I favolosi anni Ottanta
Dentro ai favolosi anni Ottanta noi c'eravamo. Io c'ero, c'ero proprio dentro e con tutti i miei vent'anni addosso. Ai ragazzi dei vari circoli e centrisociali che mi chiamano oggi a raccontare spiego che non è come dicono alla televisione nei programmi di revival: si era impegnati in una specie di guerra contro il mondo e il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso la nostra vita meno difficile.
Ricordo bene che nei nostri discorsi di allora non c'era così tanto posto per vestiti accessori e pettinature, per i duranduran o per gli spandauballé: passando allegramente e disperatamente attraverso il 1984 orwelliano tra noi si discuteva piuttosto spesso di casini in famiglia e di lavoro che non si trovava se non in nero, di repressione e di spazi da reclamare, di centrali atomiche e guerra nucleare.
Il “non futuro” punk era diventato un buco nero di disoccupazione e sfruttamento in cui ci si ritrovava incastrati. Un'oppressione complessiva e schiacciante: in Italia si erano attraversati gli anni di piombo e comandavano la democrazia cristiana e il partito socialista, da questa parte dell'Atlantico si viveva nell'ombra sinistra dell'asse Reagan-Thatcher e del possibile conflitto tra i blocchi dell'Est e dell'Ovest in Europa, il muro di Berlino era saldamente in piedi, c'erano ancora sulle carte geografiche e nella realtà politica e sociale la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l'Unione Sovietica... e soprattutto c'era appena stato l'incidente di Chernobyl - un guasto terribile ad una centrale nucleare che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica, si riusciva a vederne chiaramente i contorni, a toccarli, a inghiottirli, a respirarli.
Per chi come me e i miei amici abitava in una città di stabilimenti chimici, fabbriche di plastica e raffinerie il pericolo era particolarmente sentito. Non è che allora noi ragazzi si vivesse così tranquilli, a cazzeggiare tra new wave, DX7, tendencias e sorrisi di socializzazione.
Paura come pane quotidiano
Se vi affidate ad un qualsiasi motore di ricerca e vi mettete
a cercare la stringa “fear this” in internet potrete
trovare - fra l'altro - una salsa piccante, una scuola guida
per adolescenti organizzata da genitori americani apprensivi,
addirittura un allevamento di maiali da competizione attivo
da un secolo e più.
Questo mese voglio parlarvi invece di tutt'altra cosa: avevamo
chiamato così, “F/Ear this!” (l'idea era
venuta a Vittore Baroni), un album doppio pubblicato fra la
fine del 1986 e l'inizio del 1987 da P.E.A.C.E. - stava piuttosto
banalmente per “piccole etichette associate contro l'emarginazione”,
una sigla appiccicata sopra ad un assembramento del tutto informale
di attivisti fanzinari, gruppi musicali e piccole etichette
discografiche italiane che comprendeva Blu Bus [Franti etc.],
Particolare Music [Plasticost], Rockgarage, Trax [Vittore Baroni,
Piermario Ciani etc.], Ut/comunicazioni [Giacomo Spazio], Catfood
Press [questo sono io, prima di stella*nera] e Tunnel Records
[Detonazione].
Di “F/Ear this!” avevamo fatto uscire una versione
su vinile e una su cassetta, rispettivamente in una tiratura
di 1200 e 500 copie. Ai due dischi era allegato un libretto
di 28 pagine formato A4 in carta riciclata, assemblato da Vittore
con del materiale grafico spedito dai vari musicisti partecipanti
assieme ai loro nastri, e immagini tratte dagli archivi della
Trax.
Non eravamo in grado di pagare alla tipografia una tiratura
maggiore, quindi per le cassette ci si è dovuti arrangiare
con qualche fotocopia fatta di straforo al lavoro.
L'idea dietro a “F/ear this!” era di mettere insieme,
chiedendo aiuto ad amici musicisti, grafici e poeti sparsi un
po' ovunque, dei contributi collegati o collegabili a un tema
comune: la “paura”. Paura era un qualche cosa che
vivevamo e condividevamo tutti, come pane nero quotidiano e
avvelenato: facciamo qualcosa allora, cerchiamo di protestare,
di alzare il volume. Cerchiamo di diffondere, di mobilitare,
di passare la parola e condividere il senso di allarme.
Eravamo un'accozzaglia di fanzinari e musicisti, ci siamo detti
facciamo un disco: era una cosa che grossomodo sapevamo fare.
Facciamo un disco allora, e mettiamoci dentro quello che noi
siamo, oltre che la nostra musica ficchiamoci dentro anche tutto
il nostro disagio e la nostra ansia. Da quanto siamo riusciti
a raccogliere è evidente che la nostra paura era un fatto
complicato e non passava per la strada più facile, attraverso
gli stili espressivi abituali tipo canzoni di protesta, la new
wave allora in voga e gli slogan punk tipo fotti-il-sistema,
tutte cose che comunque non sentivamo come nostre.
Con i miei compagni abbiamo messo in moto un meccanismo di passaparola
che, nonostante qualche complicazione e gli inevitabili incidenti
e ritardi (mica c'era internet, allora), ha funzionato e ha
pure portato con sé delle sorprese: presto sono arrivati
contributi da mezzo mondo, poesie, disegni, ore e ore di registrazioni.
Proprio come si sperava le forme espressive raccolte sono le
più varie, spaziano dall'improvvisazione al rumorismo,
si sono sperimentate contaminazioni e ibridi sonori. Hanno partecipato
musicisti sconosciuti ma inaspettatamente anche qualche nome
noto, come gli inglesi Nurse With Wound, i Doctor Nerve da New
York City e i tedeschi Embryo. Tutti hanno collaborato gratuitamente
e spontaneamente.
Non ci si aspettava però una risposta di così
grosse dimensioni: fra l'estate e l'autunno del 1986 siamo stati
sommersi da un'esagerata quantità di posta - bobine,
cassette, disegni, cose scritte, decine e decine di proposte.
Presto ci si è resi conto che non sarebbe bastato un
disco soltanto ed era necessario affrontare un problema che
non avevamo previsto: dovevamo per forza lasciare fuori qualcosa
e, peggio, dovevamo lasciare fuori qualcuno. Tanti contributi
hanno però continuato ad arrivare per mesi, anche quando
il disco era già stato pubblicato.
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La
cover della prima versione di “F/Ear this!” |
La ricchezza del nostro stare insieme
“F/ear this!” è una di quelle raccolte ben
pensate ma male organizzate, fatte inseguendo il cuore, l'agitazione,
i sogni. Una di quelle iniziative cui noi ragazzi ci si ritrovava
ad aggregarsi e affollarsi intorno per tutto un misto di ragionamenti
e batticuori e simpatie e seghe mentali. Non importava niente
se uno suonava in un gruppo punk oppure dark o sperimentale:
non ci si curava delle forme espressive, anzi ci si era accorti
che erano proprio le differenze a costruire la ricchezza del
nostro stare insieme.
Al tempo le raccolte fatte in questo modo erano cosa piuttosto
diffusa e popolare: indipendentemente dal valore artistico dei
contenuti (cosa che comunque si è venuta ad attribuire
solo in seguito), tramite la musica si raccoglievano fondi per
sostenere una grande quantità di iniziative. Fossimo
un gruppetto di poche pecore nere di paese o il collettivo organizzato
di una grossa città, ci si è impegnati dappertutto
in collette per le cause più diverse: per contribuire
alle spese legali a difesa di compagni incarcerati, per le famiglie
dei minatori inglesi in sciopero, per finanziare le incursioni
dell'Animal Liberation Front, più spesso per poter stampare
e diffondere i nostri volantini e fanzine, per colla e manifesti
e bombolette spray. Certo non si era ai livelli organizzativi
del Live Aid - non ce n'era neanche la pretesa a voler essere
sinceri - ma si riuscivano comunque a raccogliere delle cifre
anche di una certa consistenza.
Con i miei compagni di P.E.A.C.E. abbiamo deciso che i soldi
raccolti tramite “F/ear this!”, tolte le sole spese
di realizzazione, sarebbero finiti nei fondi neri di “A”:
la redazione aveva dimostrato nei nostri confronti curiosità
e una certa apertura sentimentale senza considerarci un fenomeno
sociologico, mettendo a disposizione dello spazio e dell'attenzione
per chiunque avesse delle cose da chiedere, proporre, comunicare,
discutere. Un giorno, si era nel primo 1984, la redazione di
“A” incuriosita dai miei interventi su Rockgarage
e Rockerilla - dove raccontavo spesso e volentieri di musicisti
indipendenti e punk anarchico - mi ha invitato a Milano a una
riunione, dove mi è stato proposto di scrivere un articolo
di prova. Sono da allora - il mio primo pezzo è stato
pubblicato su “A” 118, aprile 1984 - un collaboratore
fisso. Ho raccontato di “F/Ear this!” su “A”
146.
Alla fin fine con “F/ear this!” siamo riusciti a
malapena a rientrare delle spese: il grosso delle copie è
andato rubato, nel senso che i vari distributori “alternativi”
e “indipendenti” (qui le virgolette le ho messe
apposta) italiani e stranieri che avevano dimostrato un certo
interesse e senso di collaborazione - tolto qualche caso isolato
- non hanno poi pagato le copie che avevano preso, né
ci hanno consegnato del materiale in scambio come avevano promesso.
Addirittura quelli che ritenevamo più seri e affidabili
- i compagni, per dire. Per noi è stato frustrante doversi
ritrovare a fronteggiare comportamenti così scorretti
proprio nei giri autogestiti e marginali: mi sono convinto che
il baraccone che si autodefiniva come il circuito “alternativo”
e “indipendente” fosse solamente un travestimento
nuovo per i soliti vecchi lupi affamati - vedo che il tempo
poi mi ha dato ragione.
C'era una differenza reale tra “noi” e “loro”:
ciò che noi provavamo per la musica, la scrittura, il
disegno era una specie di impegno politico personale e nessuno
dei miei compagni sarebbe stato disposto a trasformarlo in un'attività
renumerativa. Non era affatto l'idea dei soldi - l'averne, il
farli, l'accumularli - a tenerci insieme, e penso che questa
fissazione di ventenni si sia trasformata poi nella nostra etica
fondante.
È stata la nostra linea di confine, la gravità
che ci ha costretto sotto l'orizzonte: invisibili ai radar dell'industria
dello spettacolo e di zero interesse per i media, siamo riusciti
a tenerci ben lontani da certi giri - soprattutto da quelli
giusti -, dalle partite IVA e dagli assessorati alla cultura,
dalle agenzie di intermediazione e da un certo sputtanamento.
È proprio vero, con “F/ear this!” non siamo
riusciti a rastrellare granché ma abbiamo imparato velocemente:
le altre iniziative a sostegno di “A” organizzate
negli anni a venire hanno avuto tutte un insperato successo
di pubblico, critica e diffusione.
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La
cover della nuova versione di “F/Ear this!” |
Chi vuole davvero sentire, sentirà
“(...) Questa non è una produzione di lusso: è una testimonianza di quello che facciamo, di come e di dove lo facciamo (siano le nostre stanze di casa o piccoli studi di registrazione). Nessuno pretende che una fanzine assomigli a riviste patinate come Vogue, quindi perché mai il suono di questo disco dovrebbe essere come quello dei gruppi in classifica?”
Questa scritta campeggiava sulla copertina di “Bullshit detector #2”, una delle raccolte collettive organizzate nei primi anni Ottanta dai Crass - uno tra i più conosciuti e seguiti gruppi anarcopunk inglesi: era come se ci fosse stata strappata dal cuore senza anestesia, tanto profondamente la condividevamo.
Parecchio del materiale raccolto su “F/Ear this!” circolava allora su cassette ed è stato realizzato con attrezzature assai economiche, per cui la qualità delle registrazioni paragonata agli standard di oggi è quella che è. Ma allora non ce ne fregava niente della confezione: l'importante era non restare fermi, non restare zitti: chi vuole davvero sentire, sentirà. Non ho affatto cambiato idea: come allora, anche oggi sono più concentrato sul significato dei messaggi che non sulla qualità tecnica della loro riproduzione.
Con l'aiuto tecnico e investigativo di Marco Giaccaria, Marco Milanesio e Guido Frezzato - che mai riuscirò a ringraziare abbastanza - sono state identificate e recuperate alcune delle registrazioni che allora erano rimaste fuori, come pure la copertina originale disegnata da Franco Raffin di Rockgarage, che al tempo era stata accantonata.
Che con l'andare avanti dell'età ci abbia preso l'angoscia da storicizzazione? O la nevrosi da ristampa? Macché. Nelle nostre intenzioni oggi non c'è proprio niente da recuperare, non desideriamo affatto metterci in mostra per chi è arrivato dopo, non è l'anniversario di qualcuno/qualcosa da festeggiare - men che meno la paura, che non se n'è mai andata. Che ha preso forme più sottili e subdole, che si muove più velocemente. Che continua a starci addosso, e a fare paura.
Ci interessava dissotterrare un documento sonoro rimasto al
buio per più di trent'anni, e che è stato avvistato
spesso in giro per il mondo nelle liste dei commercianti di
oggetti feticcio in forma di vinile rotondo, accanto a quotazioni
da collezionisti. Proprio dove non lo si è mai pensato,
né voluto pensare. Oggi come allora, “F/Ear this!”
non lo trovate in vendita nei negozi di dischi: per informazioni
maggiori, se volete metterci le orecchie sopra e volete procurarvene
una copia scrivete a stella*nera (e-mail: stella_nera@tin.it)
che, con Silentes e Dethector, si è occupata della ristampa
in due cd raccolti in un libro.
Desidero ringraziare ancora tutti i partecipanti per la loro generosità. Ne approfitto per ringraziare i miei compagni di viaggio di adesso: mi fa insieme riflettere e sorridere accorgermi che alcuni sono gli stessi di allora. Rifletto amaramente e non sorrido affatto invece, nel constatare che le nostre paure di allora sono praticamente le stesse che hanno oggi i nostri figli.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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