Rivista Anarchica Online





L'altissima anarchia/
Giovanni Antonelli, poeta della rivolta

“E avrei da tempo fatta la pazzia / di bruciar le ristucche mie cervella / per non veder mai più gente sì ria, / se dall'amor che sfida ogni procella, / che nutro per l'altissima anarchia, / non attingessi ognor forza novella!” (In una città picena). E di forza Giovanni Antonelli, poeta della rivolta, dovette averne un gran bisogno, errante come fu per tutta la vita tra mari e terre, sentieri e città, carceri e manicomi.
Il libro di un pazzo di Giovanni Antonelli (Giometti & Antonello – Macerata, 2016, pp. 180, € 16,00) ritorna in stampa a più di centoventi anni dalle sue uniche due edizioni1, quando quel “poeta pazzo”, “genio da manicomio”, orgogliosamente e liberamente anarchico, aveva 45 anni e già una vita intensa da raccontare.
Era nato circa auroram del 21 marzo 1848 a Sant'Elpidio a Mare, nelle Marche, “all'aurora del primo giorno di primavera dell'anno che resterà alla storia come la Primavera dei popoli”, come sottolinea Massimo Gezzi nella prefazione alla nuova edizione. Nato “il 21 a primavera”, quindi, come Alda Merini e come lei senza sapere, forse, “che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta” 2.
Una vita travagliatissima la sua, narrata in queste “note autobiografiche” con smaccato realismo, intima ironia, denuncia sociale e riscatto civile. Imbarcato come mozzo a tredici anni – sul battello da guerra Daino, pieno di entusiasmo partecipe del risorgimento nazionale – rimane imprigionato nella real Marina per altri dodici, annichilito da punizioni, violenze, diserzioni, Tribunali e carceri militari. Congedato nel 1873, con la famiglia in rovina e lucidamente consapevole che Chi è povero è schiavo!, vaga per la nuova Italia a piedi, in cerca disperata di un'occupazione che non troverà mai. S'imbatte invece in continue tragiche disavventure, cadendo continuamente nelle mani dei sbirri, perseguitato e incarcerato come ozioso, vagabondo e socialista, senza mestiere, privo di mezzi di sussistenza fino a che, tra stentati e a volte felici periodi di libertà, al carcere alterna il manicomio, inizialmente persino per scelta, alla ricerca di quel sostentamento negato che gli era indispensabile anche alla scrittura.
“La figura del poeta girovago è famigliare all'Italia paesana di fine secolo – scrive Pier Carlo Masini3 – Il poeta, col suo scartafaccio di versi e una borsa di opuscoli a tracolla, gira a piedi per fiere e mercati, passando le notti nei fienili (e spesso nelle camere di sicurezza). È cantastorie, propagandista sociale, qualche volta conferenziere popolare. Giovanni Antonelli fu uno di questi” – conclude Masini, ma forse fu anche qualcosa di più.
Ufficialmente pazzo e poeta-scrittore prolifico (scrivendo su fogli sparsi e perfino sui muri), entra anche nel parnaso di Cesare Lombroso, che gli dedica un capitolo nel suo Genio e follia del 1882, dopo che già nel 1877 un altro alienista, Enrico Morselli, ne aveva pubblicato la prima Autobiografia d'un alienato.4
I suoi sonetti furono pubblicati a più riprese, tra il 1879 e il 1909, da piccoli editori delle Marche e di Reggio Emilia, ma anche su primarie riviste letterarie come “La Farfalla” di Milano, “La Domenica Letteraria” di Roma, “La Luce” di Aversa. Un progetto di Angelo Sommaruga, maggiore editore letterario dell'epoca, pur annunciato sulla stessa “Domenica Letteraria” sfumò (“E con lui scomparvero i manoscritti da stampare”, e forse le stesse speranze di una vita).
Il Libro di un pazzo è dedicato “Agli oppressi – perché depongano l'angoscia e ridano con amarezza di una società sì perfidamente ridicola nel suo tono di prosopopea”, e “il cantore degli oppressi ha finito per cantar sé stesso, incarnazione di tutti gli oppressi del mondo”. Perché la sua fu anarchia integrale, inverata in una vita “erratica, disfida di tutti gli elementi, oceano di guai e d'angosce, immane complesso di supplizi”, vissuta in un pensiero che “vaga attraverso un caos senza fren, senza meta e senza posa”. E “Che tale è il pensier mio sono lung'anni; / ma se arridesse amor co' bei soccorsi / amar tutti, vorrei, sino i tiranni” (Il mio pensiero).
O ancora: “Elettore io? [...] No, non vo' saper nulla d'elezione [...] Del mondo voterei la distruzione, Ché di farlo miglior vano è il desìo!” (Elettore io?). Al Manicomio dei Ponti Rossi di Napoli, nel 1887, conobbe “Emilio Covelli, il filosofo dell'anarchia, che al par d'un Cafiero si è spezzato, non potendo piegarsi”. E proprio a Carlo Cafiero – “Ei l'ideal sarà del mondo intero!” – dedicherà uno dei suoi più appassionati sonetti (Per Carlo Cafiero).
Anarchia intimamente integrale, quindi, ma anche una lucida, disincantata e disperata consapevolezza che “l'anarchia, che unica bandirebbe la discrepanza di fortuna, l'ingiustizia, e livellerebbe l'umanità, non può sciaguratamente, per ora almeno, darsi”.
Partecipava a conferenze anarchiche qua e la per l'Italia e ne teneva egli stesso, ma era anche molto critico verso tanta follaccia arcicretina e sull'umanità di tanti anarchici in carne ed ossa che incontrava. “Picchiai in Bologna all'uscio di parecchi che predicano l'anarchia, sprofondati nelle loro poltrone, inebriati dal cognac e dal madera; ma, com'era da prevedersi, non ebbero per me viscere umane; mi accolsero prima, per godersi il racconto dei miei tragici eventi, poi mi chiusero in faccia l'uscio. Povera anarchia, costoro ti osteggiano più dei preti, de' borghesi medesimi!”. Era amico e frequentatore abituale di anarchici e internazionalisti, come Gaetano Didimi a Treia o Domenico Spadoni a Macerata, redattore del foglio La Campana5. Ma proprio in quell'Atene (Macerata) ebbe una disavventura con un compagno e chiosò disilluso: “Il socialismo anarchico è stato per opera di alcuni insettacci convertito in una chiesuola per loro uso e consumo”.
Scrive anche alcuni testi, come racconta nell'autobiografia, andati però probabilmente perduti, come “I misteri della fatua brutalità marittima, ossia il secolo del Progresso retrogrado” (1869?), “Il pauperismo in Italia ed i mezzi per estirparlo” (1874?) o un opuscolo stigmatizzante l'istruzione del prete, romanzetti, commediole, versi ecc. Lo psichiatra Enrico Morselli, che lo seguì quand'era direttore del Manicomio di Macerata (e con cui Antonelli discettava alla pari sulla vera natura della sua pazzia), riferì - nel post-scritto alla prima Autobiografia - che stava scrivendo tre romanzi in una volta sola, oltre a molti opuscoli sulla questione sociale e sulla istruzione delle classi proletarie ed operaie.
Con alcuni borghesi e con qualche autorità, che si adoperavano per aiutarlo procurandogli sostegni e sovvenzioni, era benevolo, fossero notabili liberali (come l'editore del giornale del liberalismo risorgimentale che pubblicò le sue Poesie6), deputati di quello che pure non esitava a definire ambiente mefitico parlamentare, o cattolici che gli fecero tributare un obolo di 50 lire dalla Regina che apprezzava i suoi sonetti (“Mi si gridò la croce addosso ... Si pretendeva ch'io fossi morto di fame.”).
Morì, probabilmente dimenticato, il 9 gennaio 1918 nel Manicomio di Ancona, come hanno scoperto solo gli editori di oggi che ne danno conto in questo nuova pubblicazione.
Colpiscono, leggendo il libro, i diversi piani di lettura che se ne possono fare: la poesia in sonetti di un anarchico girovago e autodidatta, l'arte e la rivoluzione all'epoca dell'Internazionale, il rapporto genio-follia indagato dagli alienisti, o quello povertà-libertà attraverso i sbirri e la reclusione, lo spaccato brutale e desolante di ingiustizia sociale nell'Italia post-risorgimentale, o altri ancora.
Chi legge queste righe e soprattutto chi leggerà Antonelli, allora, potrà concludere con me che questa operazione editoriale della Giometti & Antonello sia da considerare molto lodevole e per certi versi straordinaria.

Massimo Lanzavecchia

Note
  1. Tip. Natalucci, Civitanova Marche 1892 e Tip. Economica, Reggio nell'Emilia 1893, con 155 liriche di cui l'edizione odierna pubblica una breve scelta.
  2. Alda Merini, ”Sono nata il 21 a primavera”, in Vuoto d'amore, Torino, 1991.
  3. Pier Carlo Masini, “Poeti della Rivolta. Da Carducci a Lucini”, Milano, 1978.
  4. ”Un genio da manicomio. Autobiografia d'un alienato”, Tip. Corradetti, S. Severino Marche, 1877.
  5. La Campana, “Monitore socialista-anarchico per le Marche, l'Umbria ed il Lazio”, Macerata 1890-1892, che ospitò molti articoli di E. Malatesta e soprattutto di F.S. Merlino.
  6. Poesie, Tip. Vessillo delle Marche, Macerata 1881.



Libertaria/
Nel nome della differenza

È uscito il numero monografico 2016 della ex-rivista trimestrale Libertaria, a quell'epoca parte della nostra stessa cooperativa editoriale Editrice A, fino al 2011. Quando dal 2014 ha ripreso le pubblicazioni con un numero monografico all'anno, Libertaria viene ora prodotto da Mimesis.
Pubblichiamo la recensione appunto del numero di quest'anno, intitolato Nel nome di nessun dio (Autori vari, a cura di Luciano Lanza, Mimesis, Milano, 2016, pp. 250, 20,00) scritta da un membro del collettivo redazionale di Libertaria.

La questione centrale dell'anarchismo non è lo Stato in quanto tale ma il dominio. Gli Stati attuali sono un portato della storia moderna ma il dominio di cui sono espressione è assai più antico. Lo Stato si inscrive in una logica dell'uniformità e dell'identico, la quale tende «ad appropriarsi dell'azione sociale e a centralizzare e unificare in una sola direzione la pluralità della vita collettiva» (F. Codello, p. 187). Una logica che ingloba al proprio interno anche l'economia e la ricerca scientifica.
Al di là delle apparenze e dei mascheramenti ideologici, gli economisti ultraliberali sono degli statalisti, poiché «una politica che s'ispira a Milton Friedman non è meno interventista di una keynesiana» (T. Ibànez, p. 72); è diverso il suo modo di intervenire nelle libere dinamiche del corpo sociale, non certo l'intensità dell'intervento. La logica del dominio sostituisce all'equilibrio economico la dismisura di ciò che Aristotele chiama crematistica, vale a dire il prevalere dell'interesse del singolo rispetto allo sviluppo del corpo collettivo del quale ogni singolo è parte. Una dismisura che oggi si chiama capitalismo finanziario - uno dei cui cantori è stato Milton Friedman - il quale «non è che un epifenomeno rispetto a ciò che lo regge. Ciò che lo regge si chiama nichilismo. Il cui modo di dispiegarsi in sembianza d'economia è la calcolabilità totale» (M. Amato, p. 19). Nichilismo è la parola giusta.
Nei regimi neoliberali, vale a dire nei nostri regimi, tale nichilismo si attua tramite «una forte spinta verso la dissoluzione del legame sociale e contemporaneamente la crescita dei controlli giuridici, normativi, amministrativi e polizieschi, con l'illusione di conservare la coesione del corpo sociale da parte dello Stato» (E. Colombo, p. 28). L'affrancamento dal nichilismo liberale e dal nichilismo statalista passa secondo Massimo Amato «per un pensiero rinnovato della grazia» (p. 15), che disveli la struttura annientante di un'economia ridotta a pura finanza e quindi al «puro contrario del dono e della grazia» (p. 17). Grazia è traduzione del greco kairós, che indica l'istante perfetto della pienezza individuale e collettiva, della finitudine di ogni umano e della costanza dell'intero nel quale soltanto la persona acquista senso. Opporsi all'incalcolabile, alla dismisura, al nichilismo significa dunque «per ogni uomo, e anche in economia, imparare a diventare mortale: a vedere nel nulla una grazia. C'è economia propriamente umana solo là dove l'essere umano diventi capace di un rapporto con la propria morte. Ciò che Keynes si limita a suggerire, Heidegger lo pensa» perché «Heidegger guarda altrove. Guardando altrove, ci aiuta a guardare da vicino la oiko-nomia» (M. Amato, pp. 21-22).
Un'analoga uniformità tenta e attraversa i saperi scientifici, i quali tendono a presentarsi e a porsi come l'unico discorso legittimo sul mondo, discorso che diventa dunque immediatamente autoritario poiché il luogo della libertà è sempre lo spazio della pluralità. E invece «se ora diamo un'occhiata d'insieme alle caratteristiche elencate finora, a proposito dell'arte di governo contemporanea, ci accorgeremo che sono indissociabili dallo sviluppo dei saperi scientifici e dalla diffusione dell'informazione. Il che dimostra come il tipo di sapere prodotto dall'istituzione scientifica sia tutt'altro che neutro, ma abbia notevoli effetti politici che non sono forse legati all'impiego che ne viene fatto, e questo vale anche per le innovazioni tecnologiche. Presi insieme, questi due fenomeni hanno anche tali implicazioni politiche da renderli in grado di modificare lo Stato e gli elementi razionali di governo» (T. Ibànez, p. 75).
Il nucleo del dominio contemporaneo non è pertanto lo Stato ma è l'intreccio soffocante di tecnologia (digitale, soprattutto) e finanza, le quali strutturano una «società di sorveglianza e controllo, a un livello che sarebbe stato inimmaginabile cent'anni fa. È veramente una visione dispotica» (S. Critchley, p. 114). A tali strutture tanto brutali quanto elitarie bisogna opporre la forza - semplicemente - del popolo, senza temere per questo di passare per populisti, se è vero - come ricorda Eduardo Colombo - che «l'Assemblea, il popolo in assemblea, e l'estrazione a sorte sono due istituzioni centrali della polis, che non sono più state riprese da nessun regime rappresentativo, allorquando, alla fine del Settecento in Europa la sovranità popolare fu formalmente riconosciuta come fonte legittima del potere politico» (p. 33). Uno degli elementi generatori dell'anarchismo sta nel rifiuto dell'illusione che sovranità popolare e istituzione statale possano convivere e conciliarsi. Perché lo Stato è uno e il popolo è invece molteplicità.
È soltanto in questa complessità di temi, fondamenti e riferimenti che diventa comprensibile, sensato e necessario il titolo di questo numero di Libertaria: Nel nome di nessun Dio poiché Dio è un dispositivo di uniformità, omologazione e unicità, il quale tende ad assorbire la varietà dell'esperienza umana in un concetto e in una pratica che negano la molteplicità costitutiva del mondo. Se assistiamo a una «risorgenza della religione» è perché «tale fiamma non si era mai spenta, nemmeno nei momenti più alti di visibilità e rappresentatività delle ragioni laiche e secolari» (S. Vaccaro, p. 123).
Il pensiero laico è infatti anche un pensiero scientista ed economicista. E dunque nel profondo solidale con il dominio. Eppure ci sono state esperienze religiose che hanno attinto al bisogno umano di vivere liberi. Una di queste è lo Gnosticismo, il quale è stato forse «l'unica religione (o comunque una delle pochissime) che abbia consapevolmente preparato e spinto i suoi aderenti ad avere in sé il proprio inizio, il proprio scopo e i mezzi per ottenerlo - a “vivre libre, ou morir!” [...] Al di là del suo carattere religioso, la gnosi si manifesta come una modalità d'esistenza differente, radicale, personale, emancipatrice, libertaria, ed è per questo che l'anarchismo ne ha tenuto conto nel suo strutturarsi in filosofia e teoria politica» (L. Fava, p. 163). Gli anarchici sono stranieri a questo mondo, così come lo sono gli gnostici.
«Gli anarchici sono brave persone» (S. Critchley, p. 115), che sanno esprimere con passione e con efficacia anche narrativa i pericoli del dispotismo digitale (lo fa qui Alessandro Curioni con tre racconti che hanno per argomento la sicurezza informatica) e quelli del Golia che cerca di schiacciare Davide, come i giovani anarchici di Gaza affermano in una densa pagina del loro Manifesto: «Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una pesantezza così immensa che rende difficile anche solo godersi un tramonto. Come possiamo godere di un tramonto quando le nuvole dipingono l'orizzonte di nero e orribili ricordi del passato riaffiorano alla mente ogni volta che chiudiamo gli occhi? Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della Terra» (p. 106).
Come nei suoi precedenti numeri, Libertaria 2016 presenta analisi, interpretazioni, prospettive, diverse tra di loro. Perché essere anarchici significa anche questo, vuol dire essere davvero molteplici e politeisti. Lo furono Bakunin e Kropotkin, che nella sezione Archivio danno una lettura diversa del fenomeno religioso: del tutto escludente il primo, più aperto il secondo. Lo sono Graeber e Piketty: il primo è favorevole alla cancellazione del debito, il secondo ritiene che questa misura favorisca anche le banche e propone invece una forte tassazione progressiva. Nel nome di nessun Dio significa nel nome della Differenza.

Alberto Giovanni Biuso
www.biuso.eu




Pietro Gori/
Quella “Sociologia Criminale” di un secolo fa

Fu Luigi Fabbri a coniare la locuzione «cavaliere errante dell'ideale», per sintetizzare e raffigurare le sensibilità personali di Pietro Gori, l'amico e compagno d'idee e di azione prematuramente scomparso che nella sua breve vita ha “disseminato i grani aurei del suo pensiero per tutto il mondo, che ha sollevato entusiasmi di fede e attività di opere dovunque ha posto piede, dalla Città Eterna dei sette colli ai piedi delle Piramidi, da Lugano bianca sul lago a San Francisco a sponda sul Pacifico, dalla tumultuosa Londra agli ultimi paeselli sperduti nella Terra del Fuoco, questo sublime vagabondo ha stampato orme che non si cancelleranno più mai nella storia delle redenzioni umane.”
Il felice appellativo si riferisce, certamente, al nomadismo geografico, volontario o coatto, che ha accompagnato per anni la figura di Gori, ma anche – e forse soprattutto – al suo attraversare, brillantemente, i più disparati luoghi della cultura. Uno di questi, non ultimo, fu certamente l'ambito sociologico (Pietro Gori Sociologia criminale, Edizioni Immanenza, Napoli 2016 (prima edizione Cromo-Tipo La Sociale, La Spezia 1911), ristampa a cura di Santo Catanuto e Franco Schirone dell'Associazione Culturale “Pietro Gori” di Milano, pp. 150, € 12,00). Gori, infatti, fin dalla sua tesi di laurea e stando dalla parte del diritto positivo che stava affermandosi in quegli anni affrontò metodologicamente, giuridicamente e politicamente la “questione sociologica”, che stava già incamminandosi verso una connotazione quasi esclusivamente teorica e analitica, correlandola alla ben più drammatica e concreta “questione sociale”, ma collocando le problematiche più essenziali entro le più specifiche coordinate della sociologia criminale, in quegli anni orientata a comprendere e possibilmente dirimere il più acuto dei fenomeni tra le patologie sociali: la criminalità.
È in Argentina, durante il fecondo e fervido secondo periodo d'esilio, che Gori affronta con più forte determinazione la tematica criminale, dando vita alla rivista «Criminalogia Moderna»1 che sarà pubblicata con regolarità mensile finché Gori non accetterà l'offerta della Società Scientifica Argentina a compiere una missione volta ad esplorare l'Estremo Australe e la Terra del Fuoco. In questa seconda fase del suo soggiorno nell'America del sud, Gori, nel seguire l'esempio di Eliseo Réclus di cui è grande estimatore, mostra di esserne un ottimo epigono oltre che un valente fotografo. Da questi viaggi riporterà preziose testimonianze sulle primitive tribù della Patagonia e queste sue esperienze non saranno secondarie nell'accompagnare e nel sostenere le sue prese di posizione giuridiche, politiche e scientifiche sia nell'ambito della sociologia criminale sia in quello dell'allora nascente antropologia culturale: “Si può senz'altro affermare che con questi studi Pietro Gori abbia dato, con Guglielmo Ferrero e con altri, i primi validi contributi all'antropologia.2
A differenza di altri studiosi, Gori dà, però, al problema sociologico complessivo – e ai problemi antropologici e criminologici che lo marcano evidenziandone aspetti di variabilità o di tragicità – una piega originale poiché non limita il dibattito e la ricerca al piano esclusivamente teorico-analitico, proprio dei sociologi accademici, né si avventura dentro i meandri ambigui dello scientismo borghese come fa, ad esempio, Cesare Lombroso le cui ricerche, in definitiva, offrono nuovi strumenti alle istituzioni repressive dello Stato piuttosto che soluzioni possibili, sia pur parziali, ai drammatici problemi correlati alla criminalità e soprattutto alla criminogenesi.
Sollecitato dal bisogno di far collimare il pensiero di giustizia con la possibilità di concretizzarlo attraverso lo studio e l'azione, Gori interpreta il problema sociologico generale sia come problematica sociale tout court, sia come possibilità, per le volontà sensibili alla questione sociale, di modificare la dimensione stessa in cui vivono gli esseri umani, artefatta dalle strutture gerarchiche che la dominano e la determinano in funzione dei più disparati interessi privati e di parte. Un bisogno peraltro sempre più avvertito dalla nuova coscienza sviluppatasi con l'affermarsi dell'Internazionale (A.I.T.) tra i lavoratori, gli sfruttati, gli emarginati e i subordinati come una necessità ineludibile che, invece, non solo viene elusa o negata da chi detiene l'autorità e la forza di emanare leggi, ma è repressa con la brutale violenza dei codici e delle armi, ricorrendo anche al crimine, più o meno legale, laddove e allorquando l'anelito alla giustizia sociale si manifesta con acutezza assumendo le forme del tumulto, della rivolta, dell'insurrezione e, più in generale, della lotta sociale, di classe o di ceto. Un punto di vista radicale, quello di Gori, che pone il problema sociologico dentro le concrete coordinate di un sociale quotidiano che si mostra pieno di contraddizioni, alienazioni e miserie, perciò politico, culturale ed economico al contempo; ma anche dentro una specularità tripolare tra essere, dire e fare, in grado di mostrare esattamente la provenienza effettiva dei problemi sociali in quanto tali ovvero le loro cause prime e i problemi ulteriori che queste cause prime non solo generano, ma istituzionalizzandosi e incarnandosi in funzionari esperti, solerti e attivi a tempo pieno, pretendono gestire e “curare” i “mali” da esse stesse prodotte. Gori sa bene con quali metodi, quali strumenti e quali risultati...

Santo Catanuto
(dall'introduzione alla ristampa del volume)

  1. «Criminalogia Moderna», il cui motto è “Contra Violentiam Ratio”, viene pubblicata a Buenos Aires dal novembre 1898 all'agosto 1900 per complessivi 20 numeri.
  2. Vittorio Emiliani, Gli Anarchici: vite di Cafiero, Costa, Malatesta, Cipriani, Gori, Berneri, Borghi, Milano, Bompiani, 1973 p. 160.



Docu-video/
L'affabulazione disincantata di Luigi Di Gianni

È stato pubblicato da pochi mesi il docu/video Luigi Di Gianni I Cinema dell'Essere, ideazione e regia Domenico Sabino (DVD con booklet - prefazione Gianfranca Ranisio, TheaterAus, 2015 € 10,00).
Luigi Di Gianni (Napoli 1926) è uno dei massimi registi e documentaristi, oltre che filosofo e antropologo. Definito «il filosofo della macchina da presa», il suo è un grande cinema, non scalfito dal tempo ma disseminato di essenze e suggestioni kafkiane.
Uno straordinario impatto antropologico, difatti, caratterizza i suoi film che esplorano nel nostro Meridione l'intreccio tra ritualità magico-religiosa e cattolicesimo, la fatica e la dignità del lavoro, la fragilità dell'uomo soggiogato dalla forza degli eventi.
Esordisce nel 1958 come documentarista/cineasta con Magia Lucana, con cui vince nello stesso anno il premio come migliore documentario alla XIX edizione del Festival di Venezia. Così egli stesso descrive i propri lavori: «Sicuramente possono rappresentare alcuni aspetti del mondo contadino filtrati attraverso una mia particolare sensibilità che mi porta a prediligere certe atmosfere tese e rarefatte alle cose “normali”, “naturalistiche”». Nella sua ricerca cinematografica estetica/estatica emergono una perfetta sintonia e un parallelismo culturale con Carl Theodor Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Josef von Sternberg, Dziga Vertov, Luis Buñuel, Franz Kafka, Albert Camus, Jean-Paul Sartre.
È un cinema di ricerca e di denuncia, come si evince dalle sue stesse parole: «Ho sempre provato amore per chi non può niente e si dibatte inutilmente contro un destino che lo sovrasta: è lo stesso amore che provo per i contadini della mia terra, dell'Italia meridionale, per gli oppressi in generale».
Accomunati dal tema dell'Essere dell'uomo al mondo e nel mondo, essi richiamano l'Esserci al mondo di Ernesto de Martino e l'Esserci davanti al mistero della morte, di derivazione heideggeriana. Il fil rouge è de/narrato dall'interpretazione di Antonella Morea di brani poetici tratti da opere di Hans Magnus Enzensberger, Amelia Rosselli e Domenico Sabino. In tal modo si crea un particolare connubio tra le immagini e le parole di Luigi Di Gianni e dell'attrice, in un percorso che attinge a una pluralità di idiomi e codici espressivi.
Il docu/video inquadra la personalità di Luigi Di Gianni, permette di ricostruirne le fasi della sua produzione e la sua concezione del cinema: un cinema che si esprime attraverso l'immagine. A questo scopo, anche le immagini che scorrono sullo schermo e che sono evocazioni del grande cinema d'autore, da Metropolis a L'Angelo azzurro, da La passione di Giovanna d'Arco a Il posto delle fragole, servono a dare supporto alla sua riflessione teorica. La video-scrittura è destrutturata e s'ispira alla Déconstruction di Jacques Derrida.
Luigi Di Gianni I Cinema dell'Essere è caratterizzato da un montaggio depistante come quando commistiona una sequenza di immagini tratte da alcuni film di Pasolini col film di Luigi Di Gianni Il tempo dell'inizio.

Luigi Di Gianni

Registi diametralmente agli antipodi per il loro modus operandi per ciò che concerne tematiche, tecniche di ripresa, inquadrature, riferimenti letterari, filmici e pittorici, montaggio, regia. Autori che, seppur percorrendo tragitti divergenti, nelle loro opere emerge una critica radicale e anticonformista rivolta a un pubblico borghese e benpensante che Guy Debord denominava “società dello spettacolo”. Elaborano nuovi linguaggi per il cinema col quale indagare (da antropologi e filosofi) la decadenza dei valori della società contemporanea postmoderna.
Spiazzamento che crea nello spettatore una percezione di straniamento e spaesamento ovvero una catarsi dai luoghi comuni del linguaggio filmico. Il docu/video, più adeguatamente il metadocu/video, si sviluppa dunque su più piani comunicativi – alternando un montaggio connotativo e discontinuo che ne esalta il ritmo – ciascuno con una propria autonomia espressivo-concettuale che dà vita a un excursus video-poetico alogico imperniato sul concetto di polisemia e polifonia, attuando la sperimentazione di linguaggi espressivi differenti che incrociano i brani dell'intervista con immagini filmiche e poetico-drammaturgiche.
Un lavoro non realistico questo di Sabino, ma un'opera aperta e dal senso perennemente sospeso. Inteso come arte metonimica per esprimere un «senso» più che dei significati come affermano Pasolini e Barthes. «Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire.
Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno»; asserisce Guy Debord e tale lavoro non si piega ai modelli della cultura/spettacolo - mercificata e industrializzata; anzi vuole essere un'utopica traccia (video), un Melting pot - riflessioni, immagini, musiche - imbastite con maestria attraverso l'affabulazione disincantata di Luigi Di Gianni contro la mediocrità che ci circonda!

Maria Vincenza Gabriele




Pisa/
Storie e personaggi del movimento operaio e dell'anarchismo popolare

I noti spunti metodologici di Ernesto Ragionieri sulla necessità di rifondare dal basso e alla periferia le storie delle classi subalterne non erano stati, in definitiva, messi proficuamente e subito a frutto. L'abbondante letteratura localistica dei decenni successivi alla guerra, spesso mera riduzione in scala di narrazioni generali, si era infatti dimostrata ripetitiva ancorché ideologica, vocata a svolgere funzioni “ancillari” nei confronti delle grandi sintesi nazionali e nulla più. Le prospettive sarebbero mutate invece con le prorompenti nuove sensibilità libertarie evidenziatesi negli anni della contestazione. Bisognava in tutti i modi superare la storiografia autoreferenziale dei partiti e quella tradizionale sulle élite politiche, si doveva andare oltre la dimensione statuale e nazionalistica ereditata dal fascismo e aprirsi finalmente agli approcci interdisciplinari, alla storia sociale.
Partire dal territorio e volare molto alti, nonostante tutto. Cercare le radici della storia del movimento operaio e sindacale nel “sovversivismo” autogestionario e nell'humus proletario otto-novecentesco. Andare alle fonti antropologiche della formazione delle cosiddette regioni “rosse”. Individuare le culture politiche e del lavoro analizzando i particolari mestieri locali; costruire, sulla base di nuove fonti, le biografie e le storie di vita di protagonisti misconosciuti... Ormai è certo: quella generazione di storici innovatori e anticonformisti, nati nel secondo dopoguerra e formatisi nel lungo Sessantotto, lascerà un segno tangibile del proprio disinteressato e generoso impegno. E il libro Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall'Unità d'Italia alla dittatura (a cura di Franco Bertolucci, Pisa, BFS Edizioni, 2016, pp. 272, € 20,00), che raccoglie scritti di Alessandro Marianelli (Pisa, 1952-2016) redatti negli anni Ottanta, ne costituisce una fulgida testimonianza. Per l'opera e le intuizioni metodologiche e di ricerca di questo studioso così vivace e promettente, che poi si è dedicato all'insegnamento nelle scuole, rimane però non solo il rimpianto per la prematura scomparsa, ma anche l'amarezza per la mancata valorizzazione coeva, in ambito accademico, del suo lavoro scientifico (fenomeno questo tutto ascrivibile alla cialtroneria congenita del sistema universitario italiano).
Gli articoli e i saggi che compongono la raccolta riguardano: il movimento operaio e socialista a Pisa dalle origini al periodo giolittiano e quindi fino all'avvento della dittatura fascista; le culture sovversive a cavallo dei due secoli; le vicende della Camera del lavoro cittadina che si intersecano in modo indissolubile con quelle, altrettanto avvincenti, dell'anarchismo popolare. In appendice c'è una bella scheda biografica dedicata al segretario camerale Virgilio Salvatore Mazzoni, direttore fra l'altro de “L'Avvenire anarchico”. A seguire: la prima corposa ricerca condotta dallo studioso sui lavoratori del vetro in Italia; documenti e testimonianze sulla fondazione del PCd'I in provincia di Pisa; “...Avanti siam ribelli...”, testo per una mostra di grande impatto dedicata all'anarchismo locale; ed infine un originale saggio sull'esponente socialista Giuseppe Emanuele Modigliani e sulla sua misconosciuta attività sindacale tra i vetrai.
Il volume si fa apprezzare anche per la riproduzione suggestiva di documenti d'archivio, per l'editing raffinato e per i contributi, redatti da vari amici, che introducono o seguono i testi di Marianelli. Gianfranco Francese, segretario generale della CGIL pisana e prefatore, ci richiama – nel centoventesimo di fondazione della locale Camera del lavoro – la centralità identitaria dei temi trattati nel libro, mentre ricorda il rapporto di collaborazione dell'autore con il sindacato. Maurizio Antonioli inquadra invece, con efficacia, il panorama storiografico di contesto indicando i “maestri” che, seppure in modi differenziati, hanno in un certo senso ispirato e contribuito a quella svolta epocale: Stefano Merli soprattutto, poi Idomeneo Barbadoro, Adolfo Pepe, Lorenzo Gestri storico “raffinato, ancorché eccessivamente appartato”, mentore di Marianelli. Ma anche Antonioli, aggiungiamo noi. Franco Bertolucci, curatore del libro e amico fraterno dell'autore scomparso ne traccia un profilo biografico e scientifico di grande suggestione (Messaggero di Clio), documentato e ricco di spunti. Dunque la città tirrenica è il luogo topico dei due “bienni rossi” novecenteschi.
A chiudere Due ricordi di Sandro da parte di altri amici di vecchia data: Fabrizio Boldrini e Renato Bacconi. Emozioni e passioni che non si cancellano, per la storia e per la politica. “Quando altri mestieri si aprirono nelle vite di ognuno di noi, con Sandro, così come discutevamo del movimento operaio all'epoca dei nostri studi, continuammo a discutere di altre cose [...] come se da quelle discussioni dovessero definirsi le sorti del mondo, come quando eravamo giovani e questo lo credevamo veramente”.

Giorgio Sacchetti




Bambine e bambini/
Contro le armi-giocattolo (e altri temi)

In questo numero XIII/2 del 2014 di Genesis, rivista della Società Italiana delle Storiche, dal titolo Bambine e bambini nel tempo (Viella, Roma, 2014, pp. 204, e 26,00) l'argomento proposto per la ricerca intendeva: “esplorare il tema della costruzione sociale del genere, nelle culture per/dell'infanzia in un'ottica interdisciplinare, su un arco cronologico lungo, privilegiando la prospettiva del gioco, del giocattolo e loro uso, e della letteratura per l'infanzia”.
Tuttavia, come sottolineato nell'introduzione a cura di Stefania Bernini e Adelisa Malena, i contributi pervenuti riflettono lo stato attuale della ricerca: quattro saggi su cinque trattano di letteratura e di cinema, si concentrano pertanto su modelli pedagogici. Dunque, costruzioni e produzioni culturali elaborate dagli adulti e destinate all'infanzia lasciano nell'ombra bambine e bambini come soggetti attivi. Comunque, in due contributi viene messa in discussione la tesi di Mary Jo Maynes sulla maggior difficoltà a udire la voce delle bambine rispetto a quelle dei bambini. Nel saggio di Pia Schmid “Bambini e bambine modello. Pietà infantile e costruzioni di genere nelle raccolte pietiste di vite esemplari” le bambine pie in età moderna sono rappresentate in modo significativo, e riconosciuta una potenziale forza della loro voce. Così come nel contributo di Dorena Caroli “Bambine, bambini e animali parlanti nei racconti di Eduard Uspenskij per l'ultima generazione sovietica”, le bambine protagoniste dei racconti dello scrittore sovietico hanno una voce più forte e un più marcato ruolo sociale.
Diverso, invece, il contributo di Iuri Meda “Non giocate col fuoco. L'infanzia italiana, la ridefinizione dell'identità di genere maschile e la campagna per il disarmo del giocattolo (1946-1956)”. L'autore inquadra il giocattolo nel contesto sociale ed economico che lo ha visto trasformarsi, nel corso del XX secolo, da prodotto artigianale a prodotto industriale all'interno della distribuzione di massa. Proprio la produzione su vasta scala ne avrebbe consentito la strumentalizzazione ideologica. Emblematico il caso del regime fascista e del contestuale processo di militarizzazione dell'immaginario infantile, nonché l'acquisizione del consenso all'interno della società.
Il fascismo impone il proprio modello di genere fondato sulla virilità, prestanza fisica, attitudine alla lotta autorizzando il gioco della guerra.
L'arma-giocattolo si carica di un forte significato simbolico non solo durante il fascismo e la guerra totale, ma anche in seguito alla disfatta militare.
Nel dopoguerra, si apre il dibattito. A partire dal '46, la stampa pubblica articoli in cui si stigmatizza la violenza di giochi in voga per bambini. Le prime iniziative nel '48, promosse dalla Croce rossa italiana giovanile e nel '49 dall' Associazione nazionale madri unite per la pace. Le organizzazioni pacifiste femminili tentano la diffusione di un nuovo modello di genere maschile, per uniformare l'infanzia ai nuovi valori democratici e al ripudio della guerra.
Anche in questo caso, la lotta contro le armi giocattolo assume un valore simbolico.
Prese di posizione da parte di organizzazioni con orientamento politico diverso e boicottaggi pure nella scuola, per una “Campagna Santa Lucia senza armi” che si protrarrà fino al '68, e cartoncini di auguri natalizi con la scritta “non regalate giocattoli di guerra”.
Nel '50, la giornalista Eugenia Garulli intraprende un'agguerrita campagna di stampa per la riconversione dell'industria ludo-bellica, al fine di sensibilizzare i produttori.
Di risposta, le associazioni di categoria difendono gli interessi economici delle ditte italiane. L'Associazione nazionale fabbricanti di giocattoli affida a Emilio Ceretti, fondatore nel 1936 dell'Editrice Giochi, la redazione di un editoriale per il proprio organo di stampa. Il giornalista difende la categoria dei fabbricanti, in quanto avrebbero sviluppato i propri prodotti sulla base della domanda. La sua tesi: non sono le armi giocattolo a indurre alla guerra, ma l'impressione destata dalla guerra. È ipocrisia credere che i bambini non giochino più con “giocattoli guerreschi” quando, in piena guerra fredda, gli adulti continuano a fare la guerra. Si chiede se forse la campagna non rispondesse più alle esigenze dell'adulto che a quelle dell'infanzia. Inoltre, individuerebbe nell'ostilità verso i giocattoli di guerra un tentativo di rimozione collettiva dell' influenza inconsciamente esercitata a livello sociale dalla devastante sconfitta subita nella Seconda guerra.
Si tratterebbe, pertanto, di una campagna ideologica indifferente agli studi scientifici che attribuirebbero una naturale presenza di istinto aggressivo nei bambini, sfogato a volte intraprendendo giochi di guerra, ma che costituirebbe un gradino nella normale crescita evolutiva.
Comunque, ancora nel 1957 per evitare la polemica, ditte specializzate, tra le quali la Molgora, nei cataloghi definivano le armi giocattolo prodotti semplicemente “giochi meccanici” oppure “giochi del West”.
Se la ricerca di Iuri Meda ha il merito di considerare la storia del giocattolo, non tanto in sé, quanto come “una concrezione materiale di pratiche sociali e culturali”, viene sottolineata l'assenza di bambini e bambine come soggetti attivi, in cui il gioco si configuri come spazio di destrutturazione e ristrutturazione all'interno di relazioni affettive o immaginate.
In contrasto con la presunta marginalità delle bambine e dei bambini rispetto alla sfera pubblica, i saggi tuttavia dimostrano e confermano che l'infanzia è al centro di preoccupazioni politiche e sociali forti, testimoniate dal tentativo di trasmettere modelli di comportamento e valori integrati in progetti politici di vasta portata. La ricerca ha il merito di aver proposto e saputo affrontare temi non frequentati e sollecitato ulteriori contesti di approfondimento, contribuendo a dare voce a protagonisti rimasti troppo a lungo ai margini della storia. Inoltre, la scelta di indagare la categoria stessa dell'infanzia - variabile a seconda dei contesti disciplinari, geografici, storici, culturali nell'intersezione con il genere - e l'età stessa, considerata come sistema di rapporti di potere, contribuisce a cambiare il modo di leggere la storia.
La storia dell' infanzia si dimostra pertanto un terreno fluido, nell'ambito di una nuova storia sociale, in grado di amplificare i problemi metodologici della storia dal basso e della storia delle classi subalterne.

Claudia Piccinelli