzione;
7. non deve essere profumato.
La condizione della donna nel Maghreb
Dopo l'indipendenza (1956 per Marocco e Tunisia, 1962 per l'Algeria), le classi dirigenti esprimono la volontà di prendere in considerazione le donne nello sviluppo delle società. Ma al di fuori della Tunisia, che riforma profondamente lo statuto della donna, gli altri due paesi riproducono il modello tradizionale di famiglia musulmana. Questo modello tradizionale si trova a essere progressivamente consolidato mediante le concessioni accordate dai dirigenti politici alle rivendicazioni degli islamisti.
La donna si trova così relegata a un ruolo di «guardiana della tradizione o della casa», che si cercherà di giustificare con presunte specificità culturali, come l'autenticità arabo-musulmana e una lettura maschile dell'Islam iscritta nella Costituzione.
In Algeria più che altrove, il ruolo della donna è stato fortemente legato alle evoluzioni politiche e sociali del paese. Il discorso tenuto a proposito della donna è molto lontano dalla realtà della loro condizione. Glorificate regolarmente come eroine della guerra d'indipendenza e della lotta contro il terrorismo, esse continuano a essere mantenute in una situazione d'inferiorità da un codice di famiglia che appare superato soprattutto perché la riforma dello stesso è regolarmente stata rimandata a causa della priorità accordata a questioni economiche, sociali, culturali e di pressioni d'altro genere.
La questione femminile è stata relegata in secondo piano anche durante il decennio nero (1992-1997) e le ultime revisioni del Codice di statuto personale rimangono timide. [...]
In Tunisia, i diritti accordati alle donne al momento dell'indipendenza del paese si integrano in una più ampia politica di sviluppo e modernizzazione del paese. Habib Bourguiba decise di «fare della questione femminile la chiave di volta per mettere in moto una nuova politica sociale, di cui la famiglia è il perno centrale». Abolizione della poligamia, del ripudio, del tutore matrimoniale, del diritto di costrizione e instaurazione del divorzio giudiziario, del libero consenso dei futuri sposi e dell'adozione; la promulgazione del Codice di statuto personale (CSP) nel 1956 costituisce un notevole passo in avanti. Secondo Bourguiba, l'idea era sottomettere il diritto di famiglia alla ragione moderna e proporre una lettura equilibrata e meno letterale del testo coranico. Notiamo però che entrando in contrasto con i conservatori, Bourguiba non riuscì a portare fino in fondo la sua riforma: manterrà la dote, accordandole uno statuto simbolico, e lo statuto del marito in quanto capofamiglia.
Nonostante questo, la riforma tunisina è un faro per i paesi arabi e musulmani. Sottolineiamo tuttavia che molti giuristi notano l'abisso che separa il legislatore e i suoi interpreti visto che, approfittando di ambiguità e contraddizioni, il giudice ha potuto reintrodurre il diritto musulmano. Da parte loro le femministe ritengono che il cambiamento effettuato dall'alto non sia riuscito a modificare le mentalità né a rendere le donne tunisine cittadine a tutti gli effetti. Avendo associato le femministe e la società civile alla sua volontà di riforma, il presidente Bourguiba ha tolto ogni motivazione alla lotta delle donne, per poi controllarla. Per quanto importanti, queste misure non sono mai state precedute da un dibattito, e questo fa affermare ad alcuni che si tratti «di un femminismo di Stato», in un femminismo strumentalizzato e di vetrina che piace all'Occidente.
Anche se il regno del Marocco inizialmente non fornisce risposte alle rivendicazioni delle femministe, la questione ricompare nel 1998 sotto forma di un «piano d'azione per l'integrazione delle donne nello sviluppo». Mettendo insieme oltre duecento misure relative al miglioramento delle condizioni di vita della donna marocchina (sanità, micro-credito, educazione, ecc.), questo piano era stato preparato da un collettivo di femministe con l'aiuto finanziario della Banca Mondiale. Proposto dal ministero dell'Infanzia e della Famiglia al governo d'alternanza di Abderrahmane Youssoufi, si scontra con l'opposizione di molti conservatori, compresi quelli estranei all'orientamento islamista. Temendo di vedere l'opposizione al progetto trasformarsi in opposizione alla monarchia, le autorità politiche insabbiano il progetto, mentre le associazioni femministe continuano a militare in suo favore. Dopo gli attentati del maggio 2003, gli islamisti, ampiamente discreditati, non erano più in grado di contestare la riforma. Giudicando il momento propizio, il re Mohamed VI annunciò il 10 ottobre 2003 gli undici punti della riforma della Moudawana, ognuno sostenuto da un versetto del Corano.
Secondo il nuovo Codice gli sposi hanno la responsabilità congiunta della famiglia; viene abbandonata la regola dell'obbedienza della moglie al marito; la donna non ha più bisogno della tutela per sposarsi; l'età del matrimonio viene fissata a diciotto anni sia per l'uomo sia per la donna; la poligamia è ancora possibile, ma limitata; il ripudio viene limitato dall'autorizzazione obbligatoria del giudice; la donna può chiedere il divorzio; l'affido dei figli può andare alla madre o al padre in caso di divorzio; i bambini nati al di fuori del matrimonio sono tutelati e i coniugi possono decidere di stipulare un contratto per gestire i beni acquisiti. La legge che riforma il codice di famiglia viene votata dal Parlamento nel 2004.
Al di là delle questioni politiche e del posizionamento degli islamisti rispetto all'adozione di questa riforma, nella sua applicazione il diritto di famiglia e delle donne pone la questione della posizione dei giudici conservatori: la valutazione di molti aspetti rimane a discrezione dei magistrati. La sua applicazione dipende dal grado di istruzione delle donne e dalla coscienza che esse possono avere dei loro diritti.
Malgrado il suo carattere antidemocratico e terrorista, il regime di Mu'ammar Gheddafi ha saputo accordare alle donne uno statuto vero e proprio. La Libia è l'unico fra i paesi musulmani ad aver riconosciuto la donna come cittadina allo stesso titolo dell'uomo; questo statuto ha permesso loro di prendere parte alla rivoluzione contro il tiranno.
Lo spazio lasciato da Gheddafi alle donne è stato spiegato anche con l'educazione ricevuta dal colonnello. Allevato dalla madre e dalle sorelle, è stato attorniato da donne durante l'infanzia e nella sua vita di uomo politico, nella quale le sue «amazzoni» giocavano un ruolo importante. Considerazione che deve tuttavia essere seriamente attenuata: recentemente, grazie alla fine del dittatore, molte di queste donne hanno riferito di essere state arruolate con la forza e di aver subito ripetuti stupri da parte di Gheddafi e della sua cerchia.
Comunque la stima che Gheddafi sembrava nutrire per le donne non era disinteressata: promuovere i loro diritti all'inizio del suo regno era stato anche un modo per ottenere un sostegno di grande peso.
Shari'ah vs. modernità
La lotta per i diritti delle donne ha chiaramente mostrato la distorsione fra il conseguimento dei diritti e i fatti. Riconosciute come cittadine dalla costituzione di tre Stati dall'indipendenza, le donne continuano a vivere in una situazione di diritti minimi.
Oggi la condizione della donna continua a essere in bilico fra la mondializzazione e un ritorno a quella che molti chiamano «l'autenticità arabo-musulmana», una sorta di ripiegamento identitario sapientemente orchestrato da alcuni media panarabi.
Il problema a questo punto riguarda l'esistenza di un diritto di origine religiosa che, anche negli Stati «laici», si può sempre contrapporre al diritto civico, perché funziona come fonte di legittimazione. [...] L'emancipazione femminile si scontra con un doppio ostacolo: da una parte il fatto che le sue libertà individuali non sono garantite e che non può contestare gli abusi di potere; dall'altra l'inesistenza specifica della donna in quanto individuo.
Hamid Zanaz
Saggista algerino, collabora a varie pubblicazioni arabe e francesi. Con
la casa editrice Elèuthera ha pubblicato Sfida laica
all'Islam (2013, pp. 167, € 13,00)
Mohamed Saïl/Un libertario algerino di fine Ottocento
Mohamed
Saïl è nato il 14 ottobre 1894 a Taourit-Aït-Ouaghlis
(Sidi-Aich), in Cabilia. Come molti algerini ha frequentato
poco la scuola. Macchinista di professione, della sua
giovinezza si sa poco. Grazie a una testimonianza apprendiamo
che è stato imprigionato per insubordinazione e
poi per diserzione durante la Prima guerra mondiale: «per
circa quattro anni, in tempo di guerra, fui insubordinato
e quindi disertore», scriveva in un giornale libertario
dell'epoca, Le semeur (Il seminatore). Le sue simpatie
per il movimento libertario sono già chiare.
A partire dalla ricostituzione del movimento libertario
alla fine della Prima Guerra mondiale, aderisce all'Unione
anarchica. Nel 1923, con il suo amico cantautore Sliman
Kiouane, fonda il Comitato di difesa degli indigeni
algerini.
Pare che tra il 1924 e il 1926 abbia vissuto in Algeria,
collaborando con il giornale Le Flambeau. Denuncia
il colonialismo e il codice dell'indigenato, esorta gli
algerini a istruirsi, a ribellarsi e a «unirsi ai
gruppi dalle idee avanzate». In quello stesso periodo
scrive anche articoli per L'Insurgé di André
Colomer e per L'Anarchie di Louis Louvet, con la
firma «un anarchico cabilo». Nel maggio 1925
viene incarcerato per dieci giorni per aver criticato
«il regime dei marabutti che ingannano la popolazione»
in un caffè di Sidi-Aïch (Cabilia).
Nel 1929 è segretario di un nuovo Comitato di
difesa degli algerini contro le provocazioni del centenario.
La Francia si appresta a celebrare il centenario della
conquista dell'Algeria (5 luglio 1830). L'insieme del
movimento anarchico denuncia il colonialismo: «La
civilizzazione? Progesso? Noi diciamo: assassinio!».
In seguito aderisce alla CGT-SR, nella quale crea la Sezione
degli indigeni algerini. L'anno dopo, in occasione
dell'esposizione coloniale, il movimento anarchico riprende
la sua campagna contro il colonialismo.
Nel gennaio 1932, trasferitosi a Aulnay-sous-Bois, dirige
il giornale L'Éveil social, che viene pubblicato
dal gennaio 1932 al maggio 1934 prima di fondersi con
Terre libre. Un articolo gli vale procedimenti
giudiziari per «provocazione alla disobbedienza
militare». Rifiuta il sostegno da parte del Soccorso
rosso internazionale, organizzazione satellite del Partito
comunista, in nome delle vittime dello stalinismo
H.Z. |
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