disegni di Mario Trudu
Ricordando Mario Trudu
Una morte atroce e ingiusta quella di Mario Trudu, quasi una
beffa dopo quarant'anni di carcere. Ma questa è “l'ostatività”,
il meccanismo che la Suprema Corte, nella pronuncia dell'ottobre
scorso, ha dichiarato incostituzionale.
Il
24 ottobre scorso, di sera, stavo passando, come spesso mi capita,
anche per scelta, del “tempo lento”, inventando
mondi con mio figlio Carlo. Improvvisamente ci troviamo in casa
un piccolo grillo nero e come per incanto sentiamo nitidamente
il suo frinire. Che meraviglia!
Carlo è un po' grillo, gli piace vivere la notte, allontana
il sonno, frinisce anche lui. Quella sera, come tante altre
volte, fatica ad abbandonarsi alla quiete del riposo. Poi, finalmente,
dopo salti e capriole, crolla. Mi resta il tempo, e poca lucidità,
per dare un'occhiata alle cose da fare l'indomani e al telefono.
Un messaggio mi dice della morte di Mario Trudu. Ma come? Mario
finalmente “fuori” dal carcere per operarsi, per
stare a casa, ma come? cosa è successo?
Prendo i libri di Mario, le sue lettere dal carcere. Non capisco,
non accetto, non riesco a dormire, anch'io allontano il sonno,
vado al pc e scrivo di getto alcune righe per la pagina facebook
del nostro progetto “Buon compleanno Faber” che
in questi anni è stato luogo del pensiero per/con Mario.
Chi è stato e cosa rappresenta Mario Trudu ce lo racconta
Monica Murru, avvocato e direttrice della Scuola forense di
Nuoro che ne ha seguito la vicenda giudiziaria (e umana). Sullo
scorso numero (”A” 439, dicembre 2019-gennaio 2020),
insieme a Carmelo Musumeci, lo ha ricordato anche Francesca
De Carolis, giornalista e curatrice dei lavori letterari di
Mario, Totu sa beridadi. Tutta la verità, storia di
un sequestro e Cent'anni di memoria (entrambi editi
da Stampa Alternativa) che ha vissuto “da vicino”
il percorso degli ultimi anni di Mario Trudu.
Gerry Ferrara
La vita
e la legge non sono uguali per tutti
di Monica Murru
Ho conosciuto Mario Trudu per il tramite della mia amica Francesca
De Carolis, dapprima in modo virtuale e “letterario”,
nel senso che, in qualità di avvocato impegnato sull'esecuzione
della pena, ho dato il mio contributo tecnico alle presentazioni
dei suoi libri e, solo in un secondo momento, personalmente.
Di lui – l'ho detto tante volte – mi hanno colpito
la profonda dignità, il riserbo, la stanchezza e le sue
braccia; braccia dai muscoli lunghi e nervosi che ti facevano
pensare che appartenessero a un uomo che aveva trascorso la
vita a zappare la terra, all'aria aperta e non chiuso dentro
una cella.
In breve sono diventata il suo legale, e con il tempo abbiamo
imparato a conoscerci, a confrontarci. Ci sono stati momenti
in cui penso di avergli chiesto molto, e in cui lui, a sua volta,
mi ha chiesto del tempo per riflettere, prima di darmi una risposta.
Come quando gli proposi di partecipare ad un tavolo di giustizia
riparativa, di incontrare le vittime o i familiari delle vittime
di sequestri di persone.
Era molto combattuto; l'idea di confrontare la sua via crucis
di sofferenza con quella di chi si trovava o si era trovato
dall'altra parte lo scuoteva e lo inquietava nel profondo perché
preoccupato, in ipotesi di adesione, di essere costretto a recitare
una parte, a non essere se stesso e, come tale, a mancare di
rispetto ai suoi potenziali interlocutori.
Una
volta rassicurato in merito – ricordo che gli feci dono
del Libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta
armata a confronto – mi scrisse dicendomi che si metteva
a disposizione e che valutava tale occasione come opportunità
per comprendere meglio se stesso e per far comprendere agli
altri chi era stato Mario Trudu e chi, nel frattempo, era diventato.
Purtroppo questo è stato un progetto, uno dei tanti,
che non siamo mai riusciti a realizzare.
Sono stata l'avvocato di Mario per cinque anni e spesso mi sono
ritrovata a pensare che stavo difendendo/assistendo un uomo
che era stato arrestato quando io, scolaretta decenne, frequentavo
la quinta elementare. Un uomo tenuto sottochiave per oltre quarant'anni,
senza sconti né pietà.
Come abbia fatto a sopportare una pena così lunga, così
inflessibile è cosa che mi sono chiesta tante volte,
soprattutto quando mi è capitato di ricevere alcune sue
lettere così intrise di pacata disperazione da farmi
dubitare dell'utilità del mio lavoro.
Il rigetto continuo e automatico delle mie istanze di permessi
di necessità, sempre più motivate e documentate,
mi raggiungeva ogni volta come uno schiaffo che mi impediva
per giorni di riprendere il dialogo con un uomo che mi sembrava
di contribuire a deludere, tanto che il 1° agosto del 2017
gli scrivevo: “Mario, ci sono rimasta molto male per il
mancato permesso del 6 maggio e quando poi Francesca mi ha riferito
che il periodo scorso, triste ed esasperato, aveva preso le
sue poche cose “reclamando” l'isolamento, mi sono
sentita ancora più inutile e dannosa. Mi sono sentita
come una che non mantiene le promesse, che parla e basta, che
agisce animata da buoni propositi ma ammaliata da un delirio
personale e ho avuto paura di aver contribuito a rendere più
grande la sua delusione, a farle desiderare di più la
sua solitudine.”
E una pena così lunga, così feroce – interrotta
solo da una manciata di ore di permesso in più di 8 lustri
– non poteva non avere riflessi su un corpo che pure non
ne voleva sapere di arrendersi. Di un corpo che ha chiesto inutilmente
e pervicacemente di poter far ricorso alle necessarie cure mediche
e che, fortunatamente, ha soffiato l'ultimo alito di vita lontano
da sbarre, cancellate e piantoni.
Mario è morto la sera del 24 ottobre scorso – all'indomani
della sentenza della Consulta che ha sancito l'illegittimità
costituzionale dell'ergastolo ostativo – stroncato dalle
conseguenze di una malattia che per anni è rimasta priva
di cure adeguate perché in carcere il diritto alla salute
non vale quanto quello degli uomini liberi.
Se n'è andato così, col sorriso amaro e i polmoni
esausti di chi ha vissuto una vita fatta solo di salite, ostacoli,
opportunità negate, perché la vita come la legge
non è uguale per tutti, perché molto dipende da
dove nasci e cresci, da quale periodo storico fa da cornice
al tuo essere o al tuo malessere, da quali persone incontri
o non incontri, da quale carcere e in quale distretto sconti
o meno la tua pena.
È difficile che qualcuno sfugga al proprio destino, soprattutto
qui in Sardegna dove gli antichi riassumevano l'ineluttabilità
della sorte con il celebre detto “si deus cheret e sos
carabineris lu permittini”, se dio vuole e i carabinieri
lo permettono.
So di aver provato a contrastare questo destino, usando tutti
gli strumenti legali e mediatici che avevo a disposizione per
farlo, ho anche pregato tanto che Mario riuscisse a tornare
a casa, seppure per poco.
Ho tenuto accesa la speranza anche quando era una fiammella
flebile come un fiammifero, anche quando avevo la percezione
che dall'altra parte ci si preparava a una resa rassegnata;
nella mia ultima lettera gli avevo scritto: “In questo
ultimo mese ho ricevuto tante telefonate e messaggi da parte
di persone che desiderano aiutarla e che mi esprimono solidarietà
in questa battaglia; persone che sono rimaste profondamente
colpite dalla sua storia.
Che dirle, Mario? Io non mi arrendo, è solo che mi sento
profondamente impotente di fronte alla sua disgrazia e mi dispiace
molto che lei, parlando di se stesso, si definisca la persona
più pesante sulla terra. Non è così. Pesante
è solo il destino che gli è stato riservato! Coraggio,
sono sicura che riuscirà a vedere il cielo”.
Monica Murru
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