riflessioni
Letteratura senza aggettivi
di Giorgio Fontana
Qual è il ruolo di scrittori e scrittrici nella società e come si coniugano letteratura e impegno civile? Che senso ha raccontare storie? Esiste una letteratura libertaria? Lo scrittore e nostro collaboratore Giorgio Fontana propone una riflessione a partire dalla vita e dall'impegno di Stig Dagerman.
Questo è il testo della conferenza dal titolo Letteratura libertaria? Il caso Stig Dagerman tenuta all'Ateneo degli imperfetti di Marghera il 5 ottobre 2019, leggermente rivisto dopo alcune osservazioni scaturite nel dibattito. Grazie a Francesco Codello per l'invito, a Elis Fraccaro per la conduzione e il giro a Marghera, a Gigi Artusi per avermi mostrato largo Pinelli a Dolo.
GF
Nel suo saggio Il punto cieco, lo scrittore spagnolo Javier Cercas suggerisce
di “definire il romanzo come un genere che si prefigge
di proteggere le domande dalle risposte”: la risposta
alla domanda posta – una questione esistenziale, sociale,
o anche politica – è il romanzo stesso. Il romanzo
stesso, non una morale più o meno nascosta che il
lettore deve intuire dietro la storia.
Certo si può iniziare a creare perché mossi dallo
sdegno per le ingiustizie, o per amore di una causa: anzi, molto
spesso è una spinta estremamente salutare. Vale per il
romanzo così come per qualsiasi forma d'arte: fra i mille
esempi possibili, penso ai Funerali dell'anarchico Pinelli
di Baj o ad Alabama di John Coltrane. Ma quando la causa
stessa prende il sopravvento sul racconto – quando arrivano
le risposte chiare, diciamo – allora lo scrittore diventa
un politicante di basso rango o un prete. In entrambi i casi,
qualcosa di parecchio fastidioso. E d'altro canto non basta
affatto essere sdegnati per produrre qualcosa di artisticamente
valido: contempliamo l'opera di Baj e ascoltiamo il brano di
Coltrane perché sono bellissimi; se fossero brutti, avrebbero
al più un valore documentario.
Ora: il tema dell'impegno civile in letteratura è stato
affrontato centinaia di volte, e non pretendo di aggiungere
nulla di particolarmente nuovo durante questa conferenza; se
possibile, però, vorrei indagare il tema ad uso di una
riflessione libertaria. Perché per uno scrittore che
ritiene scontato il suo ruolo nella società, il problema
si esaurisce subito. Ma per uno scrittore cosciente delle storture
del mondo il problema non è affatto esaurito: ancor più
se libertario, perché aggiunge alla sensibilità
verso i danni del dominio la rivendicazione dell'autonomia individuale.
Nessuno meglio dello svedese Stig Dagerman ha incarnato questo
conflitto, fino alle più tragiche conseguenze.
Cominciamo con qualche nota biografica. Dagerman nasce nel 1923
col nome di Stig Halvard Andersson ad Älvkarleby, un paesino
non molto distante da Uppsala. La madre non può permettersi
di crescerlo e lo lascia dai nonni, presso cui vive un'infanzia
felice che rimpiangerà spesso. Nel 1929 si trasferisce
a Stoccolma dove abita con il padre minatore e anarchico. Entrambi
i nonni muoiono nel 1940 (il nonno in particolare viene ucciso
da uno squilibrato) e questo fatto, come altri eventi luttuosi
per il giovanissimo Dagerman, sarà fondativo anche in
termini artistici; tutta la sua opera si confronta con la possibilità
eterna del vuoto e dell'insignificanza. (In un'annotazione egli
stesso ricorda di aver scritto una poesia per la morte dell'amato
nonno, che risultò del tutto insoddisfacente: ma da quella
vergogna e da quell'impotenza, nacque il suo desidero di scrivere
– “la capacità di raccontare cosa significa
essere in lutto, essere stati amati, essere lasciati soli”).
Nel 1941, a diciassette anni, entra nel circolo giovanile sindacale
di Stoccolma e inizia a collaborare con Arbateren, un
giornale sindacalista; ne sarà anche redattore per un
certo periodo. Nel 1945 pubblica il suo primo romanzo, Il
serpente: è un grande successo. Nel giro di quattro
anni scrive altri quattro romanzi di altissima qualità,
quattro testi per il teatro, uno straordinario reportage narrativo
dalla Germania occupata (Autunno tedesco) e diversi articoli
di carattere politico e sociale.
Il successo da un lato lo blandisce e dall'altro lo ripugna:
proletario, vede nello stile di vita borghese una forma di pericoloso
ottundimento, un'abiura delle origini. Il suo carattere tormentato
e la sua tendenza alla depressione non gli danno tregua, e progressivamente
sente di non poter essere più all'altezza dei compiti
che si era posto. È sempre più infelice. I progetti
si accatastano senza mai trovare compimento. Così, dopo
alcuni tentativi falliti, il 5 novembre 1954 si chiude nel garage
e si suicida con il gas di scarico dell'automobile. Ha trentun
anni.
Naturalmente questa morte getta una luce oscura sulla sua biografia
e sulla sua opera, in cui a posteriori è fin troppo facile
attribuire un destino. Sembra quasi una storia dello stesso
Dagerman: ecco un giovane geniale, di origini umili e grandi
idealità, condannato da sé stesso al tormento
e alla morte. Certo la sua fine andrà interrogata con
la dovuta attenzione, ma per ora dovremmo resistere, per quanto
possibile, a simili tentazioni. Parlare di vita e non di morte.
Di vita, sì: innanzitutto, Dagerman fu un anarco-sindacalista
convinto. Non si trattò di un ardore adolescenziale o
estetico – un ribellismo di maniera, un individualismo
scambiato per fede libertaria – che la maturità
avrebbe poi sedato. Anzi: aderì all'Idea senza mai rinnegarla,
e la sua opera di pubblicistica anarchica resta molto preziosa,
soprattutto perché corretta da un pessimismo critico
(come lo chiama egli stesso) che ricorda quello gobettiano:
una forma di anti-ottimismo, per meglio dire; la memoria ineludibile
del male e della tragicità. Nella selezione dei suoi
articoli pubblicata tre anni fa con il titolo La politica
dell'impossibile si trovano alcuni ottimi esempi di tale
attitudine, così come della prosa chiara e incisiva del
Dagerman giornalista. Ma si trovano anche – e mi interessa
di più ai fini di questo intervento – delle osservazioni
estremamente acute e oneste sul ruolo dello scrittore nella
società.
Cosa rende libertario un romanzo
C'è da fare una premessa. Il primo romanzo di Dagerman, Il serpente, fu stroncato dai critici marxisti perché ritenuto incomprensibile e solipsistico: non era “letteratura operaia”, nel senso piattamente comunista del termine. Questo libro non è stato ancora tradotto in italiano, ma abbiamo il secondo – purtroppo molto difficile da reperire – ovvero L'isola dei condannati, che prosegue sulla medesima linea stilistica. E in effetti leggerlo rispetto al Dagerman oggi più noto in Italia dà sensazioni strane: è un testo modernista con qualcosa di violento, di efferato persino; fin dalla prima riga veniamo sommersi da un diluvio di immagini e similitudini ardite; la trama è continuamente spezzata e in bilico fra sogno e realtà. Al netto di qualche estremismo giovanile (ricordiamo sempre che stiamo parlando di un ventitreenne), è certo grande letteratura, profondamente originale, capace di svelare il cinismo e la menzogna. Ma è letteratura libertaria? E per quanto riguarda i suoi lavori successivi?
A questo punto conviene aprire una parentesi.
Il punto di domanda nel titolo della conferenza non vi sarà sfuggito, e riflette una mia più vasta perplessità. Cosa di preciso renderebbe libertario un romanzo? Confesso di non avere le idee chiare. Il tema scelto, ad esempio un certo di tipo di protagonisti o la denuncia delle storture del dominio? Può essere, ma allora si tratterebbe di una semplice definizione di genere, un po' come i romanzi gialli. Inoltre un'ottica di mero giudizio del contenuto espelle del tutto la questione linguistica e formale, che resta invece di primaria importanza.
E ancora: un libertario dovrebbe leggere solo letteratura libertaria? O meglio: dovrebbe accordare preferenza alla letteratura libertaria, una volta arrivati a una qualche definizione condivisa? Mi auguro di no. L'arte ne uscirebbe mutilata: toccherebbe ignorare molti fra i più grandi capolavori della storia, che trattano di tutt'altro. Un mondo dove non è auspicabile leggere Proust o contemplare i quadri di Masaccio per me sarebbe terribile.
Insomma, la situazione sembra imbarazzante. Esistono una pedagogia libertaria, un'antropologia libertaria, una filosofia libertaria – perché dunque non una letteratura? Se però intendiamo l'aggettivo nel senso forte, come a delimitare il compito e il fine della narrativa stessa, la mia risposta è no, non esiste: o quantomeno non dovrebbe, sia perché credo che la letteratura non necessiti di aggettivi, sia perché darle prescrizioni mi pare un gesto ben poco libertario.
Possiamo senz'altro scrivere romanzi che si pongano come fine la propaganda dell'Idea; ma una cosa è la propaganda e un'altra la letteratura. La stessa valutazione di un testo in base a un un unico metro (molto lontano dalla bontà artistica) è deleterio. Ha detto lapidariamente Ingeborg Bachmann in una serie di conferenze cui fu dato il titolo, piuttosto appropriato, Letteratura come utopia: “se è vero che la radicalità di ogni forma di estetismo ci ha lasciato una sola certezza vincolante, questa è che i buoni sentimenti non bastano da soli a fare una buona poesia.” Già. Le storie devono avere le storie stesse come scopo; vanno salvaguardate nella loro purezza, proprio perché non cerchiamo in esse ammaestramenti facili o morali di qualsiasi sorta.
Questo non significa che i romanzi siano mero intrattenimento – benché non ci sia niente di male nell'intrattenimento in quanto tale. Ancora Javier Cercas, dal Punto cieco: “Non è vero che l'unico obbligo di un romanzo sia raccontare una buona storia e farla vivere al lettore; l'unico obbligo di un romanzo (o almeno il più importante) consiste nell'ampliare la nostra conoscenza di ciò che è umano, e per questo Broch affermava che è immorale quel romanzo che non scopre nessun frammento dell'esistenza fino ad allora sconosciuto.”
Non sarei così netto sugli obblighi del romanzo, ma Cercas ha ragione almeno sul punto essenziale. Noi non leggiamo soltanto per far passare il tempo. La letteratura non è un affaretto inoffensivo. Attraverso un rigoroso esercizio dell'immaginazione, essa dice moltissimo dell'essere umano e del mondo che lo circonda, costringendoci ad affrontarne la complessità e la diversità. Può produrre uno shock, un atto di risveglio o di illuminazione. Può cambiare del tutto le coordinate dello spazio cui siamo abituati, rivelarci quanto sconfinato è l'abisso sotto i nostri piedi. Può mostrarci cosa pensano individui diametralmente opposti a noi. In tal senso è una straordinaria e autentica forma di sapere e di crescita individuale e sociale – purché se ne riconosca la singolarità.
Noi facciamo conoscenza dei personaggi proprio come faremmo conoscenza di persone reali: da essi impariamo senz'altro qualcosa, ma sarebbe piuttosto cinico ed egoista considerare gli altri – che siano esseri finzionali o in carne e ossa – come materiale per la nostra formazione. Gli altri dovrebbero essere innanzitutto soggetti liberi, con cui noi interagiamo e cui dovremmo portare rispetto. Possiamo amarli. Possiamo odiarli. Ma non possiamo costringerli con la forza a essere come vorremmo, e questo un libertario dovrebbe saperlo meglio di ogni altro. Lo stesso vale per i personaggi dei romanzi; e per l'autore stesso.
Il volto individuale dell'umanità
Quando si impone o si legge uno scopo politico all'arte – per tutte le ottime ragioni di militanza del mondo – si fraintende totalmente il senso dell'arte stessa, e più ancora: si devasta uno spazio che dovrebbe rimanere al riparo, perché spesso ci offre qualcosa che l'ideologia non ci offre affatto: ovvero il volto individuale dell'umanità, a volte bello e commovente, a volte patetico e stupido e irritante, e a volte tutto insieme in un chiaroscuro.
Permettetemi di citare, da ateo, un filosofo cattolico: Jacques Maritain. Nel suo intervento sulla Responsabilità dell'artista, scrisse:
I poeti non vengono sul palco dopo pranzo per offrire alle signore precedentemente saziate di nourritures terrestres l'ebbrezza di piaceri che non hanno conseguenze. Ma non sono nemmeno i camerieri che porgono loro il pane della nausea esistenzialista, della dialettica marxista o della morale tradizionale, il manzo del realismo politico o dell'idealismo, o il gelato della filantropia. Forniscono all'umanità un cibo spirituale che è esperienza intuitiva, rivelazione e bellezza; poiché l'uomo, come dicevo durante la mia giovinezza, è un animale che vive di trascendentali. Platone, il Platone della Repubblica riteneva i poeti degli ingannatori, imitatori di imitazioni, perniciosi alla città, alla sua verità e morale. Alla fine, era bene espellerli dalla città. Sapeva che la poesia, finché resta poesia, non vorrà e non potrà mai diventare strumento dello Stato.
Ma nemmeno strumento del socialismo. Nemmeno strumento dell'anarchia. La responsabilità dell'artista sta in questo, nel non piegarsi a nessuna norma esterna al proprio dovere creativo. La bellezza di un'opera risiede anche nella sua diversità, nella sua impurità, nella sua assoluta particolarità, nel riconoscimento delle differenze, nella possibilità di scrivere di quel che vuole – anche di ciò che la propria visione del mondo tende a ritenere ambiguo, nemico o terribile. Anche per questo il riferimento di Maritain a Platone è interessante ma impreciso: la letteratura non imita strettamente la realtà, bensì ne crea una propria. Com'è possibile? Lo è. Ci inquieta? È bene che lo faccia.
Si tratta di una questione di onestà intellettuale – e anche politica: perché un'ideologia che abbisogna dell'arte per essere giustificata è un'ideologia che teme la libertà dell'arte stessa. Ce lo possiamo aspettare dai comunisti statalisti, ma i libertari dovrebbero essere gli ultimi al mondo a difendere una concezione simile. Anche a questo porta la “letteratura dell'impegno”: a una lista di buoni e cattivi sulla base non delle qualità estetiche, bensì della quantità di lavoro profusa per far sorgere il sol dell'avvenire. E temo proprio che la lista sarà redatta sempre da qualcuno con più potere di altri, o solo più cinico e interessato.
Tuttavia, l'analisi a questo livello resta ancora troppo grezza. Se parlare di letteratura libertaria è a mio avviso impreciso (o vago, o dannoso), è innegabile che vi siano scrittori la cui opera narrativa è intrisa di una sensibilità libertaria; o il cui rapporto con l'anarchismo, variamente declinato, ha fornito loro uno sguardo con cui affrontare il mondo – anche quello immaginario. È il caso di Camus, per fare un nome noto e per molti versi affine a Dagerman; ed è appunto anche il caso dello stesso Dagerman, su cui ora vorrei ritornare.
La scissione fra arte e militanza
Pensare alla creazione letteraria come a un gesto totalmente
astratto dalle proprie convinzioni e dalla propria visione delle
cose è irrealistico: dovremmo dunque dar conto di tale
fortissima sensibilità libertaria negli scritti di Dagerman
– che qui porto ad esempio di un discorso più ampio.
Dopotutto, è la stessa persona a collaborare con Arbetaren
chiarendo i concetti di utopia e anarchismo e a scrivere delle
inquietudini giovanili in Bambino bruciato.
Ritorniamo
allora al punto: il tema essenziale di Dagerman, come ha sottolineato
anche la sua studiosa Lotta Lotass, è la libertà.
Egli stesso scrisse di sperare in una “letteratura che,
senza alcun riguardo, combatta per i tre diritti inalienabili
dell'essere umano imprigionato nelle organizzazioni politiche
e di massa: la libertà, la fuga e il tradimento”.
Strettamente connesso alla libertà, direi quasi una sua
naturale filiazione, è il tema dell'odio per il potere.
E dell'auto-interrogazione: non vi sono mai certezze squadernate,
nei romanzi di Dagerman; i suoi protagonisti ambiscono spesso
a una purezza superiore ma possono essere anche piuttosto irritanti:
lo è Bengt, il “bambino bruciato” dell'omonimo
romanzo, chiuso nelle sue certezze adolescenziali; lo è
il Lucas Egmont dell'Isola dei condannati.
E poi una certa onnipresente angoscia. Dagerman scrive in una
Svezia isolata, a guerra finita, ed è un giovane intriso
di angoscia e solitudine e rabbia; ma sa che di questi sentimenti
si deve essere coscienti per essere liberi e autonomi. Basti
pensare al racconto Uccidere un bambino, un piccolo capolavoro
di dannazione. E non è un caso che Dagerman fu tra i
primi a introdurre in Svezia Franz Kafka, altro scrittore a
lui molto vicino e in cui non mancano determinati spunti libertari.
Potrei parlare anche di un certo anarchismo stilistico, ovvero
una rivendicazione fiera della propria autonomia, della ricerca
di una lingua nuova; ma forse mi spingerei troppo in là.
E non credo che sia questo il nodo fondamentale.
Perché il nodo fondamentale sta qui: ogni individuo che
si propone di migliorare il mondo – e che magari crede
nell'Idea, come Dagerman – non può che vivere in
modo tragico la scissione fra autonomia dell'arte e militanza
sociale. Non è sempre facile indossare i panni dell'artista
per poi levarseli facendo finta di nulla. Penso alle parole
di Camillo Berneri nell'articolo Il dilettantismo culturale:
Ci si può occupare del linguaggio negli animali, di
quel tal famoso passo di Tucidide, del vero significato del
Cogito, ergo sum cartesiano e di tutte quelle infinite
questioni che ad ogni passo della vita culturale aprono parentesi
di ricerche e di riflessioni? Sì e no. Sì nella
certezza di poter dare con una vita di studio tali messi di
risultati che compensino la rinuncia alla lotta, alla propaganda,
alla volgarizzazione. No, altrimenti. Non ci si illuda: conciliare
la vita dello studioso e quella del militante non si può
se non a scapito di entrambi. A meno che si abbia un ingegno
eccezionale; e anche in tale caso bisogna che le attitudini
intellettuali coincidano con le preferenze del cuore.
Ecco il punto. Forse Dagerman non seppe conciliare le attitudini
intellettuali con le preferenze del cuore; e quel terribile
5 novembre del 1954, quando si uccise con il tubo di scappamento
della sua auto, deve restare come un monito serissimo per chiunque
percepisca la problematicità dello scrivere. Il dilemma
fra essere solitaire ed essere solidaire (solitario
o solidale), così ben espresso da Albert Camus, trova
nella vita e nella morte di Dagerman un'espressione radicale.
La solitudine è indispensabile per l'artista; la solidarietà
è indispensabile per il militante.
Ma perché smettere di fare ciò che si ama? Nemmeno
chi svolge lavori di utilità sociale è al riparo
dal dilemma: si chiede molto allo scrittore perché tradizionalmente
è stato una figura d'avanguardia del pensiero, dell'impegno,
ma attenzione: da un lato lo si sovraccarica di ruoli non suoi,
dall'altro si rischia di ricadere nel consueto meccanismo della
delega. Si guarda la pagliuzza negli occhi dello scrittore,
o la trave, e va bene – sono il primo ad ammettere che
di pagliuzze e travi ne abbiamo davvero tante. Ma la propria?
Una volta che abbiamo convinto tutti gli scrittori alle ragioni
dell'impegno, il mondo sarà davvero migliore? Credo sarà
solo popolato di brutti romanzi e autori infelici.
Insomma: o si accetta il conflitto o si cede al compromesso
da qualche parte. Situazione lacerante che dobbiamo imparare
a gestire, io credo, anche attraverso una comunità di
affetti entro cui interrogarci di continuo: forse Dagerman si
uccise anche perché si sentì molto solo.
C'è un suo scritto del 1945, dal titolo significativo
Lo scrittore e la coscienza, in cui tutto ciò
viene messo sul tavolo nei termini più chiari. Dopo aver
respinto la critica che pretende dallo scrittore “comprensibilità,
sottomissione attiva e armonia” – la critica della
sinistra superficiale, diciamo – dice che lo scrittore
è “a parte forse il boia”, l'unico individuo
che ha ragione nel sentirsi in colpa, perché in apparenza
non produce nulla di concreto per gli esseri umani. Non sfama
nessuno, non costruisce tetti: e qualcuno un giorno potrà
dirgli: “Volevo del pane e mi hai dato delle poesie”.
Ancora una volta, per un autore risolto e comodamente adagiato
nel suo ruolo sociale, questo dramma non si pone; al più
ci farà sopra del sarcasmo. Quanti miei colleghi lo farebbero
oggi... Dagerman invece non dà mai per scontati il bisogno
e l'esistenza della letteratura: ma la conseguenza, come annota
lui stesso, è che la situazione si fa terribile. Usa
proprio questo aggettivo: terribile.
Le storie vanno dove vogliono
In effetti, come giustificare la propria opera davanti a un mondo dove l'infelicità e la diseguaglianza ancora regnano? Come ritenere la letteratura un bene essenziale, se si è anche impegnati a rimuovere le cause della sofferenza umana? Così lo scrittore, “che voleva scrivere per gli affamati, si rende conto che solo chi è sazio ha la calma necessaria per accorgersi della sua esistenza”.
Una soluzione possibile sembra essere quella di intervenire con inchieste, articoli militanti, documenti e risposte politicamente orientate. Che è quanto fece lo stesso Dagerman, e insieme a lui tanti altri. Ma se l'autore “prende seriamente la propria scelta di schieramento, non dovrà dedicare la sua poesia agli sfruttati?” Non dovrà quindi obbedire a quelle richieste di assoluta comprensibilità e armonia, di propaganda in fin dei conti, che gli vengono avanzate da chi non conosce il suo dramma, per i quali si potrebbe scegliere la propria forma espressiva “come il tipografo sceglie i caratteri”?
Torniamo così al punto di partenza: “La sua coscienza sociale entra così in conflitto con quella artistica, ed è un conflitto irrisolvibile”. Tant'è che alla fine Dagerman ne venne a capo soltanto con il suicidio – evento che, come dicevo, va inteso non solo in termini psicologici e individuali, che pure restano privatissimi e insondabili, ma come esemplificazione di un dramma più vasto; uno dei problemi essenziali della nostra storia culturale.
Nell'articolo Lo scrittore e la coscienza il suo unico suggerimento è di mettere le tende nel “bosco dei paradossi”, senza cercare un sentiero per uscirne. E lo ripete: lo scrittore deve “stabilirsi davvero nel bosco dei paradossi”. Aprendo gli occhi sulle contraddizioni ineludibili, ma allo stesso tempo affermando che la poesia ha ragioni proprie e non è “un gioco di società”. Due anni dopo tornerà sul tema in un altro pezzo, Il compito della letteratura è mostrare il significato della libertà. Titolo magnifico – “mostrare il significato” non vuol dire affatto “istruire le masse riguardo l'uso” – e forse la miglior approssimazione a una proposta: “Il grande compito della nuova letteratura proletaria sarà dunque quello di mostrare agli esseri umani che si trovano a metà strada sulla via della liberazione il significato della libertà, le responsabilità che comporta e il suo scopo”.
È allora questa una letteratura libertaria? È possibile una “letteratura libertaria”?
Per me no, come ho già detto; l'aggettivo cozza fastidiosamente con il sostantivo. È possibile una letteratura, la letteratura, molto semplicemente, che attraverso belle storie ci consente di pensare il senso e la pratica della libertà; che ci libera, essa stessa, dagli ingranaggi e dagli automatismi della vita quotidiana; e così facendo offre uno scorcio su un mondo altro, distopico o utopico, simile al nostro o del tutto diverso. Questo senza rimuovere la frizione che Dagerman denuncia, e limitandosi anzi ad affermare una cosa: nel racconto le cose non vanno come volete voi. Il racconto è di per sé l'espressione di un'alterità che può entrare in conflitto con la vostra, con la quale rapportarvi e arricchirvi, nella visione radicale dell'anarchismo: la libertà individuale non termina accanto a quella altrui ma lì comincia.
In effetti il romanzo moderno nasce come forma narrativa in cui la soggettività è autonoma e responsabile. Non vi sono più dèi su cui scaricare le cause delle proprie azioni: tutto è nelle mani dei personaggi, che non sono burattini ma individui. E nemmeno possiamo erigere nuovi dèi sugli altari vuoti dei vecchi, pena la fine stessa di questa grande forma narrativa, che vive invece della problematicità.
Non vi piace come Dagerman ha ritratto il suo Bengt in Bambino bruciato? Avete tutto il diritto di chiudere il libro e andarvene, ma non potete – davvero non potete – imporre a Bengt e all'autore che le cose vadano diversamente. “Se si potesse decidere del destino dei personaggi”, ha detto Umberto Eco in un intervento al Festivaletteratura di Mantova, “sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove vuole trovare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?» La vera lezione di Moby Dick è che la Balena va dove vuole.”
Sì: la Balena va dove vuole. Le buone storie non offrono
prediche consolatorie o agiografie, proprio perché non
si piegano a schemi preconcetti; vengono semplicemente raccontate.
Con questo ci migliorano? Ci possono rendere più buoni,
più gentili – più libertari? Non è
affatto detto, e non è nemmeno il loro scopo primario.
Una sinfonia di Brahms non fu svilita dal fatto di essere apprezzata
anche da un gerarca nazista; il fatto non fa che gettare altro
mistero sul mistero1.
Per Dagerman, forse, il mistero divenne un peso che lo trascinò a fondo – insieme al timore che le sue parole non fossero più all'altezza delle sue severissime aspettative, e che non contribuissero a edificare una società più giusta. Aderire a due ideali tanto duri è molto difficile, e chi offre morali spicce non ha mai vissuto la lacerazione dentro di sé. In Dagerman essa non fu mai lenita; in un certo senso è la glossa più autentica all'opera dello scrittore svedese, che vive dello scacco e del tormento e rifugge qualsiasi semplificazione.
Ed è un monito che noi scrittori di oggi, con tutte le nostre manchevolezze, dobbiamo tenere presente – se non altro come forma-limite del solo vero impegno che come artisti ci è imposto: una responsabilità assoluta nei confronti delle parole. La stessa responsabilità che ogni individuo dovrebbe esercitare sul proprio, chiamiamolo così, campo di dedizione e amore.
Quanto al resto, per non cadere vittima della paralisi o della depressione, credo sia di nuovo utile ricordare le parole di Camus: “i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”. Non è il meglio, ma se fatto con chiara coscienza, è già qualcosa.
Fino all'ultimo giorno di vita Dagerman restò fedele all'anarchismo. Poco prima di suicidarsi andò alla redazione di Arbetaren, per consegnare la sua rubrica quotidiana – la numero 2067, per l'esattezza. Egli sapeva istintivamente che, ancora con Camus, la rivolta è una risposta all'assurdo, forse l'unica possibile; e nella rivolta credeva, benché apparisse impossibile nella Svezia pacificata di allora.
Ma benché si definisse proprio un “politico dell'impossibile”, l'assurdo per lui restò un peso troppo grande. Era troppo lucido e troppo onesto per ricorrere ai trucchi o alle giustificazioni cui si piegano molti intellettuali per dormire la notte. In questo il suo anarchismo fu insieme una salvezza e un pericolo: salvezza perché gli impedì qualsiasi forma di fariseismo; e pericolo perché prese terribilmente sul serio l'etica che lo animava, in un momento storico dove lo sbocco rivoluzionario non era praticabile.
Porto un solo esempio, per concludere. Nel 1951 Dagerman scrisse al suo editore Ragnar Svanström lamentandosi del periodo di sterilità e creativa, e allegando un foglietto divenuto celebre perché contiene una sorta di testamento scritto tre anni prima della sua morte. Si conclude così:
Porterò con me nel viaggio un'inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe:
QUI RIPOSA UNO SCRITTORE SVEDESE
CADUTO PER NIENTE
SUA COLPA FU L'INNOCENZA
DIMENTICATELO SPESSO2
“Sua colpa fu l'innocenza”... Direi che invece che l'eccesso di innocenza e l'incapacità di adattarsi furono davvero non la sua colpa, ma la sua massima virtù e allo stesso tempo la sostanza della sua condanna. Difficile davvero non sentirsi toccati e non praticare il contrario esatto di quanto Dagerman domanda, ricordandolo sempre con immenso affetto e ammirazione, e ricordare a noi stessi che non è affatto “caduto per niente”.
Ma c'è di più. Il suo biografo Georges Ueberschlag nota che la conclusione di questo brano è un pastiche, una piccola imitazione della poesia di Erik Blombergen in memoria degli operai di Ådalen, fucilati durante lo sciopero del 1931. Nulla può distruggere certi legami, cancellare la fedeltà verso i più deboli; e qui, nel cuore del dramma, solitaire e solidaire sembrano unirsi in maniera commovente.
Giorgio Fontana
- Durante la discussione che seguì la conferenza, Elis Fraccaro ha attirato l'attenzione su un punto molto interessante: entrando in vera relazione con l'oggetto artistico, l'individuo cresce anche in termini di libertà, poiché questo tipo di relazione – Elis faceva l'esempio di un quadro di Duccio da Boninsegna da lui molto amato – è una forma d'amore. Proprio come l'anarchia.
- In italiano si può leggere in S. Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, traduzione e introduzione di F. Ferrari, Iperborea, Milano 1991, pp. 37-38.
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