La riscossa dei visi pallidi
L'elettorato e il diffuso consenso all'attuale presidente USA provengono da un mix di segmenti della popolazione molto variegato, che comprende una marea di gente comune proveniente da tutti gli strati sociali e che in qualche modo si identifica con il mito della supremazia bianca. Viaggio nell'America trumpiana, vista anche dall'ottica del super-meticcio Liborino Morales.
La relazione fra bianchi e gente di colore in questo paese è la grande, decisiva, imprescindibile questione che la nazione deve risolvere.
(Frederick Douglass, 1890)
Liborino Morales, per tutti Libo, frutto di strani incroci
di destini, è ai miei occhi la prova vivente di un'America
necessariamente meticcia. Libo discende da un miscuglio di genti
in fuga da guerre, persecuzioni e schiavitù, che trovarono
rifugio sulla costa atlantica e, per caso o per bisogno, si
incontrarono. Nelle sue vene scorre, in misura che a lui non
importa quantificare, sangue ebreo, cherokee, afroamericano,
celtico. Sarà forse per questa mescolanza di culture,
lingue e ricordi tramandati da antenati strani e affascinanti
che Libo ha finito per diventare anche un libertario, uno fuori
dagli schemi, nel cui cuore il patriottismo proprio non attecchisce.
Un anarchico per forza di cose.
Non sarà un caso nemmeno che abbia finito anche per inventarsi
il lavoro: incapace di pensarsi in giacca e cravatta, seduto
a una scrivania ai piani alti dei grattacieli, ha finito per
diventare una specie di guaritore, a metà strada fra
il terapeuta e il musicista. Gli chiesi una volta cosa c'entrasse,
in quella storia familiare, il cognome evidentemente messicano
e mi rispose sorridendo che quello se lo era inventato il padre,
a cui il cognome di famiglia non piaceva e che preferiva le
sonorità latine apprese dai migranti centroamericani.
Ecco l'America capace di sorprendermi: il poco fascino che mi
resta per questa città è legato alla possibilità
di incontrare gente così fra i milioni di individui che
si muovono senza sosta, a caccia di denaro, su quest'isola-formicaio.
Libo, discreto, sorridente, ironico, non poteva non restarmi
simpatico. Ha la pelle chiara ma non ci fa caso, non gli interessa.
Non hai mai avvertito la necessità di definire la sua
appartenenza. Ultimamente ho appreso che anche in questo potrebbe
rappresentare un'eccezione.
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New York - Campagna anti Trump davanti alla sua abitazione. Il cartello con le frecce puntate verso il grattacielo e la scritta “Shithole” (letteralmente: posto di merda) è un esplicito riferimento al termine usato da Trump per classificare i paesi centroamericani |
Ma il Caucaso dov'è?
Negli ultimi anni sociologi e politologi si sono affannati
a studiare l'inattesa ascesa al potere di Donald Trump e dalle
analisi è emerso un dato che ha stupito gli studiosi:
la vittoria del tycoon sarebbe maturata fra cittadini di varia
provenienza, uniti da un risorto o mai sopito sentimento comune
di appartenenza all'America “bianca”. Operai, impiegati,
dirigenti, commercianti e casalinghe avrebbero aderito entusiasticamente
al programma del candidato inusitato perché spaventati
dai cambiamenti in atto nella composizione etnica del paese
e uniti dalla paura di perdere i privilegi di cui storicamente
hanno goduto come gruppo maggioritario che da sempre detiene
l'egemonia del potere. Con i suoi attacchi a immigrati e rifugiati
e il suo linguaggio spregiudicato e violento, Trump avrebbe
colpito nel segno, attraendo a sé milioni di americani
scontenti, delusi, furiosi con l'establishment politico, rappresentato
alle elezioni del 2016 da Hillary Clinton.1
La questione è confermata da indagini su campioni significativi di elettori e costringe a riflettere su cosa sia, oggi, questa persistente identità “bianca”, in un grande paese popolato da migranti arrivati da ogni angolo del pianeta. In fondo noi “visi pallidi” abbiamo alle spalle storie, culture e lingue assai diverse ed è solo la melanina a renderci simili, coi vantaggi che comporta l'aver chiara l'epidermide.
Negli anni settanta, a seguito delle lotte anti-segregazioniste, parlare di colori della pelle divenne improvvisamente impopolare, nel discorso politico e nel linguaggio burocratico i neri diventarono “afroamericani” e i bianchi “caucasici”, sebbene la maggioranza non fosse nemmeno in grado di localizzare il Caucaso su una carta geografica.2 Oggi quel termine è caduto in disuso, i bianchi sono di nuovo bianchi e restano la parte privilegiata della società, ma in declino: gli USA sono arrivati infatti alle elezioni del 2016 con il corpo elettorale più diversificato della storia in termini di provenienza etno-geografica e le proiezioni demografiche indicano che, col trend attuale, entro una ventina d'anni i bianchi non saranno più maggioranza. Come in uno di quei film catastrofisti di cassetta, gli interessati, spaventati dal virus che sta infettando la loro società, alla prima occasione hanno reagito, galvanizzati dal nuovo leader che tuonava dai palchi promettendo espulsioni, muri e leggi draconiane contro tutti gli “invasori”.
Il sogno di un'America bianca
Negli Stati Uniti, a dispetto dell'evidenza scientifica, ancora
oggi ci si riferisce agli esseri umani, senza imbarazzo, in
termini di razza, una parola che non suscita sconcerto
nemmeno fra gli antirazzisti. La democrazia americana, del resto,
è stata tormentata dal problema razziale fin dai suoi
albori e non vi sono dubbi che la felicità promessa a
tutti gli uomini dai padri fondatori fosse inizialmente indirizzata
solo ai colonizzatori europei: gli schiavi restarono infatti
deliberatamente esclusi dal testo finale della Dichiarazione
di indipendenza e i nativi vi furono descritti esplicitamente
come minaccia da eliminare.3
Non a caso la prima legge sulla cittadinanza, approvata nel
1790, limitava il diritto di naturalizzazione alle persone “bianche
e libere” e, con l'arrivo delle prime ondate migratorie,
le norme addirittura si inasprirono, perché si rese necessario
definire meglio il concetto di “bianchezza”.4
Negli anni quaranta e cinquanta dell'ottocento, ad esempio,
l'arrivo degli irlandesi, profughi della grande carestia, provocò
una forte opposizione, coagulatasi nel movimento bianco “nativista”
Know-Nothing, che a sua volta diede vita all'American
Party, ferocemente anticattolico e anti-immigrati, per il quale
gli irlandesi rappresentavano una minaccia alla tradizione anglosassone
e protestante. La stessa sorte è toccata nel tempo agli
immigrati provenienti dal Mediterraneo.
Sentimenti comuni che, ormai quasi un secolo fa, F. Scott Fitzgerald,
nel Grande Gatsby, ambientato all'inizio degli anni venti del
novecento, fa riassumere da Tom Buchanan, in conversazione con
la moglie: “Se non stiamo allerta la razza bianca verrà
completamente sommersa. Sta a noi, razza dominante, impedire
che queste altre razze assumano il controllo”.
Fra le “altre razze” c'erano all'epoca anche i migranti
italiani. Quelle poche parole messe in bocca al personaggio
di Fitzgerald bastano a mettere in luce i mutamenti in corso
in un periodo turbolento, caratterizzato da tensioni e frequenti
rivolte, preludio di norme migratorie ancor più restrittive.
I legislatori dell'epoca sognavano infatti un'America il più
possibile bianca, credevano nella superiorità dei popoli
germanici e tentarono di controllare la composizione etnica
del paese, impedendo o limitando l'ingresso ad asiatici, mediorientali
e sudeuropei.
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New
York - La Trump Tower sulla quinta strada dove risiede la famiglia Trump |
Gente ammalata di luoghi comuni
Nel 2016 gli analisti si erano affrettati a interpretare la vittoria di Trump con l'imprevisto sostegno offerto al candidato repubblicano dai lavoratori, delusi dal partito democratico, impoveriti dalla delocalizzazione del settore manifatturiero e minacciati dalla competizione di una crescente immigrazione. Gli studi sociologici di questi anni dimostrano invece che il trumpismo si estende ben oltre operai e impiegati massacrati dalla globalizzazione. Tra i tifosi del ricco palazzinaro c'è di tutto. Si tratta, in larga misura, di gente che vive nel relativo isolamento della grande provincia americana, cittadini che spesso condividono bassi livelli di istruzione e scarsa conoscenza del mondo e della storia. Gente, insomma, ammalata di luoghi comuni, con la TV sempre accesa, facili prede di commentatori sponsorizzati e pastori evangelici infervorati. Sono in stragrande maggioranza bianchi e determinati a rivendicare i privilegi che ritengono spettino alla loro “razza”.
Secondo il sociologo George Lipsitz, la “Whiteness”, la convinzione di appartenere a una specifica razza bianca superiore per definizione, “è diffusa ovunque, sebbene sotterranea e difficile da individuare”.5 Migliaia di interviste raccolte fra i campioni selezionati per le ricerche sul campo mostrano che i contenuti e le forme di questa identità sono multiformi e vanno dal vero e proprio orgoglio di appartenenza alla “razza” che ha portato la civiltà nel nuovo continente, fondando la nazione più importante della storia, alla semplice constatazione che essere bianchi conviene in quanto si hanno maggiori privilegi, miglior accesso all'istruzione, maggiori opportunità lavorative e minori probabilità di essere perseguitati dalle autorità.
Conclude Ashley Jardina: “Sebbene uno dei grandi miti americani sia l'orgoglio di essere una nazione di migranti, in realtà l'America bianca, fin dalla sua fondazione, non ha mai guardato favorevolmente all'immigrazione, nella convinzione che ogni nuova ondata di arrivi comportasse conseguenze negative. I risultati delle ricerche confermano che questo atteggiamento è rimasto prevalente e invariato nel corso del tempo”.6 I visi pallidi, barricati dietro le recinzioni dei loro giardini, guardano con inquietudine ai cambiamenti in corso, spaventati dai tratti stranieri che si insinuano nelle comunità e ne mutano il volto.
A inizio anno il Washington Post ha segnalato un significativo fatto di costume: un Twitter partito dal Tennesse, contenente la frasi più controverse di una famosa intervista rilasciata da John Wayne nel 1971 alla rivista Playboy, è diventato rapidamente virale, diffondendosi per tutti gli States, suscitando sconcerto e reazioni critiche ma raccogliendo anche una valanga di “Like”. Cowboy sul set e nella vita, il popolare attore, convinto testimonial del maccartismo, si era lanciato all'epoca in una serie di pesanti affermazioni razziste e omofobe, dichiarandosi tra l'altro convinto sostenitore della “supremazia bianca”. L'apprezzamento di molti per quelle sprezzanti affermazioni, a distanza di quasi mezzo secolo, mostra che certe idee sono più vive che mai. “Anche il marito di Hillary giocava a golf negli anni novanta in un club per soli bianchi”, ha rilanciato una tale Dana Loesch nel suo commento al Twitter galeotto. Vero: il giovane Bill Clinton, già governatore dell'Arkansas, frequentava un esclusivissimo club da cui i non bianchi erano esclusi. Una vecchia storia che l'ex presidente democratico era riuscito a cancellare dalla memoria collettiva è inaspettatamente riemersa, mettendo in luce che lo spettro della “Whiteness” non è prerogativa esclusiva dei conservatori.
Un progetto rimasto incompiuto
Dovrò parlarne con Libo, per capire cosa ne pensa lui
di tutto questo orgoglio bianco che mi circonda, ma sono quasi
certo che finirà con uno dei suoi sorrisi imbarazzati.
Rispetto a presidenti di buona famiglia, attori-cowboy e predicatori
telegenici, lui è proprio di un altro mondo.
Mi torna in mente Frederick Douglass, il grande oratore figlio
di una schiava violentata dal padrone, nato schiavo e destinato
dalla legge a restare tale a vita. Dopo una fuga rocambolesca,
dalle piantagioni del Maryland alla costa atlantica, Douglass
finì per affermarsi come uno dei maggiori intellettuali
e attivisti americani del suo tempo, arrivando a influenzare
lo stesso Lincoln. La sua autobiografia, asciutta e lucida denuncia
dello schiavismo, è oggi un classico della letteratura
americana, punto di riferimento per gli studi storico-politici
e romanzo di formazione per gli studenti.7
L'America sarebbe più povera se Douglass avesse obbedito
alla legge e accettato il destino che era stato scritto per
lui, col divieto di imparare a leggere e a scrivere e l'obbligo
di servire a vita padroni ignoranti, violenti, avidi e meschini.
Con la sua vita e le sue opere Douglass ha mostrato all'America
e al mondo quanto assurda sia l'idea di una naturale supremazia
bianca. Come il papà di Libo, anche lui, da uomo libero,
si scelse un nuovo cognome, scrollandosi di dosso quello imposto
dal padrone.8 Lo storico Michael
Lind non esita a definirlo “il più grande fra gli
americani”, perché il misero schiavo, fuggitivo
e braccato, è stato capace di andare ben oltre la sua
drammatica vicenda personale, finendo per elaborare l'idea di
un'America post-razziale e proponendo ai suoi concittadini la
nascita di un movimento politico e culturale che trascendesse
i concetti di razza, religione, sesso e nazione, sfidando gli
americani a ridefinirsi come comunità.
Un progetto rimasto incompiuto di cui più nessuno ha
memoria. Certi americani sognano invece di tornare ai privilegi
di un tempo, abbarbicati a un'idea di superiorità che
già un secolo e mezzo fa si era infranta fra le vibranti
parole di un ex schiavo.
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Vagli di Sotto (Lu) - La statua di Trump |
Colore della pelle e bandiera: nessuna importanza
Con Libo ogni tanto chiacchieriamo di queste e altre cose, affacciati al balcone del suo salotto. Guardiamo la città che ondeggia là sotto, lontana, tumultuosa, colorata. Seguiamo con gli occhi il movimento incessante del formicaio umano che scorre sui marciapiedi. Con le braccia magre appoggiate al parapetto, Libo mostra le vene leggermente rigonfie e mi viene in mente che lì dentro scorre il sangue di generazioni di schiavi fuggiaschi, indiani superstiti, ebrei sopravvissuti all'olocausto, celti scampati alla fame o ai razziatori.
Nella testa ha i racconti, lontani ma ancora vivi, di antenati per me misteriosi e affascinanti. Non sa che farsene dei miti consumati di patria e nazione, della bandiera, della pelle bianca solo per caso. Ma i dubbi si affastellano nella sua testa e a volte non sa più se abbia davvero senso continuare a vivere da questa parte dell'Atlantico. Sempre più spesso parla di andar via, ma non penso che possa davvero lasciare la sua città. In fondo Trump è solo uno dei tanti pazzi finiti al potere; prima o poi sparirà e altri ne verranno.
Ma New York sarebbe davvero poca cosa se tutti quelli come Libo partissero per un qualche esilio volontario. Se il sogno di Frederick Douglass è oggi sommerso da un mare di retorica, qualcuno dovrà pur fare qualcosa per farlo riemergere, anche solo continuando a vivere come Libo, come se il colore della pelle e quelli della bandiera non avessero davvero alcuna importanza.
Santo Barezini
- Le conclusioni di questi studi sono riassunte tra l'altro nel volume White Identity Politics (Cambridge University Press, UK 2019), curato da Ashley Jardina, docente di Scienze Politiche alla Duke University della Carolina del Nord.
- La definizione dei tipi bianchi come caucasici deriva dalla classificazione delle razze umane realizzata al principio del XIX secolo dall'antropologo tedesco Johann F. Blumenbach, il quale sosteneva che nella Georgia cuacasica si trovassero i migliori esemplari della razza bianca e che in tale regione avesse avuto origine la nostra specie.
- I nativi sono descritti nella Dichiarazione di indipendenza come “indiani selvaggi senza pietà”.
- “Whiteness” nei testi dell'epoca.
- George Lipsitz, The possessive investment in Whiteness: How White People Profit from Identity Politics, Temple University Press, Philadelphia, 1998.
- A. Jardina, White Identity Politics, pp. 184.
- Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, Written by Himself, Boston, 1845.
- Nato Frederick Bailey, nel corso della fuga aveva assunto prima il cognome Stanley poi Johnson. Il cognome definitivo Douglass deriva dal personaggio principale del poema di Walter Scott Lady of the Lake, pubblicato nel 1810, utilizzato come libretto da Gioacchino Rossini nel 1819 per l'opera La donna del lago.
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