Robe da terzo mondo
“A sera siamo andati in giro per pub e questo mi ha fatto
stare molto male. Non si può visitare una poblaciòn
al mattino e poi, alla sera, spendere cinquemila pesos (il salario
mensile di un operaio) in un pub dove ragazzotti incravattati
sorseggiano drinks e cocktails, cullati da tranquille atmosfere
di musiche brasiliane e blues. Questo è il Cile, con
le sue grandi contraddizioni, ma io sto male se penso che potrei
spendere in un giorno ciò che qualcuno qui spende in
un anno; se penso al ragazzo, aspirante fotografo, che mi ha
chiesto quanti anni dovrà lavorare per comprarsi una
macchina fotografica come la mia”.
Per caso ho rispolverato un quadernetto di appunti scritti nel
settembre del 1986, in occasione di un viaggio nel Cile di Pinochet
per conto di un comitato di solidarietà: per me la prima
volta nella realtà di una dittatura fascista, ma anche
il primo impatto con quello che, all'epoca, chiamavamo ancora
terzo mondo. Quel settembre trascorso nell'inverno australe
fu denso di avvenimenti importanti nel martoriato paese di Pablo
Neruda ed ebbi il privilegio di esserne testimone e la fortuna
di scamparne le conseguenze1.
Rileggendo quegli appunti densi, scritti con metodica precisione
e inevitabile retorica giovanile, sono affiorate inaspettatamente,
neanche fossi andato dall'analista, le motivazioni nascoste
che, forse, sono alla base del mio disagio di vivere nella metropoli
più sfavillante del mondo. Ma cosa c'entra la Santiago
del 1986 con la New York odierna? Forse nulla ma, nella mia
mente, c'è qualcosa che le avvicina.
Alla partenza per il Cile avevo idee chiare: da tredici anni
governava una dittatura fascista nata nel sangue della repressione,
con vistose connivenze internazionali, a partire dal ruolo giocato
dalla CIA nel colpo di stato del settembre 1973. Nel paese era
in corso un disastroso esperimento economico di liberismo ante
litteram predicato come vangelo dai “Chicago Boys”2,
con una deregulation a tutto campo che aveva potenziato l'economia,
gettando però nella disperazione masse di cileni3.
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“Lo skyline di New York è un monumento di tale splendore che nessuna piramide o palazzo potranno mai eguagliare o raggiungere”. L'opinione di Ayn Rand sulla città di New York. “In contrasto con la realtà che illustro in questo articolo” - ci ha scritto l'autore, Santo Barezini - “ho pensato di proporre le frasi entusiastiche di celebrità innamorate di New York che ho trovato un giorno a decorare delle impalcature” |
Schematica preparazione politica
Alla costruzione del Cile di domani lavorava tenacemente una vasta opposizione, divisa e litigiosa ma determinata e coraggiosa. Avevo dunque mentalmente annotato l'elenco dei buoni e dei cattivi. Capii però abbastanza presto che la realtà era più complessa e più sfumata. A Santiago ero ospite della cortesissima famiglia De Acevedo, nel verdeggiante quartiere di Vitacura. Ogni giorno mi recavo nella “poblaciòn” La Pintana, enorme bidonville della cintura periferica della capitale, affetto da estrema povertà e soggetto a brutale repressione.
Vitacura e La Pintana erano le due facce di una stessa realtà
fatta di vertiginose disuguaglianze sociali. Al mattino, di
buonora, nel salone di casa De Acevedo, trovavo la tavola apparecchiata,
il pane già tostato e il bricco di caffé caldo
poggiati sulla candida tovaglia ad attendermi. Facevo colazione
godendo della vista del giardino, fiorito anche d'inverno. Poco
più tardi, a La Pintana, trovavo strade polverose, fetidi
canali di scolo, baracche di legno e latta e bambini che giocavano
fra i rifiuti. Pranzavo a base di zuppa di patate in casa di
qualche famiglia del posto, pregando che l'acqua che aveva annaffiato
quei tuberi non fosse stata troppo inquinata. Tanto i bravi
De Acevedo, conosciuti grazie a una figlia esule in Italia,
quanto quelle anonime famiglie di periferia, coi loro lutti
e la loro disperazione quotidiana, erano fieri oppositori del
regime, ma un abisso incolmabile separava quella gente come
se, anziché vivere nella stessa città, abitassero
due distanti pianeti. Tornando a casa in “colectivo”4
lasciavo gente che non aveva di che pagare un biglietto di autobus
per andare a cercare qualche opportunità di lavoro al
centro.
Ho scoperto così, vivendole, quelle contraddizioni che la mia schematica preparazione politica non mi aveva fatto intuire: a Santiago la linea di demarcazione fra benestanti e poveri non rappresentava necessariamente categorie politiche, perché l'abitudine a una società divisa e stratificata era ben più antica del regime e tanti bravi e anche coraggiosi oppositori, conosciuti in quei giorni, si presentavano ai miei occhi un po' stupiti come insopportabili signorotti privilegiati, con la cameriera a casa, silenziosa ed efficiente, proveniente dai quartieri poveri della grande Santiago, una di cui forse non conoscevano né storia né sofferenze.
Quei ragazzi trovavano le camicie ben stirate al mattino ed il vestito pronto per le uscite del sabato sera, quando potevano approfittare del rallentamento del coprifuoco per andare a divertirsi nei night club e nelle feste private. Volevano abbattere la dittatura, ma non sono sicuro che volessero davvero cambiare i rapporti sociali, perdere qualcuno dei loro privilegi. Così mi sono rapidamente apparsi detestabili quasi quanto i fedeli del regime. Li separavano le idee ma li avvicinavano i modi: “Mi sono trovato ancora una volta a soffrire una delle tante contraddizioni che mi accompagnano in questo viaggio. Siamo andati all'inaugurazione di un centro di produzione cinematografica, impresa di cui fanno parte anche i giovani De Acevedo. Centinaia di invitati, grande fasto, camerieri zelanti a servire sandwich, Pisco Sour e vino Gato Negro. Sono sicuro che la maggior parte di questi intellettuali, artisti ed eccentrici vari sono contro il regime, ma a me questa intellighènzia di sinistra pare formata da gente assurda che passa il tempo a parlare di rivoluzione sorseggiando drink fino a ubriacarsi, in questa città tragica, stretta d'assedio dai soldati e dai poveri”.
Quelle contraddizioni le ho poi nuovamente trovate in altri contesti, nel Corno d'Africa o in Medio Oriente, incontrando cooperanti che vivevano da ricchi in mezzo ai poveri, occupandosi di sviluppo dalle loro ville con piscina, serviti da camerieri, autisti, baby sitter e sorveglianti mal pagati e spesso maltrattati e un giorno, non ricordo quando né dove, promisi a me stesso che non sarei mai andato a vivere da arrogante benestante in mezzo ai poveri. Ma oggi vivo a New York, ecco la connessione, e rivivo il disagio di sentirmi possidente in una società dove la povertà morde a volte ferocemente e non per cause contingenti, ma per antica abitudine e credo, senza volerlo, di aver tradito quell'intento.
I poveri invece devono accontentarsi
Qualcuno dice che sono ragionamenti senza senso, che sono uno
come tanti, uno che vive in un appartamento anonimo, in una
strada qualsiasi della grande metropoli. Ma in venti minuti
posso sbarcare a Times Square, nel cuore della città
brulicante di affaristi miliardari, dove si decidono i destini
del mondo intero. Poco di più e posso arrivare a Wall
Street, tempio della finanza mondiale. Se invece vado a nord
arrivo velocemente nel Bronx, fra gente che fatica a tirare
avanti. In quindici minuti di buon cammino posso andare nel
Barrio, dove la povertà è diffusa e tanti undocumented5
vivono sotto traccia e si muovono furtivi come ombre.
Sono un folle? Forse. Ma ho una buona copertura sanitaria, posso
mantenere hobby e sogni dei figli, permettermi qualche viaggio
familiare alla scoperta degli States e sfuggo le insidie di
questo folle mercato alimentare comprando il biologico senza
OGM. I poveri invece devono accontentarsi di ospedali dimessi,
medici che non hanno interesse a curarli e cibo velenoso che
trovano nei loro squallidi supermercati di periferia.
Fantasie? No, cifre ufficiali, pubblicate a fine 2015 dal Dipartimento
della Salute. Presentano New York come una città di grandi
diseguaglianze i cui estremi sono, da una parte, Brownsville,
un ghetto di Brooklyn abitato per il 76% da afroamericani e
per il 20% da ispanici, dove la speranza di vita è di
74 anni; dall'altra il distretto finanziario di Manhattan, abitato
dai più ricchi del mondo, dove il dato sale a 85,5 anni:
differenza scandalosa fra due zone che distano fra loro poco
più di mezz'ora di metropolitana. Brownsville e Wall
Street sono due realtà di un modello di società
che le prevede entrambe come inevitabili, proprio come Vitacura
e La Pintana dei miei tempi cileni.
Gli studi elencano anche le cause principali delle disuguaglianze:
pessime condizioni abitative, inquinamento atmosferico, scarsa
qualità dell'alimentazione. La maggioranza dei residenti
di Brownsville vive in case popolari, un adulto su 6 è
disoccupato, uno su 4 non ha completato la scuola secondaria,
la metà del reddito se ne va nell'affitto, l'indice annuale
di nuovi casi di HIV è il doppio della media cittadina
e circa il 40% vive al di sotto della soglia di povertà.
“A New York le situazioni peggiori le troviamo nei luoghi
che la gente di colore chiama casa”, riferisce la commissaria
per la salute, Mary Bassett: “zone dove la maggior parte
vive in povertà. Quei cittadini sono affetti dalle stesse
malattie dei ricchi, principalmente patologie cardiache e cancro,
ma a Brownsville di queste cause si muore prima e in maggior
numero”. A New York ci sono molte di queste realtà
e anche la situazione di Harlem, dove vivo, non è esaltante:
il 30% dei residenti vive al di sotto della soglia di povertà.
E pensare che poco distante, nei palazzi di lusso della Manhattan
che conta, gli affitti sfiorano talvolta i 40.000 dollari al
mese.
Un aneddoto può forse spiegare il mio stato d'animo.
Una domenica ho speso 80 dollari al supermercato e il cassiere,
sistemando malamente la spesa nelle sporte ha esclamato: “È
vergognoso, è più di quello che guadagno a stare
qui tutto il giorno”. Non ho avuto il coraggio di chiedergli
se la sua indignazione fosse diretta verso i prezzi di un supermercato
collocato in un'area abitata da gente di reddito modesto o se
fosse invece rivolta a me, che mi potevo permettere di spendere
una cifra simile in un colpo solo. Sono tornato a casa turbato,
vergognandomi di me stesso. Trascinando i sacchetti della spesa
e maledicendomi per la mia insensibilità, ho deciso che
non sarebbe più capitato. Ma la ferita è rimasta
e un tarlo rode da allora. Forse proprio quel giorno ho perso
l'innocenza e compreso di essere tornato a vivere il disagio
che mi assaliva sorseggiando Pisco Sour nei locali di Santiago.
Mi dicono che tutto ciò accade nelle metropoli di tutto
il mondo, che comunque i quartieri poveri di New York non sono
paragonabili alle favelas di Rio o agli slums di Nairobi. È
vero, ma Brasile e Kenya non si propongono al mondo come esempi
da imitare. Questo grande paese, che esporta la sua democrazia
ed il suo stile di vita a suon di bombe e si crede benedetto
da Dio, non racconta mai al mondo che la medaglia del suo sogno
ha molte amare ferite sul suo rovescio.
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dall'alto: “New York, giungla di cemento dove i sogni diventano realtà. Oh, non c'è niente che tu non possa fare: sei a New York!” (Jay-Z) “New York, hai tutte le fortune” (Charles Bukowski) “Il fascino di tutto questo! New York! America!” (Charlie Chaplin) |
Quest'America mai in discussione
Così oggi mi sento come se vivessi precariamente sospeso fra Vitacura e La Pintana. Anche qui frequento gente con le idee giuste ma, come allora, c'è qualcosa che non funziona. Un disagio che si può riassumere nel racconto di una sera in cui mi sono ritrovato a cena nell'Upper West Side, fra professori, artisti e studenti di Harvard, con buona musica di sottofondo, il tacchino in tavola e i cani a sonnecchiare in salotto, seduto a sorseggiare vino e ad ascoltare conversazioni che spaziavano dall'importanza del networking per assicurarsi una buona carriera alla contrarietà verso le leggi anti migranti. In quell'atmosfera allegra, in mezzo a quell'intellighènzia progressista tipicamente newyorchese, con idee giuste e brillanti carriere, mi sono sentito come una comparsa in uno dei tanti film che Woody Allen ha ambientato esattamente in quella parte delle città e fra quel tipo di gente. Erano persone colte, simpatiche, di sinistra, con idee condivisibili, ma avevano l'appartamento in stile a Manhattan, le case di vacanza nel Maine o in Florida e la donna di servizio messicana. Impegnati nelle loro brillanti carriere, non avevano tempo di occuparsi davvero dei ghetti di New York che languono a breve distanza e io mi sono sentito fuori posto, proprio come in quelle serate di Santiago trascorse a spendere futilmente, in poche ore, lo stipendio mensile di un operaio.
È sempre più arduo fare della promessa di tanti
anni fa un programma di vita, me lo insegna Ken Loach a ottant'anni
suonati6, ma c'è una differenza
fondamentale: quella delle tante Brownsville non è nuova
povertà ma roba da terzo mondo, la piaga di sempre di
quest'America che non si mette mai in discussione.
Resterò fin che devo, divorato dalle mie contraddizioni, ma non ho voglia di rifare la comparsa fra gli intellettuali stile film di Woody Allen. Meglio le passeggiate solitarie per certe strade dimesse, fatte per ricordarmi che a New York c'è tanta adrenalina nell'aria, ma anche tanta rassegnata disperazione. Alla domenica starò sempre attento a non esagerare con la spesa e scambierò un saluto allegro col cassiere del supermercato, sperando che non si ricordi di me.
Santo Barezini
Note
- 4 settembre: sciopero nazionale, 7 settembre: fallito attentato a Pinochet, seguito da una forte repressione.
- Un gruppo di giovani economisti cileni, formatisi con Milton Friedman alla School of Economics di Chicago.
- Il premio nobel indiano per l'economia, Amartya Sen, sosterrà poi che i “Chicago Boys”, disseminati per tutta l'America Latina, servivano in realtà, surrettiziamente, gli interessi dell'economia USA.
- Taxi a percorso e tariffa fissi con fermate intermedie, utilizzato da più clienti contemporaneamente, da cui il nome.
- Così vengono chiamati a New York i clandestini, analogamente a quanto accade in Francia con i sans-papiers.
- Con “I, Daniel Blake”, vincitore al festival di Cannes del maggio 2016.
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