Venezuela
Il fallimento del “socialismo”
di Stefano Boni
L'esperienza del “socialismo bolivariano”, prima con Chávez poi con Maduro, è stata salutata con entusiasmo da gran parte della sinistra. Il suo fallimento segna un'ulteriore sconfitta dell'ipotesi marxista.
L'interesse per ciò che succedeva in Venezuela mi è sorto nel 2005 quando il governo Chávez, sposando una visione socialista, attira la simpatia di buona parte della sinistra radicale. Mi ricordo articoli di giornali filo-marxisti che esaltavano le riforme popolari e un incontro in una sezione di Rifondazione Comunista in cui si parlava di “rivoluzione” e si prometteva l'emancipazione popolare. Ero curioso di vedere il marxismo fatto realtà. Sono andato in Venezuela diverse volte tra il 2006 e il 2014 per capire quel che succedeva al di là della retorica ideologicamente schierata a favore o contro.
Passato un decennio dal mio primo viaggio, in Venezuela si fa la fila per procurarsi da mangiare. I trattamenti terapeutici soffrono di una prolungata scarsità di farmaci di base, tra cui gli antibiotici. L'elettricità è disponibile solo per poche ore al giorno. Il tasso di omicidi continua a salire ed è ora tra i più alti al mondo. La popolazione è inferocita. L'appoggio elettorale dato a Chávez e alle sue riforme dal 1998 si è interrotto drammaticamente nel dicembre 2014 quando nelle elezioni parlamentari si è affermato il fronte delle opposizioni (tra cui molte di sinistra).
Ora il paese è alle prese con una impasse istituzionale dovuta alla compresenza di un presidente chavista, Nicolás Maduro successore di Chávez morto nel 2013, ed un parlamento in mano all'opposizione in un contesto di fortissima, e ormai consolidata, polarizzazione partitica. In un paese in cui molti hanno armi a disposizione, è possibile che il conflitto tra chavismo e opposizione si trasformi sempre più in scontro armato con conseguenze imprevedibili. La retorica della via sudamericana al socialismo, aperta, pluralista, democratica, sperimentale è durata il periodo in cui la rendita petrolifera l'ha resa possibile. Il sogno è svanito nel giro di pochi mesi quando il prezzo del greggio, che costituisce il 95% delle esportazioni venezuelane e che regge buona parte dei consumi interni, è crollato da oltre 100 $ al barile nel giugno 2014 ai 30/60 $ degli ultimi due anni. La altisonante retorica rivoluzionaria diventa vuota propaganda di fronte all'ennesimo disastro dello Stato marxista.
Il crollo del socialismo del secolo XXI in Venezuela ha le sue peculiarità ma al contempo assomiglia ai fallimenti dei regimi di sinistra nel Novecento. Vale la pena ragionare sulle ragioni dell'ennesima “rivoluzione” fallita. La dinamica venezuelana si è progressivamente deteriorata soprattutto quando, tra il 2005 e il 2007, il governo ha deciso di accentuare la centralizzazione verticistica, riducendo la diversificata alleanza che appoggiava Chávez in un partito unico (il PSUV, Partido Socialista Unido de Venezuela) tinto di rosso e allineato su una coreografia e una retorica socialista.
Ma quale democrazia partecipata?
Tra le politiche più interessanti promosse da Chávez
sono state quelle tese a promuovere la democrazia partecipata.
I consejos comunales (CC) sono assemblee di quartiere
comprendenti, in contesto urbano, tra le 200 e 400 famiglie
che si costituiscono come attore politico. Sono previste forme
di coordinamento di CC, denominate comuni, che a tuttora non
sono funzionati. La costituzione dei CC era lasciata alle comunità,
l'organo decisionale supremo era l'assemblea dei cittadini,
la partecipazione alla assemblea era aperta a tutti i residenti
sopra i 15 anni. Questi organi sono stati però inseriti
in una legalizzazione e burocratizzazione della democrazia partecipata
che ha previsto il monitoraggio e l'approvazione da parte di
istituzioni statali: si dovevano registrare le decisioni, codificare
gli atti delle assemblee, costituire un organo finanziario per
ricevere sussidi. Costituiti nel 2005, già nel 2009 i
CC erano diventati, in maniera sempre più esplicita,
canali per il proselitismo politico del PSUV. Progressivamente
la partecipazione cittadina è diminuita mentre la corruzione
e l'appropriazione personale delle risorse comunitarie è
aumentata. Nella mia area di ricerca circa la metà dei
CC era bloccata nel 2014 per scorrettezze procedurali o finanziarie.
La lezione è che la democrazia partecipativa per essere
coerente con i suoi presupposti si deve sviluppare fuori dalle
istituzioni politiche. Il controllo statale sulla democrazia
diretta vuol dire inibirne la creatività e la sperimentazione,
sacrificate alla codificazione burocratica omogenea; vuol dire
trasferire le conflittualità partitiche all'interno della
organizzazione comunitaria; vuol dire predisporre soggettività
politiche nate come autonome ad una cooptazione clientelare
nel sistema partitico. La maggior parte dei ricercatori che
si è occupata del fenomeno riconosce che i movimenti
sociali sotto Chávez non sono stati rafforzati nella
loro indipendenza ma piuttosto imbrigliati, sponsorizzati, e
centralizzati.
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Ciudad Bolivar (Venezuela) - Fila di persone in attesa davanti a un supermercato pubblico |
O autogestione o assistenzialismo
L'incremento di tensioni comunitarie (furti, fazioni contrapposte, competizione tra leader di quartiere) sono in buona parte dovute alla decisione di elargire consistenti finanziamenti pubblici ai CC trasformando la democrazia assembleare in un simulacro di partecipazione finalizzato alla intercettazione di sussidi statali. Anche le centinaia di fabbriche espropriate, le innumerevoli cooperative-fantasma, i molteplici movimenti sociali sono stati foraggiati e sconvolti, stimolati e controllati attraverso soldi pubblici. Per tutti questi agenti politici sorti dalle basi, la prima preoccupazione non era “fare” ma accreditarsi con il governo per farsi cedere un pezzo della enorme rendita petrolifera (spesso a beneficio principalmente dei leader dell'organizzazione). La sensibilità popolare del chavismo si è tradotta in politiche assistenzialiste: cibo distribuito a prezzi irrisori, sussidi alle diverse categorie svantaggiate (o a chi riusciva a farsi passare come tale), distribuzione di beni ad elettori fedeli, elargizioni di soldi a pioggia sotto elezioni. Le classi popolari ne hanno certamente beneficiato in termini di capacità di consumo e di offerta di servizi sussidiati ma questo piuttosto che stimolare l'autogestione e l'auto-produzione le ha inibite. Lo stimolo imprenditoriale è stato annichilito dalle importazioni di beni pagati con la rendita petrolifera e ceduti secondo catene clientelari. Chi produrrà polli artigianalmente per il mercato se lo stato compra quelli industriali dal Brasile e li distribuisce ad un prezzo sussidiato di poche decine di centesimi di euro? Piuttosto che la faticosa strada dell'uso della rendita petrolifera per costituire un'autonomia locale o nazionale (rafforzare la generazione di elettricità, la fabbricazione di farmaci in loco, la capacità di estrarre petrolio senza delegare le operazioni alle multinazionali), il PSUV ha preferito la strada della facile conquista del consenso scambiando i suoi idrocarburi per beni di consumo da distribuire agli elettori dei quartieri poveri.
La lezione è che un partito di sinistra può comprare il consenso, vincere le elezioni, cedere benefici alle classi popolari ma ciò ne mina l'autonomia politica e produttiva. Essere dalla parte del “popolo” non significa centralizzare risorse per poi distribuirle strategicamente per saziarne le voglie edonistiche e poi, sotto elezioni, chiedere il voto ai beneficiari. L'autogestione è una pratica alternativa all'assistenzialismo marxista perché si fonda sulla responsabilità e sulla indipendenza individuale e collettiva, su un fare attivo piuttosto che su una passività indotta. Per soggetti politici autonomi, i soldi pubblici sono regali avvelenati che creano dipendenza.
L'illusione del leader buono
Man mano che il grado di corruzione e di conservatorismo dei politici chavisti si è reso manifesto, i settori più radicali delle basi, piuttosto che criticare l'architettura statale, si sono appellati al presidente. I militanti di quartiere, riconoscevano che la rivoluzione stava prendendo una brutta piega ma in un contesto in cui le leve del potere erano detenute, sia a livello locale che nazionale, dai vertici del partito-governo, le speranze di una svolta rivoluzionaria erano affidate ad un provvidenziale intervento di Chávez. Non è successo e non sarebbe successo anche se Chávez non fosse morto.
L'idea del leader buono, vicino al popolo, garante della rivoluzione, rappresentante degli interessi dei bisognosi è una finzione ricorrente della tradizione marxista. Ha generato solo l'esaltazione acritica di capi sempre più mummificati e il mancato riconoscimento della capacità di auto-determinazione delle variegate soggettività che compongono il corpo sociale. L'apice della catena di governo, che nel marxismo invariabilmente prende la forma del capo illuminato, santificato, divinizzato, è invariabilmente una delle cause dei fallimenti delle spinte rivoluzionarie piuttosto che del loro rafforzamento.
Superare la centralizzazione del potere
Varrebbe la pena ragionare con chi ancora propugna prospettive comuniste sui ricorrenti fallimenti delle rivoluzioni rosse. Si potrebbe sostenere – a ragione – che anche l'ideale anarchico non si è mai realizzato in un contesto di società moderna e complessa. Eppure l'anarchismo e il marxismo fatti storia hanno traiettorie e destini diversi.
Nella storia europea recente i contesti in cui si è affermata una pratica libertaria (penso alla comune di Parigi del 1871 e alla Spagna del 1936) non si sono trasformati né in dittatura, né sono implosi internamente, ma sono stati piuttosto repressi dalla violenza militare, come molte delle innumerevoli espressioni di società a potere diffuso che hanno caratterizzato la storia dell'umanità. La storia pone agli anarchici la questione di come difendere le prassi libertarie dalla repressione militare. Il Venezuela contemporaneo è invece l'ennesimo esempio delle contraddizioni e incoerenze interne del marxismo fatto Stato che varrebbe la pena evitare in futuro.
Se i marxisti credono nella eguaglianza e nell'autogestione dal basso, la storia insegna che questo progetto è incompatibile con forme centralizzate di potere con l'esercizio della sovranità monopolistica istituzionale, in breve con lo Stato. Alcune tendenze del marxismo contemporaneo stanno lentamente prendendo coscienza della incompatibilità degli obiettivi dichiarati dal comunismo con gli strumenti classici della sinistra: l'avanguardia rivoluzionaria, la presa del potere, la dittatura del proletariato.
Il superamento della volontà marxista di appoggiare la centralizzazione in presidenti, Stati, partiti permetterebbe anche il riconoscimento di proficue affinità organizzative tra comunisti e anarchici, in un momento in cui appare urgente cercare alleanze realmente costituenti di fronte a un fronte di potere statale-imprenditoriale-finanziario che sta diventando sempre più arrogante, oppressivo, violento.
Stefano Boni
Per saperne di più
Un interessante sito di anarchici venezuelani, che seguiamo
da anni e dal quale più volte abbiamo tradotto
articoli e prese di posizione, è periodicoellibertario.blogspot.it
Segnaliamo in ordine cronologico tre scritti sul Venezuela
apparsi sulla rivista.
Un'intervista a Nelson Mendez, esponente del gruppo El
Libertario, realizzata da Fabrizio Dentini e pubblicata
in “A”
376 (dicembre 2012/gennaio 2013) con il titolo
“Chi salverà il Venezuela dal petrolio”;
uno scritto del Collettivo editoriale El libertario “Contro
la politica economica del presidente Maduro” (“A”
388, aprile 2014);
lo scritto di Gaia Raimondi “Il mito di Chavez è
(Ma)duro a morire” (“A”
389, maggio 2014). |
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