dossier Bookchin
Per una società ecologica
scritti di Murray Bookchin, Ermanno Castanò, Luca Lapolla, Giorgio Nebbia, Salvo Vaccaro
Egrave; il titolo del volume di Murray Bookchin, padre dell'ecologia sociale, che Elèuthera ha da poco ristampato, quasi vent'anni dopo la prima edizione. Per noi, l'occasione per approfondire in questo dossier l'attualità di uno dei pensatori più innovativi e stimolanti dell'anarchismo, prima della sua rottura finale con l'anarchismo stesso.
Uno stimolatore di
riflessioni
di Salvo Vaccaro
La recente riscoperta curda del municipalismo
libertario ha rianimato il dibattito sul valore teorico e pratico
dell'ultima proposta bookchiniana per dare concretezza e progettualità
all'anarchismo. Una riflessione al contempo stimolante e contraddittoria.
Con la quale, comunque, è necessario fare i conti.
Murray Bookchin è stato un intellettuale-militante del
XX secolo, attraversando numerosi conflitti sociali e politici,
mutando sensibilità ideologiche, maturando una posizione
teorica di notevole segno libertario, inaugurando un filone
di ricerca ambientale e urbanistica di grande spessore. E tuttavia
la recente riscoperta di Bookchin in Europa la si deve a qualche
paradosso curioso cui la storia spesso ci abitua. Un mancato
incontro, una lettura attenta della sua opera in cui risaltano
vistosamente le assenze di citazioni, uno slogan che traduce
la celebre formula del municipalismo libertario in confederalismo
democratico – il che non sarebbe la stessa cosa.
Mi riferisco, come è ovvio, all'esperimento in Rojava
in cui le best practices evocate negli scritti di Bookchin
sono testate sul campo e adattate nonostante circostanze avverse
e non certo idonee per esperienze innovative sul piano politico,
partecipativo, sociale e persino istituzionale. «La richiesta
di uno stato curdo indipendente è stata sostituita dal
rifiuto dello stato in quanto tale per abbracciare il principio
del confederalismo democratico, fondato su una sintesi delle
idee dell'anarchico ed ecologista sociale americano Murray Bookchin
e di altri autori con la tradizione curda nonché con
esperimenti di ampia portata tipici della pragmatica organizzazione
rivoluzionaria»1.
Öcalan e Bookchin non si sono mai incontrati né,
a quanto sembra, esiste un carteggio reale, al di là
di uno scambio di lettere tra maggio e l'estate del 2004; Öcalan
ha approfittato della presenza culturale di Bookchin in Turchia,
e quindi della disponibilità di alcune sue opere in traduzione
turca, per leggere avidamente e tradurre a suo modo la proposta
di municipalismo libertario, cambiando definizione e ponendola
come pietra miliare per i suoi seguaci, ancora oggi animati
da un culto della personalità leggermente fuori registro
per libertari e anarchici. Ma comunque senza mai citare direttamente
una sola frase di Bookchin, se leggiamo gli scritti in carcere
di Öcalan disponibili in lingua inglese o italiana. Qualcosa
potrebbe essermi sfuggita, però.
Elementi di autogoverno in senso orizzontale
La proposta di Bookchin del municipalismo libertario rappresenta
una strategia politica tesa a uscire dalla stagnazione di uno
stile antagonista del fare politica collettivamente, che sistematicamente
respinge ogni ipotesi di autogoverno se prima non si avvera
l'evento rivoluzionario. Ma tale evento può divenire
praticabile solo se i suoi protagonisti, oltre a combattere
contro i sistemi di dominio, si rendano capaci, si allenino,
comincino sin da subito a praticare elementi di autogoverno
dei territori in senso orizzontale e partecipativo, offrendosi
quindi come proposta politica non riformista nel senso grezzamente
parlamentare, ma nemmeno puramente (e falsamente) esterna e
estranea ad ogni lotta politica e sociale che abbia al proprio
centro l'autogestione conflittuale del fatto politico, della
convivenza politica su un dato territorio. E questa porzione
di territorio Bookchin la individua nel microcosmo della città
e delle sue istituzioni fortemente permeabili a modi di essere
condotte diversamente.
Là dove il rapporto tra governanti e governati è
più prossimo fisicamente, diviene possibile erodere la
verticalità condizionando il potere politico con un controllo
dal basso o addirittura con un autogoverno dal basso. «Egli
distingue la statualità, entro la quale gli individui
hanno una ridotta influenza sulle questioni politiche dati i
limiti del governo rappresentativo, dalla politica in
cui i cittadini hanno un controllo diretto e partecipativo sui
loro governi e comuni»2.
Certo, Bookchin ha in mente le piccole città del suo
Vermont, un paese del New England statunitense in cui i nessi
tra potere centrale e poteri decentrati sono molto laschi, in
cui non esiste alcuna figura riconducibile a quella del nostrano
Prefetto, alto rappresentante del governo sul territorio locale,
in cui gli echi di Washington arrivano deboli, in cui quotidianamente
contano cose concrete piuttosto che le strategie dell'establishment
finanziario di Wall Street o delle lobbies politiche-affariste-militari
del Pentagono.
Bookchin tuttavia non arriva a tale proposta solo per épater
(meravigliare, ndr) la sonnolenta coscienza di una prassi
libertaria spesso avvitata su se stessa, appagata del proprio
percorso storico, compiaciuta di una sua pretesa purezza e incontaminatezza
dalle porcherie della politica politicante. No, Bookchin vi
arriva anche attraverso una ricognizione storica e urbanistica
della nascita della città, della formazione del municipio
italiano in epoca post-medievale e rinascimentale, sapendo cogliere
con estrema finezza analitica i punti forti di una gestione
collettiva del territorio da parte di segmenti sempre più
consistenti di persone coinvolte in prima persona e autorganizzate
in gilde, reti consortili e altre forme sperimentali in cui
la politica di autogoverno si distanzia mille anni luce dai
giochi del potere per il mero potere.
Il municipalismo libertario non è solo una palestra di
pratiche libertarie in conflitto con istituzioni accentrate,
con partiti politici tradizionali, con formazioni sovrane extra-politiche
come le imprese del capitale. È anche il terreno di conflitto
da cui muovere verso una trasformazione qualitativa dell'esistenza
che, in una parte ben precisa del mondo occidentale, ha abbandonato
il fulcro centrale dell'industria operaia per ridislocarsi a
tutto campo sul territorio in senso lato, e non solo nella ristretta
configurazione dell'ente locale.
Infatti Bookchin analizza il territorio sotto molteplici aspetti,
primo dei quali quello ambientale, individuando innanzitutto
nel mito politico ed economico della scarsità
il perno dello sfruttamento del pianeta da parte di formazioni
dominanti. Solo abbandonando questo falso paradigma antropico,
così come fecero Clastres e Sahlins su registri etnografici,
possiamo comprendere la giusta misura dell'impronta umana sulla
terra, la prima delle quali è la cifra del dominio dell'umano
sull'umano.
Contro il primitivismo, per un anarchismo sociale
L'ecologia della libertà non è perciò
solo il titolo del suo testo più celebre, non è
solo il manifesto di un nuovo ambientalismo radicale, ma è
l'exemplum del nesso tra ambiente e libertà declinato
virtuosamente in senso dialettico, come rovesciamento quindi
dei rapporti di dominio e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo
(e sulla donna) che sono alla radice delle questioni più
strettamente ecologiche e ambientaliste. Un rovesciamento che
si fonda su uno sforzo critico in cui l'analisi del presente
tiene conto del reale non come esso è,
bensì come potrebbe divenire.
Ecco l'impatto della sua posizione anarchica maturata nel corso
di decenni in cui il suo pensiero non solo evolve, come è
naturale per chiunque, ma delinea stratificazione sopra stratificazione,
spiazzamento dopo spiazzamento, una cornice teorica anarchica
al cui interno ricollocare, in modo rielaborato, i principali
assi filosofici del '900, primo tra tutti la Teoria critica
della famosa Scuola di Francoforte declinata in senso libertario
e non solo marxista (ambito teorico da cui pur proveniva il
giovane Bookchin, da ragazzo stalinista e trotzkista come tutti
i marxisti degli anni '30 e '40).
È il dominio politico alla radice di ogni sfruttamento
mondano, dall'estrazione del plusvalore al degrado del clima
della terra, dalla discriminazione di genere alla militarizzazione
delle relazioni sociali, e questa chiara rivendicazione anarchica
viene diffusa da Bookchin a sfere sempre più allargate
dell'esistenza quotidiana, arricchita da un profondo respiro
di segno storico che lungo i secoli della modernità insegue
tenacemente le avventure della libertà contro l'ipoteca
del dominio. Sono queste avventure concrete, storiche, legate
a territori, legate a istituzioni politiche innovative, legate
a dimensioni culturali per nulla etichettabili come anarchiche
perché ante litteram, ma comunque votate alla
ricerca di una libertà radicale, a segnare l'approccio
teorico di Bookchin.
Un respiro spesso denotato da una vena polemica fortemente vissuta
anche verso i propri compagni più stretti, sino a sfidare
la tolleranza verso posizioni di pensiero non sempre condivisibili,
a maggior ragione allorquando la polemica si insinua dentro
le fila dei libertari e degli anarchici.
Uno degli ultimi pamphlet di Bookchin ha fatto molto
discutere in ambiente anglo-sassone, aprendo una spaccatura
analitica e politica che addirittura sospinse Bookchin ad allontanarsi
dal movimento anarchico, poco prima di morire nel 2006 all'età
di 85 anni3. Mi riferisco al
testo Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: an Unbridgeable
Chasm, pubblicato nel 1995.
Qui Bookchin attacca, talvolta in modo virulento come del resto
praticano i suoi interlocutori, una esasperazione dell'individualismo
anarchico quando esso si contrappone all'anarchismo sociale
in cui l'elemento della pluralità collettiva della vita
associata assume il ruolo di baricentro per ogni agire anarchico
e libertario. Solo in tale condizione diviene possibile parlare
di libertà – costitutivamente plurale -, laddove
nella tipica postura individualista di derivazione liberale
è l'autonomia a rivestire i panni principali del singolo
individuo, tutto proteso a sé, alla propria autoformazione,
alla propria pretesa di impermeabilità rispetto ad ogni
penetrazione del potere nella sua identità. Bookchin
non intende solo l'individualismo di fin de siècle
che tanto sconquassò le fila del movimento anarchico
a cavallo del secondo millennio, ma è inquieto di fronte
alla risorgenza del primitivismo anticulturale, al rifiuto di
ogni tecnologia umana, all'insurrezionalismo caotico e irrazionale,
come lo definisce, in cui mettere assieme John Zerzan e Hakim
Bey.
L'anarchismo come forma-di-vita, non solo pensiero e azione
Ai fini della trasformazione rivoluzionaria della società,
tali posizioni vanno fermamente condannate perché distolgono
forze e menti dall'agire entro le sfere della società
per sincronizzarne un mutamento qualitativo di segno libertario,
mentre l'arroccamento a sé dell'individualismo estetizzante
significa un pericoloso allontanamento dall'obiettivo strategico
della rivoluzione, per esaltare di contro il momento per il
momento dell'atto ribelle, del beau geste esemplare e
isolato, fine a se stesso, spesso incompreso se non da coloro
che sono già sintonizzati sulla medesima onda del codice
simbolico.
Bookchin sembra cogliere una forte pressione del neoliberalismo
governamentale di oggi a estirpare del tutto ogni esperienza
plurale e collettiva per esaltare e valorizzare al massimo il
singolo individuo che può tutto perché è
l'attore prioritario del contemporaneo, un attore che, come
dice lo stesso termine, mette in scena liberamente se stesso
tanto se conforme al sistema imperante, quanto se difforme,
pur di stagliarsi come singolo di fronte ad una società
che non esiste in quanto tale (Maggie Thatcher docet),
ma solo se intesa come società di individui, singoli
e liberi per definizione liberale e libertaria insieme.
È ovvio che per un anarchismo sociale di segno rivoluzionario,
al cui interno attivare tattiche politiche quali il municipalismo
libertario che obbliga l'anarchismo a misurarsi sulla gestione
contraddittoria dell'autogoverno locale, esattamente come contraddittoria
fu l'esperienza rivoluzionaria del 1936 in Spagna, l'individuo
in sé è un'astrazione fittizia se pretesa incontaminata
e pura da ogni forma di penetrazione del potere nel microcosmo
della quotidianità. La sfida rivoluzionaria è
giusto quella di accelerare in direzione libertaria un movimento
di trasformazione collettiva che attraversa inesorabilmente
ogni configurazione societaria, sempre dinamica e sempre in
procinto di biforcarsi verso gli esiti più disparati,
tanto reazionari quanto rivoluzionari.
Emancipazione dall'autorità costituita e autogoverno
Al contempo, però, Bookchin sembra non cogliere la grande
valenza scardinante di un anarchismo che non è solo pensiero
e azione, ma si fa vita, stile di vita non solo in senso estetizzante,
ma che anzi assume la forma della vita stessa come agire rivoluzionario,
come pensiero e azione sovversivo. Da Landauer a Foucault, lo
stile di vita non è una astrazione estetica, bensì
la precisa volontà singolare di legarsi collettivamente
alla dimensione plurale attraverso una cura di sé che
funge da collante con altri sé, al fine di modellare
una condotta sovversiva, critica, avversa al potere che unisca
ciò che la modernità ha scisso, ossia politica
ed etica, agire sociale e modo di comportarsi tra sé
e sé ma soprattutto tra i vari sé costituitisi
come soggetti anarchici4.
Questa forma-di-vita anarchica, mai data ma sempre conquistata
nel conflitto tra sé e mondo illibertario, ha una potenza
inestimabile perché connette pensiero e azione, una scelta
dottrinaria con una scelta vitale e esistenziale non di superficie,
non generazionale. È una potenza etopolitica5
che costituisce ciascun sé nel legame associativo con
altri sé – l'anarchismo lo designa come affinità,
sulla scia delle affinità elettive di Goethe, a ben pensarci
il crogiolo romantico cui devono molto Stirner e Bakunin pur
nelle differenze di visioni – e che diviene capace, in
tempi di effervescenza sociale, di scardinare forme tradizionali
e contenuti consolidati sia di modi di pensare che di vivere.
Nascono i movimenti degli ultimi decenni, nella loro traiettoria
carsica che va da Seattle a Zuccotti Park, dagli zapatisti agli
Indignados (nella loro avventura prepartitica rispetto
a Podemos), dai vari Occupy a piazza Taksim (Turchia),
dalle insorgenze nelle banlieux francesi alle periferie
inglesi, e via continuando6.
Quel che Bookchin riteneva una frattura insanabile, irriducibile,
suona invece come una ineludibile tensione tipica di un ethos
anarchico che si fa fatto sociale, e proprio nella giunzione
tra posizione radicale del singolo e suo legame organizzato
nei vari segmenti del vivere associato rende possibile l'affermazione
di uno stile politico drasticamente mutato rispetto alla degenerazione
istituzionale che l'ha pervertito. Infatti, come ricorda Jacques
Rancière, l'irruzione della politica come rivendicazione
del controllo della propria esistenza plurale è senza
dubbio an-archica in senso costitutivo, ferocemente conflittuale
con ogni pretesa archica di dominio tradizionale risalente
alla notte dei tempi, all'inizio della storia, al “così
è perché così è sempre stato”.
Emancipazione dall'autorità costituita, precludendole
ogni riapparizione, e autogoverno della forma di vita in cui
siamo immersi costituiscono il doppio volto con cui storicamente
e teoricamente si presenta l'anarchismo.
Probabilmente, oggi, abbiamo un bagaglio concettuale più
affinato che ci consente di declinare congiuntamente ciò
che Bookchin riteneva una giuntura incolmabile.
Salvo Vaccaro
- David Graeber, Foreword a Michael Knapp, Anja Flach
and Ercan Ayboga, Revolution in Rojava. Democratic Autonomy
and Women's Liberation in Syrian Kurdistan, Pluto Press,
London, 2016, p. XV.
- Debbie Bookchin and Blair Taylor, Introduction, a Murray
Bookchin, The Third Revolution, Verso, London, 2015,
p. XVIII. In italiano, cfr. Murray Bookchin, Democrazia diretta,
eleuthera, Milano, 2015.
- «Bookchin disse agli anarchici che il suo progetto di
municipalismo libertario costituiva la loro vera politica, la
loro naturale teoria rivoluzionaria. Lo ascoltarono con rispetto,
ma poi gli replicarono che non gradivano il governo locale al
pari di altre cose del genere; mossero poi obiezioni al principio
di votazione per maggioranza perché la minoranza non
avrebbe avuto spazio. Gli anarchici preferivano gruppi comunitari
non politici, cooperative, librerie radicali, comuni. Bookchin
riteneva che tali istituzioni andassero bene, ma che per fare
una rivoluzione seriamente si ha necessità di avviare
un percorso per conquistare un potere politico concreto, strutturale,
legittimo, legale. Il municipalismo libertario era un modo per
farlo, per avere un piccolo punto saldo contro lo stato nazionale.
Bookchin sollecitò gli anarchici, li cercò, li
implorò, provò a persuaderli, li pregò,
li invocò, polemizzò con loro. Fece di tutto per
convincerli che il municipalismo libertario era il modo per
rendere politicamente rilevante l'anarchismo. Ma nel 1999 –
più o meno quando venne arrestato Öcalan –
confessò infine a se stesso il proprio fallimento e iniziò
un percorso di allontanamento dall'anarchismo» (Janet
Biehl, Bookchin, Öcalan, and the Dialectics of Democracy,
“New Compass”, 16 febbraio 2012).
- Reiner Schürmann, Costituire se stesso come soggetto
anarchico, trad. it. in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di),
“Soggetto” a variazione, BFS, Pisa, 2000,
pp. 67-87.
- Per una prima configurazione teorica, mi sia consentito rinviare
a Salvo Vaccaro, Foucault: dall'etopoiesi all'etopolitica,
in “materiali foucaultiani”, IV, n. 7-8, 2015.
- Cfr. Ursula K. Le Guin, Foreword, a Murray Bookchin,
The Third Revolution, cit., pp. IX-XI. Inoltre cfr. Salvo
Vaccaro, Genealogia dell'ingovernabile, in S. Vaccaro
(a cura di), Agire altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali
nel XXI secolo, Elèuthera, Milano, 2014.
Per una società libertaria e autogestita
di Luca Lapolla
Municipalismo libertario, comunalismo, unanimità, consenso,
ecc. Una riflessione sulle modalità organizzative e decisionali.
Partendo da fatti di cronaca spesso mi viene chiesto –
sia genuinamente che provocatoriamente – come reagirebbe
una società anarchica. Per esempio, parlando con amici
o parenti delle dilaganti manifestazioni di razzismo sociale
e istituzionale si finisce a volte col discutere di nazionalismo
e confini, e lì scatta la domanda: “Ma come farebbe
uno stato (sic!) anarchico ad evitare di essere invaso da milioni
di migranti?”. E così iniziano dibattiti che –
a seconda del tipo di rapporto e del livello di alcol in corpo
– possono trasformarsi in vere e proprie arringhe o furibonde
litigate.
Comunità federate e il rischio di micro stati
Il riferimento allo “stato anarchico” dimostra
quanto certe idee siano talmente radicate da impedire anche
solo di contemplare un'alternativa. Eppure pensatori e militanti
anarchici hanno prodotto sin dal diciannovesimo secolo innumerevoli
esempi di società libertarie, sia nella teoria che nella
pratica. Il modello più diffuso è quello della
federazione di comunità o comuni, teorizzato già
da pensatori come Bakunin, Kropotkin e Landauer, e rielaborato
a partire dagli anni Cinquanta da Murray Bookchin col nome di
municipalismo libertario all'interno di un più ampio
progetto per adattare l'anarchismo alle sfide del mondo moderno.1
Progetto che abbandonò negli ultimi anni di vita quando
lasciò il movimento anarchico – ritenuto troppo
individualista – per quello che definì “Comunalismo”.
Bookchin presentò il Comunalismo come “socialismo
del ventunesimo secolo” basandosi su principi provenienti
dalla tradizione dell'anarchismo, del marxismo e del sindacalismo
rivoluzionario, e con una forte influenza ecologista.2
In particolare, Bookchin si soffermò a lungo sulla dimensione
politica del Comunalismo che chiamò “municipalismo
libertario”. Questo ha al suo centro l'idea di federazioni
di comunità basate sulla distinzione tra policy-making
(essenzialmente il potere legislativo) ed administration
(una sorta di gestione amministrativa), affidando il primo ad
assemblee locali composte da cittadini e la seconda a consigli
federali con rappresentanti nominati – e revocabili –
dalle stesse assemblee. Consigli federali che, nella visione
di Bookchin, dovrebbero evitare che singole comunità
tradiscano il patto federativo.3
Di certo un compito controverso che mi fa pensare alla repressione
statale su piccola scala. Ma è davvero meglio tollerare
– in nome di una presunta libertà – che una
comunità confederata compia disastri ambientali o violi
i diritti umani?
Consenso: dittatura della minoranza?
Altra questione spinosa è rappresentata dal processo
decisionale all'interno di queste assemblee comunitarie. Oggigiorno
il metodo più diffuso in organizzazioni e spazi di ispirazione
libertaria è basato sul consenso perché ritenuto
l'unico veramente democratico. Si tratta di un metodo che si
è diffuso a partire dagli anni Settanta, quando gruppi
femministi e quaccheri introdussero la pratica delle decisioni
prese dopo aver ascoltato tutte le opinioni finché nessuno
si dichiari apertamente contrario – diverso dunque dal
voto all'unanimità.4 Anche
nella comune pugliese di Urupia usano il metodo del consenso.
Intervistando una comunarda nel 2014, lei ammise che il metodo
“è complicato perché allunga i tempi, però”
– aggiunse – “è importante perché
dà spazio a tutti e a tutte di esprimersi [...] sping[e]
ognuno ad ascoltare l'altro e magari a rivedere la propria posizione.
[Così ci] si arricchisce tantissimo anche a livello individuale”.
Tuttavia Bookchin smascherò la presunta democraticità
di questo metodo esclamando: “Ne ho avuto abbastanza delle
decisioni per consenso, in cui una minoranza ha il bizzarro
diritto di bloccare le decisioni della maggioranza diventando
così una tirannide che fa ostruzionismo mentre accusa
assurdamente la maggioranza di essere tirannica”.5
Difatti, quello che oggi il movimento libertario considera un
tabù, prima era la norma. Ad esempio, in alcune interviste,
dei libertari baresi mi hanno confermato che negli anni Settanta
decidevano a maggioranza. Certamente entrambi i metodi presentano
pro e contro, ma quanto è realistico pensare che centinaia
di persone raggiungano il consenso su base quotidiana?
Verso la federazione di comunità autogestite
Alcuni di quegli anarchici baresi gestirono per anni un comitato
di quartiere – in cui si votava a maggioranza –
che riprodusse incosapevolmente la divisione suggerita da Bookchin
tra un organo decisionale (l'assemblea aperta agli abitanti
del quartiere) e uno esecutivo-amministrativo (l'assemblea degli
attivisti).6 Molti centri sociali
presentano tutt'oggi simili strutture confermando quindi la
base pragmatica delle idee di Bookchin, anche se a volte scomode.
Per questo meritano di essere riscoperte e dibattute, e magari
sperimentate creando, ad esempio, una federazione di centri
sociali autogestiti. Una rete che si faccia promotrice, col
supporto del movimento anarchico e attraverso una pratica quotidiana,
di un cambiamento della società in senso libertario.
D'altra parte “non si può separare il processo
rivoluzionario dall'obiettivo rivoluzionario. Una società
fondata sull'autogestione deve essere raggiunta attraverso lo
strumento dell'autogestione”.7
Luca Lapolla
- Biehl, Janet. «Introduction». In The Murray
Bookchin reader. London: Cassell, 1997.
- Bookchin, Murray. Social Ecology And Communalism. Oakland-Edinburgh:
Ak Press, 2007.
- Bookchin, Murray. «Libertarian Municipalism: An Overview».
Green perspectives, n. 24, 1991.
- Gordon, Uri. Anarchy alive! London, Ann Arbor: Pluto
Press, 2008, pp. 36-70.
- Bookchin, Murray. «Thoughts on Libertarian Municipalism».
Institute for Social Ecology, 26 agosto 1999.
- Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica. «Dibattito
politico 1 - I Consigli di Quartiere».
- Bookchin, Murrray. «The forms of freedom». In
Post-scarcity anarchism. Berkeley: Ramparts, 1971, p.
167.
Quella transizione necessaria
di Giorgio Nebbia
Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare
le necessità di una popolazione umana crescente attraverso
una tecnologia ecologica.
Murray Bookchin si avvicina all'ecologia nella seconda metà
degli anni quaranta, poco più che ventenne, nell'ambito
del movimento ispirato da Josef Weber.
Nel 1948 William Vogt aveva pubblicato il libro: Road to
survival, la prima analisi popolare dei rapporti fra popolazione,
risorse, consumi e ambiente; pur non condividendo la tesi neo-malthusiana,
che lo sfruttamento e l'impoverimento delle risorse naturali
sia dovuto alla “eccessiva” popolazione del pianeta,
Bookchin concorda con Vogt che il vero responsabile dei guasti
del pianeta è il capitalismo. Il quale usa, a fini di
profitto, le tecnologie più avanzate, i progressi nella
produzione di concimi, i pesticidi, i nuovi materiali sintetici,
il piombo tetraetile come additivo delle benzine, gli ormoni
con cui è possibile far aumentare il contenuto in acqua
e il peso degli animali e far guadagnare di più gli allevatori:
tutte sostanze che, direttamente o indirettamente, passano poi
nel corpo degli ignari consumatori.
Un'appassionata denuncia delle violenze di tale tecnologia è
presente già nel saggio: The problem of chemicals
in food, del 1952, pubblicato con lo pseudonimo Lewis Herber
che Bookchin userà in molte altre pubblicazioni. Alla
critica della tecnologia al servizio del potere Bookchin era
arrivato anche attraverso l'opera di Lewis Mumford, il cui libro
Technics and civilization, del 1934, era molto popolare
negli Stati Uniti.
La consapevolezza ecologica di Bookchin cresce negli anni cinquanta
del Novecento, segnati dalla contaminazione planetaria con i
frammenti radioattivi sparsi nell'atmosfera da centinaia di
esplosioni sperimentali di bombe atomiche, dalla diffusione
dei rifiuti di materie plastiche e di detersivi persistenti,
dagli effetti dei pesticidi sintetici sugli esseri viventi;
l'avvelenamento non riguarda più soltanto gli alimenti
ma l'intero ambiente un tema che Bookchin affronta nel libro
Our synthetic environment del 1962, uscito pochi mesi
prima della pubblicazione del libro di Rachel Carson, Primavera
silenziosa. Bookchin denuncia gli effetti nocivi sugli esseri
umani delle varie sostanze tossiche immesse nell'ambiente dalle
attività militari e industriali e insiste nel riconoscere
il modo capitalistico di produzione come vera causa di tale
avvelenamento.
La salvezza può essere ottenuta soltanto con una visione
rivoluzionaria dell'ecologia, con una “ecologia umana”,
e Bookchin è forse il primo a usare questo termine. Non
è un rifiuto della tecnologia, ma una proposta di orientare
la tecnologia e le innovazioni al servizio dell'uomo e non del
profitto e dei soldi. Sull'onda della ricerca di una “tecnologia
sociale”, proposta da Mumford, Bookchin parla di una Tecnologia
liberatoria: è il titolo del libro del 1965. E la
cerca proprio in tutti gli scritti successivi, nell'analisi
della crisi urbana, in nuovi rapporti fra città e campagna,
nelle nuove forme di agricoltura ispirate dall'inglese Albert
Howard; non si tratta di rifiutare la tecnica: gli esseri umani
hanno dei bisogni materiali che condizionano anche il diritto
alla libertà e la dignità, e per soddisfare tali
bisogni occorre produrre dei beni materiali dalla natura con
la tecnica e il lavoro.
Una visione originale e attualissima; da decenni, pur con alterne
vicende, stiamo vivendo in un mondo che si sforza di aumentare
la disponibilità di merci e macchine con un crescente
sfruttamento delle risorse naturali. Le innovazioni tecniche
consentono di avere crescenti e sempre nuovi oggetti, di moltiplicare
i bisogni artificiali dei paesi opulenti, un modello che il
libero mercato e la globalizzazione cercano di diffondere nei
paesi emergenti e in quelli ex-comunisti. Ricchi e poveri schiavi
di bisogni artificiali e complici nell'impoverimento e nell'inquinamento
dei corpi inorganici e degli stessi viventi. Ne sono una riprova
i mutamenti climatici dovuti all'aumento della concentrazione
di alcuni gas nell'atmosfera, un fenomeno di cui parlava già
mezzo secolo fa Bookchin. Più merci, più gas climalteranti,
più siccità e desertificazione, più piogge
improvvise che allagano la pianure e le città e fanno
franare le valli e le colline in cui l'avidità e la speculazione
private hanno ostruito le vie di scorrimento delle acque.
Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare
le necessità di una popolazione umana crescente attraverso
una tecnologia ecologica. Si tratta di riprogettare le città
e i dintorni, di diffondere abitazioni e servizi nel territorio,
di ripensare i mezzi di trasporto, di progettare le merci sotto
i vincoli di un minore consumo di acqua, di energia, di materie
prime. Di ripensare l'agricoltura, unica fonte del cibo, superando
l'agricoltura industriale, facendo evolvere l'agricoltura contadina
in una nuova agricoltura, una “terza agricoltura”
come propone Pier Paolo Poggio, capace di produrre sufficiente
cibo per tutti con minore alterazione della natura e delle sue
risorse.
Una transizione che richiede innovazioni e tecnologia. E che
una tecnologia libertaria possa essere liberatoria è
mostrato anche dal fatto che le opere di Bookchin oggi possono
essere lette dovunque, anche a casa propria, grazie a Dana Ward,
del Pitzer College di Claremont, California, fondatore degli
Anarchy Archives telematici (www.dwardmac.pitzer.edu).
Giorgio Nebbia
Un pensatore sottovalutato
di Ermanno Castanò
Dopo una giovanile militanza trotzkista, era diventato anarchico.
Fondatore della social ecology, è stato uno dei
pensatori più originali. All'incrocio tra anarchismo,
ecologia e comunitarismo.
Murray Bookchin non è mai stato un intellettuale accademico.
E questo non ha certamente favorito l'accostamento del suo nome
a quello dei pensatori più noti del panorama americano
recente come Noam Chomsky, John Searle o Richard Rorty. È
raro, infatti, trovarlo menzionato in studi filosofici di un
certo rilievo; ma spesso si sorvola con troppa facilità
e un pizzico di snobismo sulle problematiche che Bookchin ha
sollevato in una vita di ricerca intellettuale e militanza politica.
Ed è proprio sull'importanza di tale intreccio che le
righe che seguono si soffermeranno.
Michel Foucault, in un noto dibattito televisivo, accusò
Noam Chomsky di separare nettamente la sua implacabile militanza
dalla riflessione filosofica, come se le due appartenessero
ad ambiti separati ed eterogenei fra loro. Al contrario i testi
di Foucault si comprendono meglio se si guardano non solo come
studi teorici innovativi, ma anche come attrezzi per scardinare
certi rapporti di potere.
Ecco, pure se Bookchin non ha mai espresso simpatie per Foucault
(ne ha anzi criticato la visione della storia come casuale e
imprevedibile preferendo una razionale progettualità
politica), si potrebbe dire che il filosofo francese non avrebbe
potuto muovergli l'accusa rivolta a Chomsky. Tutti i testi di
Bookchin, infatti, sono nati all'interno di percorsi di lotta
ed elaborazione teorica volti a trasformare lo stato di cose
presente. Sin dall'inizio, quando il pensatore americano era
un marxista vicino al movimento operaio e iniziava a far circolare
i primi opuscoli sotto pseudonimo.
Questa esperienza che lo portò ad avvicinarsi alla scuola
di Francorte (che lasciò su di lui un'impronta durevole),
produsse nel 1962 il primo testo bookchiniano di una certa importanza:
Our Synthetic Environment. Il libro descrive un capitalismo
capace ormai di manipolare completamente l'ambiente e di piegarlo
ai propri interessi fino a generare una contraddizione profonda
fra natura e umanità. Questo ambiente sintetico a disposizione
dell'industria fa sì che tutta la natura venga ridotta
a risorsa a uso della società consumistica. Ma la posizione
di superiorità raggiunta in tal modo dall'uomo si rivela,
a uno sguardo più attento, meno comoda di come possa
apparire. Sottomettendo la natura a tale regime, l'uomo vi sottomette
anche la propria, la quale diviene, per l'industria, semplice
risorsa umana. Inoltre, a lungo andare, distruggendo le basi
biologiche della vita, egli rischia addirittura di distruggere
se stesso.
La cosa più strabiliante di questo libro, che per primo
ha inteso sollevare la questione ambientale nei movimenti sociali,
è che riesce a conciliare un'intenzione pratica (radicale)
e un pensiero chiaramente ispirato a filosofi del calibro di
Adorno o Heidegger.
Negli anni '70 esce una raccolta di brevi scritti e opuscoli
intitolata Post-scarcity Anarchism che mette insieme
l'impronta francofortese con un certo spirito situazionista.
In questi testi Bookchin si distanzia nettamente dalle posizioni
dei marxisti americani di allora per virare verso un utopismo
libertario che non abbandonerà più. Il punto focale
della polemica era la tecnologia di cui alcuni auspicavano la
concentrazione nelle mani degli organismi rivoluzionari e altri
invece la distruzione. Al di là di queste posizioni Bookchin
sostenne l'esigenza di riconvertire la tecnologia (eolico, fotovoltaico,
ecc.) in modo ecologico e locale e di usarla per gli scopi di
una società libera ed egualitaria sottraendola sia allo
sfruttamento capitalistico che alle gerarchie statali.
Nello stesso periodo I limiti della città descrive
l'orizzonte asfittico delle metropoli contenporanee che, a differenza
delle poleis greche e delle città rinascimentali,
hanno espulso dal proprio spazio urbano tanto la vita animale
dell'oikos quanto quella politica dell'agorà
e, oggi, non sono altro che lo spazio della produzione e del
consumo alienati in cui oikos e agorà scompaiono
e si confondono.
Di lì a poco si inizieranno a diffondere in America e
nel resto del mondo le idee dell'ecologia profonda e del neoprimitivismo
con cui Bookchin non smetterà mai di polemizzare.
Il dominio e la libertà
Negli anni '90 l'elaborazione teorica si fa più
rigorosa e ricca. Mentre Bookchin fonda l'Institute for Social
Ecology, nel Vermont, escono libri come Filosofia dell'ecologia
sociale, Democrazia diretta e L'ecologia della
libertà. Quest'ultimo in particolare si presenta
come un testo simile a Le origini del totalitarismo di
Hannah Arendt e a Dialettica dell'illuminismo di Adorno
e Horkheimer, di cui eredita il metodo storico filosofico. Caratterizzato
da una grande erudizione e dalla vastità delle fonti,
il libro propone una ricostruzione della storia del dominio
sulla natura che discende sino agli albori dell'umanità
quando l'uomo inizia a costruire la civiltà sottomettendo
a sè le forze naturali (esteriori e interiori) per ritrovarsi,
nel corso del suo sviluppo, sempre più asservito alle
stesse tecniche che lo “liberano” dalla necessità.
Il perchè di un tale esito sta nel fatto che, insieme
alla crescita della civiltà, sta anche quella di una
società di classe che fa del dominio sull'uomo il proprio
orizzonte invalicabile.
Il dominio non si limita al solo sfruttamento e sottomissione
esteriori, ma è qualcosa di più profondo: è
un modo di pensare (un'epistemologia) e un modo di concepire
l'essere (un'ontologia) che fondano la pratica.
L'ecologia della libertà propone, però,
(caso quasi unico insieme, oggi, all'ultimo capitolo di Homo
sacer di Giorgio Agamben) non solo la ricostruzione dell'emergenza
del dominio, ma anche di quella delle forze che gli si oppongono
e che hanno aperto strade diverse, per quanto frammentarie.
Dalla polis antica alle società tribali, dai comuni
medievali alle lotte contro le enclosures (che opponevano
l'uso alla proprietà), dalle rivolte operaie e
contadine ai movimenti ecologisti, la libertà ha provato
a percorrere strade inedite e, quando è stata radicale,
a elaborare una propria epistemologia e una propria ontologia.
E anche se queste hanno spesso perduto, i loro frammenti giacciono
per essere raccolti e usati ancora contro il dominio.
Il dominio e la libertà nascono insieme e si fronteggiano
lungo tutte le varie diramazioni della storia che altro non
è che il risultato di queste lotte, delle vittorie, delle
sconfitte, delle memorie e delle rimozioni. Per questo non esiste
una posizione neutrale per gli intellettuali, poiché
tale lotta ha anche una valenza culturale. O di qua o di là:
l'intellettuale deve scegliere, in fondo, da che parte stare.
Oggi, secondo Bookchin, è la volta delle lotte ecologiste
perché è sulla faglia fra il potere e la vita
che si gioca il presente. La vita intera è esposta al
pericolo della distruzione a causa delle devastazioni sociali
e ambientali dello sfruttamento capitalistico. Ma qui i suoi
oppositori devono fare attenzione: così come l'ontologia
di fondo che vede la natura (i corpi) come inferiore e sottoposta
alla ragione non è nata col capitalismo, ma molto tempo
prima, allo stesso modo essa potrebbe sopravvivergli e rimodularsi
in nuove forme, proprio come è successo nel cosiddetto
socialismo reale. Gli attuali movimenti ecologisti, se vorranno
essere veramente radicali e inaugurare una nuova forma di vita,
dovranno essere capaci di destituire tale ontologia economica
dalle radici lontane e di revocare la stessa divisione fra una
vita razionale che comanda e una vita corporea che, per accedere
alla civiltà, deve essere dominata.
L'irripetibile occasione che, secondo Bookchin, caratterizza
la società odierna sta nel fatto che proprio laddove
più cresce il pericolo della crisi ecologica, cresce
pure la scienza (l'ecologia) capace di rovesciare tale situazione
e favorire una società in cui la politica (l'autogestione
della comunità per mezzo di assemblee) si sovrapponga
alla vita naturale (l'animalità e la natura) senza residui.
Negli ultimi anni Bookchin si è dedicato a potenziare
i mezzi di questa controstoria raccogliendo in grandi volumi
la storia delle rivoluzioni del Novecento, in particolare della
rivoluzione spagnola del '36.
I tanti volti dell'ecologismo
Qual è allora l'importanza di Murray Bookchin e perché
sarebbe un pensatore sottovalutato? La risposta non può
che essere molteplice. Come abbiamo visto egli ha portanto avanti
una ricerca che non ha avuto solo una valenza teoretica, ma
anche politica e sociale. Ma non basta. A partire da autori
come, fra gli altri, Arendt o Marcuse egli ha studiato le connessioni
fra il potere e la vita con esiti prossimi alla biopolitica
di Foucault, ha usato un metodo archeologico che tiene assieme
l'aspetto ideale e quello materiale, ha poi sviluppato tali
elementi in una direzione paragonabile a quella attualmente
percorsa da Agamben: dal governo dei viventi all'origine teologica
dell'economia, dal dispositivo della crisi alla forma di vita.
La sua visione utopica di una società ecologica è
un punto d'incontro fra la critica del capitalismo di Marx e
la critica dello stato di Kropotkin e Fourier, in cui la vita
non è più separata e amministrata dagli apparati
di governo, ma ha riguadagnato la propria valenza politica,
comunitaria e armonica con la natura. Una visione che si è
disseminata nei più svariati movimenti ambientalisti:
da Occupy Wall Street ai No Tav, dai centri sociali alle lotte
contro il fracking (fratturazione idraulica, tecnica
utilizzata per estrarre il gas naturale – n.d.r.).
Ma forse il caso più eclatante fra tutti questi è
stato il fatto che le idee di Bookchin sono state riprese nel
2012 dai rivoluzionari dei cantoni curdi del Rojava (in Siria)
che stanno provando a costruire un confederalismo democratico
che si ispira direttamente al suo municipalismo libertario.
Laddove lo stato siriano è imploso in una guerra civile
alimentata dalla volontà capitalistica di saccheggio
delle risorse, i rivoluzionari sono riusciti a mettere in piedi
un paradigma di società alternativo tanto al fascismo
integralista dell'Isis quanto al capitalismo liberale. Le comuni
dei cantoni del Rojava (quella più famosa è Kobane)
hanno, infatti, abolito la società di classe, il patriarcato,
lo sfruttamento della natura e l'organizzazione statale per
autogestire le comunità in modo assembleare e antiautoritario,
interetnico ed ecologista (fino al punto di rifiutarsi di estrarre
il petrolio) tentando di garantire pace e benessere alle popolazioni
dell'area nel pieno rispetto della natura.
Insomma, il nuovo millennio non si è aperto sotto i migliori
auspici e col tempo la situazione sembra peggiorare. Se il secolo
sarà deleuziano, foucaultiano o altro, non lo sappiamo.
Sta di fatto che certamente sarà anche un po' bookchiniano:
poiché se l'oligarchia capitalistica distruggerà
il mondo a forza di sfruttarlo o se al contrario l'umanità
riuscirà a costruire una società ecologica e libertaria,
in ogni caso Bookchin ve l'aveva detto.
Ermanno Castanò
Tecnologia e decentramento
di Murray Bookchin
Si intitola così un capitolo del volume
Per una società ecologica edito da Elèuthera.
Lo riproduciamo al termine di questo dossier, evidenziando ancora
una volta la ricca problematicità della visione bookchiniana,
tesa sempre a unire la riflessione teorica con la possibile
soluzione dei mille problemi della società attuale.
A questa esigenza di creare un movimento municipalista libertario
l'ecologia sociale ha portato una dimensione originale e nel
contempo imperativa. La necessità di ridimensionare le
comunità umane in modo da adeguarle alle risorse naturali
del territorio in cui si trovano e di instaurare un nuovo equilibrio
tra città e campagna (temi tradizionali del pensiero
utopico e anarchico del diciannovesimo secolo) è diventata
oggi ecologicamente imprescindibile. Non rappresenta soltanto
il perdurare dell'utopismo di ieri o i sogni e i desideri di
alcuni pensatori solitari, bensì è diventata la
condizione necessaria perché la specie umana possa continuare
a esistere, in armonia con un mondo naturale complesso e minacciato
di distruzione. In effetti l'ecologia ha posto nettamente questa
alternativa: o ci volgiamo alle soluzioni, solo apparentemente
utopiche, basate sul decentramento, su un nuovo equilibrio con
la natura e sull'instaurazione di rapporti armonici nella società,
o dovremo affrontare Io sconvolgimento delle basi materiali
e naturali della vita umana su questo pianeta.
L'urbanizzazione minaccia anche la campagna, non solo la città.
Il famoso contrasto tra città e campagna che tanto rilievo
ha avuto nella storia del pensiero sociale, è oggi del
tutto privo di senso, superato dall'invasione del cemento anche
in aree a vocazione agricola e in comunità rurali di
grande valore storico. L'omogeneizzazione delle culture rurali
a opera dei mezzi di comunicazione di massa, del diffondersi
dei modelli esistenziali urbani e di una pervasiva mentalità
consumistica minaccia non solo di distruggere modi di vivere
peculiari con una lunga tradizione storica, ma di devastare
completamente il panorama naturale. Ciò che l'agribusiness
non ha ancora avvelenato con i suoi pesticidi e fertilizzanti
o impoverito con i suoi macchinari che compattano il suolo,
viene distrutto dalle piogge acide, dall'alterazione climatica
di origine sociale, dal disboscamento e dalla crescente aridità.
L'urbanizzazione del pianeta, eliminando strati di suolo che
hanno richiesto millenni per formarsi, riducendo a una finzione
la vita selvaggia e alterando in senso peggiorativo, anche se
a volte indirettamente, il clima di interi territori, comporta
infatti una drammatica semplificazione dei complessi ecosistemi
esistenti.
La tecnologia ereditata dalle precedenti rivoluzioni industriali,
l'uso insensato di veicoli a motore individuali, la concentrazione
di strutture industriali gigantesche vicino ai corsi d'acqua,
il continuo ricorso a combustibili fossili e nucleari e un sistema
economico che ha per unica legge la crescita, tutto ciò
non mancherà di produrre in pochi decenni un degrado
ambientale mai visto prima. Quasi tutti i nostri corsi d'acqua
sono stati trasformati in fogne, e persino negli oceani sono
state scoperte «zone morte» che si estendono per
centinaia di miglia. Non è il caso di insistere con questa
fosca litania delle continue e forse mortali ferite inflitte
ovunque al nostro pianeta, anche perché i danni perpetrati
nell'atmosfera allo strato protettivo di ozono sono risaputi,
al pari di quelli che colpiscono le aree più remote del
globo, come l'Artico e l'Antartide, o le antiche foreste tanto
delle zone temperate quanto di quelle equatoriali.
Congestione, rumore, stress
Al di là della nostra esigenza di vivere una vita pienamente
umana in base alla visione libertaria che ci muove, è
la stessa sopravvivenza umana che ci impone di rivedere il processo
di urbanizzazione in atto, la relazione tra le città
e il loro substrato ecologico, il rapporto tra la tecnologia
e i beni che produce, e in definitiva la nostra stessa concezione
di natura. Per realizzare le nostre concezioni libertarie, ma
anche per garantire le esigenze più elementari di un'esistenza
che sia in qualche modo in equilibrio con la natura, abbiamo
bisogno di città più piccole. I giganteschi agglomerati
urbani generano omogeneità culturale, anonimato individuale
e potere centralizzato, e inoltre danneggiano insostenibilmente
le risorse idriche, l'aria che respiriamo e tutte le caratteristiche
naturali delle aree che occupano. Congestione, rumore e stress
(tipico prodotto dalla vita urbana di oggi) stanno diventando
sempre più intollerabili, a livello psichico oltre che
fisico. Le città che un tempo riunivano sotto l'egida
di una medesima solidarietà comunitaria individui di
varia provenienza, oggi atomizzano i propri abitanti. La città
contemporanea è un luogo nel quale nascondersi, non l'occasione
per ricercare la vicinanza degli altri esseri umani. La paura
tende a sostituirsi alla socialità, la scortesia inghiotte
la solidarietà, l'ammassarsi della gente in edifici,
mezzi di trasporto, uffici e ipermercati, sovverte il senso
dell'individualità e porta all'indifferenza verso la
condizione umana.
Il decentramento delle grandi città in comunità
a misura umana non è dunque il sogno romantico di un
solitario amante della natura, né un remoto ideale anarchico.
È invece un obiettivo indispensabile per una società
ecologicamente stabile. Bisogna scegliere tra un ambiente in
rapido degrado, che finirà per compromettere l'integrità
e la complessità delle forme di vita del pianeta, e una
società capace di vivere in equilibrio con la natura.
Lo stesso può dirsi dell'esigenza di riconsiderare la
base tecnologica della società attuale. La produzione
non può più essere vista come una fonte di profitto
o il conseguimento di interessi personali. I beni di cui gli
esseri umani necessitano per la propria sopravvivenza, oltre
che per il proprio benessere fisico e culturale, sono ben più
importanti dei feticci mistificati con cui ci abbagliano le
varie religioni e i tanti culti superstiziosi. Il pane è
più «sacro» di una benedizione sacerdotale;
i vestiti di tutti i giorni sono più «sacri»
dei paramenti ecclesiastici; il luogo in cui si abita ha un
significato spirituale più denso di qualsiasi chiesa
o tempio; vivere bene su questa terra è più santificante
che andare in paradiso. I mezzi di sussistenza devono essere
considerati per quello che sono realmente: strumenti senza i
quali la vita è impossibile. Negarli al popolo è
più che un furto, per usare l'espressione di Proudhon,
un omicidio. Nessuno ha il diritto - moralmente, socialmente
o ecologicamente - di possedere beni dai quali dipende la vita
altrui, né di imporre alla società tecnologie
che danneggino la salute di altri esseri umani o del pianeta.
Ed è qui che l'ecologia si compenetra con la società
per diventare ecologia sociale, sottolineando la stretta interdipendenza
tra problemi sociali ed ecologici. La tecnologia, che dovrebbe
essere usata per sostenere la vita umana e planetaria e che
invece oggi mette in pericolo entrambe, costituisce uno dei
più importanti punti di contatto tra valori sociali e
valori ecologici. In un'epoca di degrado ecologico galoppante
e diffuso, non è più accettabile mantenere tecniche
che danneggiano spudoratamente gli esseri umani e il pianeta
tutto.
Una delle maggiori tragedie della nostra epoca è che
la tecnica non è più considerata da un punto di
vista etico. Nel pensiero greco, produrre oggetti di qualità
e di fattura artistica era un impegno morale che instaurava
una speciale relazione tra l'artigiano e l'oggetto prodotto.
Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrispondeva
alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale
grezzo, dando così alla pietra, al marmo, al bronzo,
una «voce» attraverso cui venivano espresse le latenti
capacità estetiche della materia prima.
Egoismo illimitato
Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare.
Ha separato il produttore dal consumatore, cancellando ogni
senso di responsabilità etica del primo nei confronti
del secondo e mettendo da parte ogni altro tipo di considerazione
morale. L'unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalista
è la presenza della cosiddetta «mano invisibile»
del mercato, la quale guida l'interesse individuale in modo
che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il
«bene comune». Ma anche tale miserabile giustificazione
è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro
esempio della presenza di un'etica del male, ha sostituito ogni
rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile
dare alla tecnologia colpe che vanno invece addebitate agli
interessi delle élite dominanti, bisogna comunque ammettere
che sotto il capitalismo anche la tecnica, liberata da ogni
limitazione di tipo morale, può diventare demoniaca.
Una centrale nucleare, ad esempio, è un male in sé,
non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza. E nessuno
può più dubitare che la proliferazione di impianti
nucleari - e quanto più ce ne sono, tanto più
la probabilità di incidenti come quello di ernobyl' aumenta
- può a un certo punto trasformare l'intero pianeta in
una colossale bomba nucleare.
Oltretutto, la dislocazione di quelle che erano le lavorazioni
industriali convenzionali ha ulteriormente aggravato il degrado
ecologico. L'agribusiness, che un tempo era un'attività
marginale rispetto alle aziende agricole di tipo familiare,
si è talmente diffuso negli ultimi tempi da provocare
seri problemi globali legati all'uso di pesticidi e fertilizzanti
sintetici. La continua emissione di fumi industriali e l'uso
sconsiderato delle automobili private stanno modificando l'intero
equilibrio ecologico naturale, in particolare quello dell'atmosfera.
Basta un rapido esame dell'attuale panorama tecnologico per
rendersi conto di quanto sia acuta la necessità di una
sua ristrutturazione. Interessi non solo ecologici ma di pura
sopravvivenza umana impongono il ricorso a tecnologie compatibili
che rendano il nostro rapporto con la natura creativo e non
distruttivo.
Mi sia concesso ripetere ancora una volta che tale cambiamento
non può prodursi senza che avvenga una concomitante mutazione
nei rapporti umani, a partire dall'individuazione di un interesse
generale che superi gli interessi particolari legati alla gerarchia,
alla classe, al genere, all'etnia e alla nazione. I presupposti
per un rapporto armonico con la natura sono di tipo sociale,
ovvero implicano l'instaurazione di rapporti armonici tra gli
esseri umani. Il che postula l'abolizione non solo della gerarchia
in tutte le sue forme (anche psicologiche e culturali, oltre
che sociali), ma anche delle classi, della proprietà
privata e dello Stato.
Il passaggio da «qui» a «là»
non avverrà certo grazie a un'improvvisa esplosione,
ma implicherà una lunga preparazione intellettuale ed
etica. C'è bisogno di un percorso di apprendimento approfondito
se sono gli individui a dover cambiare la propria esistenza,
in prima persona, senza più affidarsi a élite
autonominatesi che tendono inevitabilmente a trasformarsi in
oligarchie. La sensibilità, l'etica, il modo di vedere
la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso
modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni
che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri
errori: solo questo consentirà all'umanità di
raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione.
È necessario creare na nuova politica
I movimenti radicali non possono più accontentarsi irriflessivamente
di un'azione che è ormai fine a se stessa. Mai come oggi
c'è bisogno di approfondimento teorico e di studio, proprio
perché l'incultura politica ha raggiunto proporzioni
spaventose e l'azione è ormai stata trasformata in un
feticcio. Abbiamo anche bisogno di capacità organizzative,
non di quel caos nichilista dove ogni tipo di struttura è
liquidata come «elitaria» e «centralistica».
La tenacia, il duro lavoro quotidiano necessario alla costruzione
di un movimento, servono assai più che i gesti teatrali
di certe primedonne, che aspirano a «morire» sulle
barricate di una remotissima rivoluzione, ma che si reputano
troppo duri e puri per dedicarsi al banale tran-tran di diffondere,
le idee e tenere in piedi una rete organizzativa.
Passare da «qui» a «là» è
un processo, non un'azione esemplare. E sarà sempre segnato
da incertezze, fallimenti, deviazioni e dispute prima di trovare
la sua direzione. Né è detto che lo spazio di
una vita sia sufficiente perché si verifichi una mutazione
radicale. I rivoluzionari di oggi devono trarre la propria ispirazione
dai grandi idealisti del passato, in particolare della storia
francese o russa, che pur sapendo di avere poche probabilità
di assistere ai sommovimenti da loro auspicati, si sono comunque
adoperati con tutto il loro impegno e convincimento per farli
accadere. La volontà rivoluzionaria infatti non è
solo un impegno per cambiare il mondo: è anche un imperativo
interiore a salvaguardare la propria identità dalla corruzione
di una società che degrada la personalità umana
con la promessa di denaro e status in un mondo totalmente privo
di senso.
È necessario creare una nuova politica che sappia sfuggire
alle trappole del parlamentarismo e alle subdole gratificazioni
offerte dai media. Movimenti come i Verdi tedeschi sono già
saturi di vedettes che inseguono il successo personale, distruggendo
l'integrità, l'etica e lo slancio dei loro tempi eroici.
Questi nuovi programmi politici devono essere elaborati a partire
dall'effettiva situazione ambientale in cui le persone vivono:
la struttura abitativa, i problemi del quartiere, l'accessibilità
ai trasporti, il tasso di inquinamento, le condizioni sul luogo
di lavoro. Il potere deve essere continuamente restituito ai
quartieri e alle municipalità, sotto forma di centri
comunitari, cooperative, agenzie per l'occupazione e soprattutto
assemblee cittadine.
Il successo non è da misurarsi in funzione del favore
immediato che un movimento di questo tipo riesce a ottenere.
Inizialmente solo un numero relativamente ridotto di persone
lavorerà con un simile movimento, e pochi parteciperanno
alle assemblee di quartiere e alle confederazioni municipali,
eccetto forse quando si affrontano temi di particolare rilevanza
pubblica. Le vecchie idee e i metodi interiorizzati nella vita
di tutti i giorni sono lenti a morire, e i nuovi sono lenti
a crescere. Può accadere che gruppi di iniziativa civica
animati da grande fervore compaiano all'improvviso quando una
comunità si trova ad affrontare problemi come l'installazione
di una centrale nucleare o la scoperta di una discarica di materiale
tossico. Ma un movimento municipalista a orientamento ecologico
non deve mai illudersi che tali iniziative di massa siano necessariamente
destinate a durare: possono infatti svanire altrettanto rapidamente
di come sono comparse. L'unica speranza è che contribuiscano
comunque a sedimentare una tradizione cui far riferimento in
futuro e che l'attività educativa così svolta
resti patrimonio della comunità.
Esplicitare i propri ideali
Contemporaneamente, i membri più impegnati di un tale
movimento devono anche essere in grado di offrire una visione
di ciò che la società potrebbe diventare in futuro.
Ovvero devono non solo saper guardare lontano, in modo che altri
siano spinti a realizzare quegli obiettivi, ma essere anche
capaci di fornire soluzioni storicamente valide oltre che pratiche.
È sempre la società a dettare le regole del gioco,
alle quali anche i ribelli meglio intenzionati devono attenersi.
Se non lo si tiene sempre ben presente, è più
facile cadere in compromessi moralmente debilitanti, basati
su una ricerca del male minore che conduce invece al male peggiore.
Nessun movimento rivoluzionario può perdere di vista
la sua visione ultima di una società ecologica, se non
vuole perdere, un pezzetto alla volta, tutti gli elementi della
sua stessa identità.
Una tale impostazione deve essere espressa in modo chiaro e
inequivocabile in modo da non poter mai essere oggetto di compromessi.
La fumosità della visione ultima di socialisti e marxisti
ha apportato danni irreparabili permettendo che gli obiettivi
finali di quella visione potessero essere piegati alle esigenze
di una politica «pragmatica», fino alla rinuncia
della stessa ragion d'essere di quei movimenti. Viceversa, ogni
movimento deve chiaramente esplicitate i propri ideali, in modo
che essi possano entrare a far parte di un nuovo immaginario
politico e non si riducano a mere dichiarazioni programmatiche.
Un approccio di questo tipo è stato attuato in passato,
con discreto successo, da un gruppo come People's Architecture,
che si è preso la briga di ripianificare interi quartieri
di Berkeley, in California, dimostrando praticamente come potevano
essere resi più abitabili, comunitari ed esteticamente
attraenti.
Murray Bookchin
|