Racial profiling Il pregiudizio implicito
Meglio non avere la pelle nera né appartenere a un'altra minoranza. Se poi sei un nativo, come la Comanche Christina...
“They get away with murder”
“Uccidono e la fanno franca”
(Una signora qualsiasi, durante la presentazione di un libro,
parlando della polizia)
Il copione, ogni volta, è lo stesso: per la strada un
uomo, forse un ragazzo, sta facendo qualcosa. Non importa cosa:
cammina, corre, si appoggia a una recinzione, esce da un negozio
o vi entra. Ad un passante, uno qualsiasi, il comportamento
di quell'uomo sembra sospetto. Una telefonata e la polizia arriva
in fretta. Il sospetto è disarmato, innocuo, forse non
ha fatto nulla di male, non si sa, ma non ha importanza: ha
la pelle nera e poco dopo il suo cadavere è riverso sul
marciapiede. Giornali e TV riportano la notizia, qua e là
la gente protesta, più o meno pacificamente, ma in genere
i responsabili se la cavano, senza neanche subire un processo.
Da quando vivo negli States è accaduto già molte
volte. Accadeva anche prima, certo, ma non mi feriva allo stesso
modo. Forse quelle notizie lontane mi servivano soprattutto
per raffozare certe mie convinzioni. Ora è diverso: le
vittime adesso mi sono familiari, vivono qui, attorno a me.
Sono i vicini che incontro in ascensore al mattino e alla sera,
qualcuno gioviale e allegro, qualcun altro schivo e silenzioso.
Sono i bambini che vedo nel parco giochi al pomeriggio. Sono
uomini e donne che incontro nei miei vagabondaggi per il quartiere.
È la signora un po' matta della porta accanto che se
ne va a spasso con un cane dallo sguardo acido; la vecchietta
arcigna dal volto scurissimo, col cappello e il bastone di due
porte più in là. È la famiglia accampata
nell'appartamentino accanto all'ascensore, che non si capisce
mai quante persone ospiti. È Janet, che mi racconta del
Bronx in cui è cresciuta e di Harlem che ama, che vive
all'ottavo piano e va avanti e indietro caparbiamente sulla
sua sedia a rotelle elettrica. È Khaled, che pulisce
le scale o Jonathan coi capelli a fungo e le cuffiette sempre
nelle orecchie.
Sono tutti loro, perché chiunque abbia la pelle scura
è una vittima potenziale, basta trovarsi al posto sbagliato
nel momento sbagliato. Sono loro perché, se lo chiedi,
scoprirai che almeno una volta, nella vita, un sopruso dalle
forze dell'ordine l'hanno subito tutti.
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Lawton, Oklahoma (USA) - Per non dimenticare Christina Tah-Hah-Wah, giovane Comanche uccisa dalla polizia nel novembre 2014 |
Notizie prese dalla cronaca
I carnefici non hanno espressioni diaboliche, hanno piuttosto
facce banali, talvolta annoiate, magari anche allegre. I corpi
sono avvolti nelle divise blu, hanno molti ritrovati della tecnologia
della repressione alla cintura e neanche lo sanno di essere
potenziali assassini, ma hanno lo sguardo serio, il grilletto
facile e la legge sempre dalla loro parte, buona quindi anche
per pulirsi la coscienza.
Il destino gioca brutti scherzi e può metterne uno sui
tuoi passi, colpire un uomo un po' fuori di testa, come ce ne
sono tanti in giro, o aggredire un ragazzo che torna verso casa
dopo una sosta al negozietto all'angolo per comprare le patatine.
Oppure può presentarsi nelle vesti di un uomo ansioso,
che si spaventa e non ragiona, quando al parco vede un bambino
seduto sull'altalena che punta in giro la sua pistola giocattolo
e tuona: “Bang, bang”, come in una vecchia canzone,
come facevo io da piccolo, con le riproduzioni della Colt 45
che mi comprava mia madre alla Standa vicino casa. L'uomo chiama
la polizia e una giornata normale si trasforma in tragedia.
Nessuna invenzione letteraria, sono notizie prese dalla cronaca
di questi anni, compresa quella che riguarda lo stupido destino
di Tamir Rice, dodicenne di Cleveland, Ohio, che faceva bang
con la sua pistola giocattolo e hanno fatto bang anche
due poliziotti accorsi sul posto e lui è morto in questo
modo assurdo. Era il 22 novembre 2014 e i filmati delle telecamere
di sicurezza mostrano come, fra l'arrivo della volante e gli
spari, siano trascorsi appena due secondi; insomma, non è
che si siano dati pena di verificare la situazione e io, ancora
oggi, mi chiedo come trascorra le notti l'uomo che telefonò
alla polizia quel pomeriggio e come siano gli incubi degli agenti
che hanno sparato. Saranno divorati dal rimorso o tranquilli
nella certezza di aver fatto, ciascuno, solo il proprio dovere?
Impossibile saperlo. Quel che so per certo è che, un
anno dopo, l'inchiesta è stata archiviata e non ci sarà
nessun processo, nessuna giustizia per Tamir. Una giuria, sapientemente
guidata dal Public Prosecutor, ha deciso che il comportamento
della polizia era stato: “Ragionevole, date le circostanze”.
Così vanno le cose: ad assolvere la polizia ci pensa,
quasi sempre, una giuria popolare, prevista dalla Costituzione,
composta da cittadini qualsiasi, nominati per decidere se gli
accusati debbano affrontare un processo. Nell'idea dei costituzionalisti
americani il Grand Jury voleva essere una garanzia contro
gli abusi del potere1, ma fra
pregiudizi e intrighi le cose finiscono per ribaltarsi e le
vittime sono doppiamente beffate: è il potere ad essere
assolto. La comunità afroamericana denuncia da tempo
queste giurie, costituite in prevalenza da bianchi benestanti
che hanno scarsa simpatia per i neri e per i poveri, considerati
in genere responsabili del loro destino sballato. In fondo le
forze dell'ordine proteggono i loro averi e la loro vita comoda.
Ma perché la polizia ha il grilletto facile? Seth Stoughton,
ex poliziotto, ora professore di legge all'università
della Carolina del Sud, chiarisce: “La prima consegna
di un poliziotto è tornare a casa vivo alla fine del
turno, il training ruota intorno a questo concetto e
forma nelle reclute una cultura guerriera che finisce per mettere
a repentaglio la vita dei cittadini, anziché garantirne
la sicurezza”.
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Manifestazioni del movimento Black Lives Matter (USA) - Ad ogni nuovo caso di afroamericano disarmato ucciso dalla polizia, le piazze si accendono. Sopra: il cartello ricorda la disperata fine di Eric Garner, soffocato da un poliziotto |
Ma gli assassini in divisa se la cavano
C'è però un altro elemento, di cui il professore
non parla, il cosiddetto racial profiling. Le autorità
negano che tale pratica venga utilizzata ma secondo l'ACLU,2
l'Unione Americana per le Libertà Civili, viene messa
in atto ogni giorno contro persone di colore e minoranze varie,
con pratiche umilianti tese a incutere timore, arrestando, interrogando
e perquisendo persone che non hanno commesso alcun reato ma
vengono individuate sulla base della loro presunta appartenenza
etnica o religiosa. Secondo questi attivisti: “Dopo oltre
240 anni di schiavismo e 90 di segregazione razziale assistiamo,
ancora oggi, alla sistematica applicazione del racial profiling
nei confronti degli afroamericani. Dall'11 settembre 2001 la
pratica è stata estesa agli arabi di religione islamica
e ai cittadini provenienti dall'Asia meridionale, mentre i raid
contro gli immigrati organizzati dal governo federale colpiscono
soprattutto le comunità latinoamericane”.
Le statistiche confermano: gli afroamericani costituiscono solo
il 14% della popolazione ma sono il 26% delle vittime di sparatorie
in cui è coinvolta la polizia.3
Lorie Fridell, professoressa di criminologia all'università
della Florida del Sud, attribuisce questa tendenza al cosiddetto
Implicit bias, il pregiudizio implicito, che ci fa avvertire
maggior pericolo quando incontriamo persone che, a causa dei
nostri schemi mentali, avvertiamo come “pericolose”,
rispetto ad altre che ci appaiono “rassicuranti”.
Gli studi in materia dimostrerebbero che tutti tendiamo, spesso
inavvertitamente, ad applicare il pregiudizio implicito. La
Fridell giustifica in parte questo atteggiamento: “Gli
stereotipi sono basati anche sui fatti. Bisogna riconoscere
che in questo paese le persone di colore sono rappresentate
in misura sproporzionata nella criminalità comune”.
Ma la Fridell, che ha lavorato per la polizia come ricercatrice,
omette di ricordare che le persone di colore sono anche fortemente
rappresentate fra gli emarginati, dimenticando di sottolineare
il nesso tra povertà e criminalità. In ogni caso
il pregiudizio implicito non può certo costituire un
alibi per giustificare l'omicidio. Eppure gli assassini con
la divisa se la cavano.
“They get away with murder”, disse una signora durante
la presentazione di un libro. Era una signora anziana, piccola,
fragile, una delle tante persone che si confondono nella folla
magmatica di questa metropoli. Il tono era pacato, denunciava
un carattere gentile e riservato. Mi parve che dietro quell'affermazione
ci fosse la tristezza di chi si è sentito tradito nelle
certezze in cui è cresciuto. Credo che nella sua voce
ci fosse anche indignazione: They get away with murder,
uccidono e la fanno franca.
Di sicuro sono indignati gli afroamericani. Cresce e si diffonde,
infatti, Black Lives Matter.4
Il fortunato ashtag, lanciato nel 2012 a seguito della scandalosa
assoluzione di George Zimmermann, il “vigilante”
che assassinò in Florida il giovane Trayvon Martin, oggi
non è più solo uno slogan ma si è trasformato
in un movimento che si propone addirittura l'ambizioso obiettivo
di far rivivere il “Black Liberation Movement”.
È difficile prevederne gli sviluppi, ma è un segnale
di speranza e comunque quello slogan è diventato un simbolo
nazionale, vero e proprio atto di accusa e quelle tre piccole
parole incomberanno nel dibattito pubblico negli anni a venire.
Naturalmente c'è anche chi difende a spada tratta l'operato
della polizia. Dai politici ai semplici cittadini, sono in molti,
forse la maggioranza, a ritenere che ogni attacco verso chi
difende la nostra sicurezza quotidiana sia da respingere con
sdegno. “Se la polizia spara un motivo valido c'è
sempre”, mi disse un giorno una collega, con disarmante
ingenuità. Quando, nel dicembre 2014, in un periodo infuocato
dalle polemiche per la morte di Eric Garner5,
due poliziotti qualsiasi di New York furono attirati in un tranello
e vilmente assassinati, ne nacquero veglie e proteste che sfociarono
nella creazione di un'associazione pro-polizia polemicamente
chiamata: “Blue Lives Matter”6,
dove il blu si riferisce al colore delle divise. Sostenitore
appassionato di questa iniziativa è proprio George Zimmerman,
l'assassino di Trayvon Martin, che ha sempre difeso il proprio
operato e continuato un'oscena polemica a distanza con la famiglia
del ragazzo da lui trucidato. Nel maggio 2016 Zimmerman ha messo
all'asta l'arma del delitto, definendola una: “American
Firearm Icon”, suscitando un'ondata di indignazione
che non è servita a farlo desistere. Il ricavato della
vendita è stato destinato proprio a combattere le attività
di Black Lives Matter e di tutti quei movimenti che si
oppongono alla diffusione delle armi.
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New York (USA) - Avviso di taglia. La città nel 2016 come il West nell'Ottocento |
Non si conosce nemmeno il nome
Qui a New York c'è anche chi ha messo a disposizione una taglia di 10.000 dollari per chiunque offra informazioni che portino all'identificazione di persone che abbiano aperto il fuoco contro la polizia. Quando ho visto l'avviso per la prima volta, affisso con regolare licenza al vetro di una cabina telefonica, mi sono sentito trasportato in un film di John Ford, come se invece che nella New York degli anni duemila abitassi nella Tucson dell'Ottocento.
“Con gli americani, sotto sotto, c'è sempre un
po' il Western, anche nei manicomi riescono a metteci gli indiani”.
Così ironizzava Giorgio Gaber in uno spettacolo del 1976,
riferendosi a “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.7
Una realtà poco nota sembra confermare quelle parole:
sebbene i riflettori siano generalmente puntati sulla violenza
istituzionale nei confronti dei neri, dagli studi emerge che
il gruppo etnico maggiormente vittima della polizia sono i cosiddetti
indiani americani, i nativi. Una ricerca pubblicata dai Lakota
mostra che le nazioni amerindie, che rappresentano solo lo 0,8%
della popolazione, sono il 2% delle vittime del fuoco della
polizia e hanno 6 volte maggiori probabilità di essere
arrestati rispetto ai bianchi, cosicché rappresentano
la popolazione carceraria proporzionalmente più numerosa
degli Stati Uniti.
Colpito da questo dato, ho voluto approfondire, trovando molte storie di uomini, donne e bambini nativi uccisi in circostanze orribili dalla polizia. Mi ha particolarmente commosso la storia di Christina Tah-Hah-Wah, giovane donna Comanche affetta da disturbo bipolare. Durante una crisi acuta la famiglia ha chiesto aiuto ai servizi d'emergenza, ma anziché portata in ospedale la ragazza è stata sbattuta in una cella, dove è stata trovata morta meno di 24 ore dopo. Secondo la testimonianza degli altri detenuti Christina fu ripetutamente colpita col taser per essersi rifiutata di smettere di intonare i canti tradizionali della nazione Comanche.
Tristemente, dei nativi assassinati dalle forze dell'ordine in genere non si conosce neanche il nome. Non sono casi che assurgono agli onori della cronaca, nessuno si preoccupa di imbastire casi giudiziari, organizzare manifestazioni. I Lakota hanno provato a lanciare lo slogan: “Native Lives Matter”, ma senza successo e per il momento non sembra che vi sia collaborazione fra gruppi scollegati fra loro ma che soffrono lo stesso tipo di persecuzione.
In fondo gli indiani sono ancora, in maggioranza, chiusi nelle riserve, fra povertà e squallore e la loro morte non fa storia, neanche quando a sparare è la polizia. They get away with murder, direbbe quella signora, se leggesse questa storia.
Santo Barezini
Note
- L'istituzione è stata diffusa in tutto il mondo anglosassone
ma adottata anche da altri paesi, come la Francia. Oggi solo
gli USA e la Liberia continuano ad avere il Grand Jury.
- American Civil Liberties Union - aclu.org.
- Dati disponibili ad esempio nel sito thefreethoughtproject.com.
- blacklivesmatter.com.
- L'uomo, con gravi problemi respiratori, fu stretto a lungo
da un poliziotto in una presa soffocante. Prima di spirare
ripetè 14 volte: “I can't breathe” (non
riesco a respirare). Il caso fece scalpore per un filmato
della scena diffuso sul web.
- bluelivesmatternyc.org.
- Il noto film con Jack Nicholson diretto da Milos Forman.
Lo spettacolo era: “Libertà obbligatoria”.
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