Libera
sperimentazione
Ho letto con molto interesse l'articolo di Luigi Fabbri "Libera
sperimentazione" con introduzione di Pietro Adamo apparso
su A 256 (giugno '99). In particolare nell'introduzione si individuano,
a mio avviso, alcuni concetti e necessità fondamentali
per l'agire politico degli anarchici oggi.
Positivo inoltre mi appare l'uso di alcuni termini, come "revisionismo",
o "transizione", affermati come problematiche da affrontare
e non più come epiteti da scomunica. Penso anche io,
nell'accettazione malatestiana riportata da Adamo, che l'anarchismo
abbisogni di una revisione costante, senza cioè rifarsi
dogmaticamente ai padri, ma nell'intento di collocare quelle
riflessioni e quelle analisi alle contingenze attuali.
Non condivido però la visione eccessivamente schematica
e un po' caricaturale che Pietro Adamo disegna dell'anarchismo
storico e militante.
Un generico prima, dove gli anarchici cedendo e scimmiottando
il credo dei comunisti autoritari si dichiarano dogmaticamente
comunisti per quanto riguarda l'organizzazione economica futura,
e un dopo dove, in contrapposizione all'imposizione statale
di un unico modello organizzativo avvenuto nella Russia sovietica
dopo la rivoluzione d'ottobre, si fa strada una concezione di
"libera sperimentazione" di più vari modelli
sociali ed economici. Sarebbe solo il caso di ricordare che
la NEP (Nuova Politica Economica) non può essere certo
scambiata come una imposizione ed "espropriazione comunista"
da parte dello Stato sovietico dei piccoli priprietari, casomai
il contrario, e che i successivi Piani quinquennali o la collettivizzazione
forzata di staliniana memoria, più che un modello di
comunismo espropriatore, rappresentò una necessità
economica di un capitalismo arretrato che non l'imposizione
statale, cioè con la violenza organizzata, impose una
accelerazione alla propria accumulazione originaria. Qui la
discussione ci porterebbe veramente lontano e non è questo
che mi preme discutere.
Tornando a noi, non vi è mai stata questa separazione
tra un prima e un dopo nel movimento anarchico, anzi gli anarchici
fin dagli albori delle prime associazioni operaie e politiche
del movimento operaio internazionale si sono posti e caratterizzati
per una sorta di "libera sperimentazione" sia sul
piano politico che economico. Basti pensare alla spaccatura
all'interno della I internazionale ed alla battaglia ingaggiata
da Bakunin e dai suoi seguaci contro la Risoluzione n. 9 del
Consiglio di Londra ed in particolare alla tesi conclusive del
Congresso di S. Imier, (1872) da cui storicamente nasce l'anarchismo
organizzato a livello internazionale.
Queste, seppur riferite più ad un programma di azione
politica mirante alla trasformazione del modo di produzione
capitalistico, che non alla fase di transizione vera e propria,
rivendicano con forza una autonomia e un pluralismo di opzioni
da parte del nascen-te movimento operaio
internazionale. Leggiamo: "Considerando: che imporre al
proletariato una linea di condotta o un programma politico uniforme
come l'unica via che possa condurlo alla sua emancipazione sociale,
è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria; (...)
Che le aspirazioni del proletariato non possono avere altro
oggetto che la costituzione di un'organizzazione e di una federazione
economiche assolutamente libere, fondate sul lavoro e sull'uguaglianza
di tutti e assolutamenti indipendenti da ogni Governo politico,
e che detta organizzazione e federazione possono essere unicamente
il risultato dell'azione spontanea del proletariato medesimo,
delle associazioni di mestiere e delle comuni autonome"
ecc.
Per quanto riguarda poi la prospettiva del comunismo, come modello
economico di riferimento nella futura società, il movimento
anarchico non ha certo aspettato l'esperienza rivoluzionaria
bolscevica per poi ricredersi, ma fin dal 1880, al Congresso
della Federazione del Giura, Cafiero e con lui Kropotkin, si
fanno paladini convinti della necessità di definirsi
comunisti per quanto riguarda il modello economico di riferimento
superando la dizione generica di collettivisti, usata in quel
periodo dai nascenti riformisti. Cafiero in un passo dalla sua
relazione afferma:
"Un tempo ci denominavano collettivisti, per distinguerci
dagli individualisti e dai comunisti autoritari; ma, in fondo,
noi siamo semplicemente comunisti antiautoritari, e dicendoci
collettivisti, vogliamo esprimere con questo termine la nostra
idea che tutto deve essere messo in comune, senza fare differenze
tra gli strumenti e le materie di lavoro e i prodotti del lavoro
collettivo".
Che poi nella vulgata anarchica il comunismo fosse un processo
storico inevitabile del divenire umano e non tanto una scelta
volontaria e perseguita come fattibilità concreta dell'agire
delle masse oppresse dal giogo capitalistico, siamo anche qui
ad una forzatura da parte di Adamo, per lo meno relativa al
pensiero di quell'anarchismo più rappresentativo e militante.
Sempre Cafiero nello stesso Congresso afferma che "Non
si tratta soltanto di affermare che il comunismo è possibile:
noi possiamo affermare che è necessario. Non soltanto
si può essere comunisti, bisogna esserlo se non si vuole
mancare l'obiettivo della rivoluzione".
Quindi niente di ineluttabile, ma solo possibile, come scelta
volontaria da parte del proletariato internazionale e necessario
in seguito ad argomentazioni e valutazioni che la stessa relazione
di Cafiero affronta, sulle quali ora non mi soffermo. Inoltre
al Congresso di Amsterdam del 1907, congresso che rappresentò
la ripresa organizzativa del movimento anarchico specifico in
Europa, dopo gli anni bui della repressione degli internazionalisti
e delle azioni individuali da parte degli anarchici, gli organizzatori
e con loro fortemente il nostro Malatesta, in polemica con i
sindacalisti rivoluzionari soprattutto francesi, sono propugnatori
del dualismo organizzativo proprio rispetto all'erronea convinzione
della ineluttabilità del processo rivoluzionario in senso
anarchico e comunista delle organizzazioni operaie. Favorevoli
certamente alla presenza degli anarchici nei sindacati operai,
ma convinti della altrettanta necessità di esserci come
anarchici in quanto portatori di un progetto politico, niente
affatto spontaneo e ineluttabile, che orienti le masse, rivendicando
la necessità di una organizzazione specifica necessaria
alla propaganda dichiaratamente comunista ed anarchica. Ciò
vale per Luigi Fabbri, uno dei pochi militanti anarchici che
ha sempre mantenuto un'alta capacità di orientamento
e di elaborazione, forse maggiore dello stesso Malatesta. Usare
Fabbri del 1935 per revisionare il Fabbri del 1921 appare quindi
una operazione dubbia. Non vediamo, per dirla con Adamo, nessuno
scontro "fra cuore e cervello" da parte di Fabbri
tra le argomentazioni dei primi anni '20 e l'argomentare dello
scritto del 1935 sulla libera sperimentazione.
Non vi è la minima traccia di revisionismo in senso anticomunista,
nè tanto meno verso un ethos liberale aclassista
o antimaterialista a cui Adamo ama richiamarsi, ma la riconferma
di elaborazioni sufficientemente rigorose e ponderate a partire
dagli albori dell'anarchismo organizzatore, a cui Fabbri è
sempre stato legato, fino ai primi anni '20 ed in particolare
sul suo testo maggiore Dittatura e Rivoluzione.
La libera sperimentazione di cui parla Fabbri è la convinzione
che, dopo la rivoluzione vittoriosa quando le organizzazioni
del movimento operaio e le sue avanguardie spezzeranno con l'atto
rivoluzionario "le leggi del determinismo economico",
(1) si potrà e si dovrà,
nella fase di transizione ad una società finalmente senza
classi e senza sfruttatori, sperimentare diversi modelli economici
e sociali e che "per sottrarre il compito dell'espropriazione
dall'arbitrio individuale o di gruppi privati, non c'è
affatto bisogno di gendarmi, non c'è affatto bisogno
di cadere dalla padella nella brace della tutela statale: non
c'è bisogno del governo. Il proletariato ha già,
località per località, dovunque ed in stretto
rapporto le une con le altre una quantità di istituzioni
proprie libere, indipendenti dallo stato... altri organismi
collettivi si formeranno durante la rivoluzione, più
in armonia coi bisogni del momento".(2)
Del resto il testo di Fabbri del 1935 termina con una esplicita
riconferma di questa impostazione proponendo questa visione
pluralista e antistatalista rispetto alla futura struttura economica
nella fase di transizione: "La situazione di libertà
creata dalla rivoluzione" dice; siamo quindi dopo lo scontro,
questo si inevitabile, con la borghesia, "permetterà
anche ai seguaci del comunismo anarchico... di iniziare da parte
loro il proprio esperimento". Questo esperimeno non potrà
che generalizzarsi non certo con l'uso dello stato e delle leggi,
ma solo "quando al confronto con gli altri esperimenti
avrà guadagnato l'adesione generale".
Luigi Fabbri non può essere annoverato in quel filone
di revisionismo liberale ed aclassista che fa diventare l'anarchismo
una opzione etica individuale, un modo di vivere e non più
una dottrina sociale atta alla comprensione ed alla trasformazione
della realtà. Adamo aveva ed ha dalla sua molti altri
pensatori e altre scuole di pensiero. Questa tradizione ha avuto
momenti di forte sviluppo in Italia nel secondo dopoguerra e
tutt'ora negli Stati Uniti ha molti adepti. Revisionare, quindi,
l'anarchismo può essere argomentazione legittima e salutare,
ma occorre definire prima cosa è da revisionare. L'Anarchismo
storico e militare, quindi le sue espressioni organizzate, i
suoi atti deliberanti, le sue concrete sperimentazioni rivoluzionarie
e non singoli pensatori, non nasce come ulteriore radicalizzazione
di un'etica liberale o come spirazione individuale, in tal caso
tutti siamo figli non solo del liberalismo, ma dell'illuminismo
e ancor prima siamo debitori ai liberi pensatori ed in un cammino
a ritroso alla rivolta di Spartaco fino a Platone e ancor più
giù.
L'Anarchismo nasce come dottrina sociale di trasformazione in
seno al movimento operaio ed alle sue organizzazioni d'avanguardia
e si caratterizza per una forte convincimento solidaristico,
comunista ed antiautoritario.
Le bandiere della libertà e dell'uguaglianza, che la
borghesia con la Rivoluzione Francese aveva innalzato senza
però risolvere il problema della questione sociale (ovvero
dell'espropriazione dei mezzi di produzione e della contraddizione
fra una produzione sempre più sociale ed una appropriazione
individuale) vengono riprese dal nascente movimento operaio
internazionale e dalle proprie organizzazioni, fra questi gli
anarchici.
Una nuova rivoluzione appare necessaria a questi nuovi "schiavi
salariati". La rivoluzione proletaria, necessariamente
violenta, l'unica capace di affrancare dal gioco dello sfruttamento
borghese la classe dei lavoratori e contemporaneamente l'intera
umanità. E' da questo seppur brevissimo schema, ma di
fondamentale acquisizione, che tutti i revisionismi, processi
organizzativi, esperienze cosidette autogestionarie, strutture
sindacali e politiche che all'anarchismo fanno riferimento dovrebbero
definire il loro agire dell'oggi. Senza la prospettiva della
rottura rivoluzionaria, senza identificare chi sono i soggetti
reali destinati e protagonisti dell'atto rivoluzionario, qualsiasi
"ismo" è destinato a diventare speculazione
intellettuale o un modo di vita personale, seppur affascinante,
ma lontano dell'anarchismo come dottrina sociale di emacipazione.
Cristiano Valente
(Livorno)
1. Dittatura e Rivoluzione, Luigi Fabbri
Ediz. Antistato 1971
2. Anarchia e comunismo scientifico. Luigi Fabbri Ediz.
Quaderni Studio O.C.L. N. 5 1988
Risponde
Pietro Adamo
Una precisazione, due considerazioni e una conclusione. In
generale, la mia impressione leggendo la lettera di Valente
è che mi attribuisca posizioni non mie, forse influenzato
dalla mia nota prospettiva "aclassista e antimaterialista".
In primo luogo, non era mia intenzione - o forse mi sono spiegato
male - contrapporre rigidamente un prima comunista a un dopo
sperimentalista, con la Rivoluzione d'ottobre a fare da spartiacque.
Il concetto di libera sperimentazione è presente nella
dottrina anarchica sin dalle origini (penso a Proudhon, agli
anarchici americani, a Ricardo Mella); in effetti io credo che
la fede anarchica nelle virtù del pluralismo economico
abbia matrici più antiche e su questo ho anche lavorato
parecchio; ho anche scritto che "è il culmine di
una tendenza minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale".
D'altro canto, mi sembra innegabile che solo dopo la rivoluzione
bolscevica abbia assunto nelle speculazioni degli anarchici
un ruolo centrale; fu il confronto con la Russia sovietica a
spingere molti - non tutti, ovviamente - a insistere sul concetto
come antidoto alla versione totalitaria del comunismo. In secondo
luogo, non mi sembra di aver letto Fabbri come un "liberale";
anzi, ho insistito sulla sua fiducia costante nella soluzione
comunista libertaria. Ciò che mi preme sottolineare è
che vi è uno sviluppo nelle sue argomentazioni a partire
grosso modo dal 1921, uno sviluppo che lo porta a concepire
la soluzione comunista in modo nuovo. Per come interpreto la
sua argomentazione in Libera sperimentazione, mi pare
che il confronto tra i diversi modelli economici - un vero e
proprio "mercato" dei modelli - dovrebbe condurre
all'adozione di quelli giudicati più convenienti e utili.
Fabbri auspica, spera, desidera, che il modello vincente - ammesso
che ne emerga uno in particolare; non mi sembra che egli scarti
l'ipotesi che ne rimangano in gioco diversi - sia quello comunista.
Ma, e mi sembra anche qui innegabile che sia questo il succo
dell'argomentazione, potrebbe anche non essere, e la "risultante"
scelta sarebbe egualmente legittima, anche se non fosse il comunismo:
"L'ultima parola", scrive Fabbri, "resterà
all'esperienza. Come potrebbe essere diversamente?" È
questa conclusione che lo distanzia dai dottrinari del comunismo.
In quanto al commento iniziale di Valente sul comunismo "di
stato" sovietico, trovo divertente che anarco-comunisti
e anarco-capitalisti appaiano condividere in fondo la stessa
prospettiva gnostico-millenaristica: per entrambi il regno della
libertà finale - comunista o capitalista che sia - non
è mai comparso nel corso della storia; è, nella
sua perfezione assoluta, sempre di là a venire; le sue
imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili con le contingenze
storiche; le realizzazioni storiche - l'unico metro di giudizio
concreto a disposizione di uomini mediamente razionali - sono
sempre contaminate e mai eleggibili a modello di raffronto e
valutazione.
Pietro Adamo
Una
questione di jeans?
Vi ricordate di Rosa, quella ragazza di Potenza violentata
dal suo istruttore di guida, poi assolto dalla Corte di Cassazione,
perché la ragazza durante lo stupro indossava i jeans?
Oggi, dopo la sentenza della corte d'appello di Napoli, che
assolve di nuovo l'uomo, si torna a parlare del caso, anche
se con un poco meno di clamore, rispetto a pochi mesi fa (del
resto si sa, ormai gli stupri impuniti non fanno più
notizia!)
Ancora una volta siamo costrette ad "ingoiare il rospo",
ancora una volta ci tocca assistere all'assoluzione di uno stupratore
e alla conseguente colpevolizzazione della vittima. Non c'è
niente da fare: se indossi la minigonna è perché
te la vai a cercare, se indossi i jeans è praticamente
"impossibile che te li tolgano senza la tua fattiva collaborazione";
comunque sia alle donne non si crede. La corte d'appello di
Napoli ha riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quale
sia la reale considerazione per le donne in questa società,
al di là dei proclami e delle belle parole che ci proponiamo
da tutte le parti. La testimonianza della ragazza e le evidenti
ecchimosi e lacerazioni vaginali non contano nulla. La definizione
di cosa sia uno stupro o di quando si tratti di stupro è
ad unica discrezione degli uomini: si tratti di supremi giudici,
della Corte di Napoli o del cittadino comune.
Tutti gli anni di lotte spese innanzitutto ad affermare il diritto
elementare all'inviolabilità del proprio corpo (e quindi
il semplice diritto ad essere considerate persone a tutti gli
effetti) evidentemente non hanno ancora fatto breccia nelle
menti maschili, del resto basta ascoltare in che termini si
esprimono molti uomini nei confronti delle donne... Ma anche
il silenzio delle donne è preoccupante. Forse ci si illude
di essere rappresentate da una manciata di parlamentari donne,
i cui partiti, tra l'altro, non esitano a sostenere politiche
contro la libertà e i diritti femminili (vedi per es.
il diritto d'aborto). Ci si illude magari di avere raggiunto
una sostanziale parità e quindi di essere tutelate dalle
leggi (anche se la sentenza di Napoli dimostra il contrario).
Oppure le donne si stanno adattando, di questi tempi, ad una
normalità fatta di crociate oscurantiste contro i diritti
femminili, di violenze quotidiane, di corpi in vendita ai bordi
delle strade...
È facile farsi prendere dallo sconforto o da un senso
di impotenza dopo una simile sentenza. Ma proprio su una questione
così delicata come lo stupro, noi donne dovremmo riscoprire
l'importanza della lotta condotta a livello individuale e collettivo.
In fondo solo la solidarietà, l'azione concreta ed unita
delle donne è stata, fino ad oggi l'unica reale garanzia
di difesa dei propri inalienabili diritti.
Silvia S.
Carla T.
(Bergamo)
Contro la schiavitù
Carissimi,
dopo la tragica vicenda della guerra, stiamo riprendendo la
nostra campagna contro la schiavitù in Italia.
Tra la fine di giugno ed i primi di luglio abbiamo ridiffuso
alcuni materiali informativi e propositivi che avevamo prodotto
e fatto circolare lo scorso anno.
1. I termini essenziali della campagna contro la schiavitù
in Italia
Ricorderete che i termini essenziali dell'iniziativa sono i
seguenti: l'abominevole pratica della schiavitù è
ovviamente illegale in Italia (cfr. gli articoli 600, 601, 602
del Codice Penale) ma, come dimostrano le cronache, è
evidentemente tutt'ora diffusamente presente nel nostro paese,
e di essa sono vittima particolarmente uomini, donne e bambini
immigrati. Noi proponiamo un piano globale di lotta contro la
schiavitù e chiediamo un preciso impegno del governo,
del Parlamento e degli enti locali. Fulcro dell'iniziativa la
richiesta di un intervento sia amministrativo che legislativo
che, attraverso il combinato disposto di normative già
in vigore (valorizzando in particolare l'art. 16 della recente
legge 40/98 sull'immigrazione) e la loro eventuale integrazione
in uno specifico indirizzo di intervento che potrebbe altresì
concretizzarsi in una legge ad hoc, preveda in primo luogo un'azione
efficace per la liberazione delle persone attualmente in condizioni
di schiavitù in Italia, garantendo loro - a titolo di
risarcimento per le violenze subite nel nostro paese - il diritto
di permanenza legale nel nostro paese qualora lo desiderino,
un'adeguata protezione rispetto al pericolo di rappresaglie
da parte delle organizzazioni criminali schiaviste, il pieno
riconoscimento di diritti civili, assistenza sociale ed un sostegno
economico sufficiente per vivere e protratto nel tempo, aiuto
nella ricerca
di un lavoro legale. Sottolineiamo che particolarmente nel caso
delle persone in condizioni di schiavitù oggetto di sfruttamento
sessuale, una iniziativa da parte delle istituzioni democratiche
sarebbe immediatamente praticabile ed efficace. Gli enti locali
potrebbero intervenire efficacemente fin d'ora con programmi
di riduzione del danno e di percorsi assistiti di liberazione,
valorizzando ed estendendo esperienze già in corso da
parte sia di esperienze di volontariato sia di servizi sociali
di enti pubblici.
2. Alcuni recenti libri utili
Recentemente sono stati pubblicati alcuni utili libri, tra cui
vi segnaliamo particolarmente:
o Pino Arlacchi, Schiavi, Rizzoli, Milano 1999;
o Oreste Benzi, Una nuova schiavitù, Paoline,
Milano 1999;
o Alessandro Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano
1999.
3. Un semplice ragionamento
Vi vorremmo proporre questo ragionamento: il solo don Oreste
Benzi con l'esperienza della "Comunità Papa Giovanni
XXIII" ha liberato circa 1.200 ragazze straniere dal racket
della prostituzione in Italia; ordunque, poiché le immigrate
tenute in condizioni di schiavitù a fini di sfruttamento
come oggetti sessuali in Italia sono circa 26.000 secondo stime
attendibili, è evidente che basterebbe che 20-25 esperienze
pubbliche o associative intervenissero con efficacia analoga
a quella dispiegata da don Benzi, per liberare tutte le persone
che subiscono questa specifica condizione di schiavitù,
e per dare un duro colpo ai poteri criminali che questo mercato
schiavista gestiscono.
4. Altri interventi necessari
Naturalmente questo non basterebbe: occorrono anche altri interventi
di carattere sia contingente che strutturale:
4.1. occorre colpire il mercato schiavista sul versante della
domanda di schiavitù, ovvero colpire i cosiddetti "clienti":
ed a tal fine servono interventi sia educativi e di sensibilizzazione,
sia anche e soprattutto repressivi. Non è ammissibile
che si tolleri che qualcuno fruisca di beni prodotti e di servizi
resi da esseri umani in condizioni di schiavitù, tale
"cliente" deve essere considerato pienamente complice
dello schiavista e compartecipe degli "utili" della
schiavitù, ed in quanto tale punito;
4.2. occorre colpire i poteri criminali che traggono enormi
profitti dalla schiavitù: la specifica fattispecie di
reato è prevista e punita dal Codice Penale, si tratta
di intervenire con decisione;
4.3. occorre colpire tutte le complicità che in vario
modo favoreggiano la schiavitù, e tali complicità
sono molte:
- delle istituzioni che la schiavitù permettono e che
sovente intervengono contro le vittime invece che contro gli
schiavisti (sfruttatori e clienti);
- dei mass-media e degli apparati ideologici che sostengono
tale pratica presentandola come normale, ovvia, socialmente
accettabile;
- dei poteri e meccanismi economici locali ed internazionali
che producendo povertà e disperazione, fondandosi su
logiche e dispositivi di sfruttamento disumani e su finalità
di profitto che per realizzarsi costitutivamente reificano e
annientano gli esseri umani, con ciò favoriscono, propugnano
e impongono pervasivamente la schiavitù come forma di
relazione economica e sociale prediletta ai fini della massimizzazione
del profitto.
5. Una strategia integrata
Contro la schiavitù occorre una strategia integrata;
si tratta di lavorare a più livelli e coinvolgendo in
un'azione convergente e coordinata più soggetti:
5.1. interventi con unità di strada per prestare soccorso
materiale immediato alle vittime ed offrire loro relazioni umane
significative e prospettare autentiche e persuasive possibilità
di alternative reali;
5.2. interventi per sottrarre le vittime ai loro aguzzini;
5.3. azione delle forze dell'ordine e della magistratura per
liberare le vittime, e per perseguire e condannare schiavisti
e complici;
5.4. azione degli enti locali e dei servizi sociali per realizzare
interventi ed alternative;
5.5. produzione di un nuovo quadro normativo efficace contro
la schiavitù, con interventi legislativi ed amministrativi
specifici, espliciti, coordinati e coerenti;
5.6. mobilitazione della società civile, delle esperienze
di solidarietà e di volontariato, delle reti sociali
della welfare community oltre che delle agenzie del welfare
state e del cosiddetto terzo settore;
5.7. mobilitazione dei mass-media democratici e dell'intellettualità
per una adeguata e ragionata sensibilizzazione e mobilitazione
dell'opinione pubblica contro la schiavitù e di aiuto
alle vittime;
5.8. promozione di un piano nazionale di lotta contro la schiavitù
promosso dal Parlamento ed adeguatamente finanziato dallo Stato
con l'obiettivo di cancellare la schiavitù in Italia
entro il Duemila. (...)
8. Un invito
Ecco perché vi chiediamo di voler contribuire a questa
riflessione ed a questo impegno.
Contiamo sul vostro impegno: la schiavitù oggi presente
in italia, di cui sono vittima decine di migliaia di uomini,
donne e bambini, particolarmente immigrati, può e deve
essere sconfitta.
Chiunque può, chiunque deve fare qualcosa.
Peppe Sini
(Viterbo)
Responsabile del "Centro di ricerca per
la pace" di Viterbo promotore della "campagna contro
la schiavitù in Italia", str. S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax 0761/353532
Riflessioni
sull'antimilitarismo
L'articolo di Mauro Zanoni sull'ultimo numero
di "A" ha la capacità di sollevare una questione
non di secondaria importanza: quella dell'antimilitarismo nel
III millennio. Problema che si pone per ovvi motivi di attualità:
l'economia e la politica nell'ultimo decennio hanno preso ad
essere guidate sempre più dalla logica del manu militari,
strumento utilizzato non solo per sanare le controversie fra
stati o blocchi economici, ma per conquistare mercati e crearne
di nuovi.
Dall'Est europeo, dissoluzione dell'impero sovietico e della
federazione yugoslava, all'Africa, in Somalia, Ruanda, Burundi,
Senegal, ecc., all'Asia, Timor, Pakistan e Corea, nuovi focolai
di tensioni e guerre mietono vittime e producono distruzioni,
imperversando in queste aree con una ferocia tale da rivelare
che per milioni di uomini su questo pianeta la guerra è
una tragica realtà quotidiana. Lo scenario è quello,
ormai affermato, di una guerra coloniale globale dove gli imperi
finanziari si affrontano nella conquista di territori sempre
più vasti, per accaparrarsi risorse e uomini da sacrificare
sull'altare della logica del profitto, del pensiero unico imperante:
il neoliberismo.
La macchina militare subisce un'evoluzione notevole rispetto
all'impiego classico, quello della forza bruta, conosciuto fino
ad oggi, trasformandosi essa stessa in strumento/oggetto del
mercato cui è asservita. Gli assassini in divisa diventano
quindi una "mano d'opera" da vendere o affittare,
mercenari che mentre massacrano si fanno pubblicità,
pronti ad offrirsi, non più solo come singoli "professionisti
della morte", ma in pacchetti di compagnie, battaglioni
e divisioni intere. E' il caso dei due battaglioni Gurka che
il Nepal affitta sistematicamente alla corona inglese per ogni
evenienza, impiegati ora nelle Falkland ora a Timor Est. E'
il caso delle tante missioni "umanitarie", enormi
vetrine a cielo aperto dove le capacità militari vengono
messe in mostra e sperimentate meglio che in una qualsiasi artefatta
esercitazione militare.
La tecnologia militare dal canto suo, dalle armi, alle divise,
ad ogni elemento della logistica e della guerra, rappresenta
di per sè un enorme mercato di progettazione, sperimentazione
e vendita. Le bombe cadute su Belgrado e la Yugoslavia in quest'ultimo
anno di guerra sono il frutto, oltrechè della classica
strategia militare del terrorismo di massa, di una ben precisa
ottica economica che ha voluto liberarsi del parco bombe americane,
obsolete ed ammortizzate nei vari bilanci del Pentagono da tempo,
facendone poi pagare il prezzo, a tutti i soggetti coinvolti
nella spedizione militare pro-Kosovo o anti-Yugoslavia.
Il costo di questa vera e propria operazione commerciale sarà
coperto poi, a favore dei "vincitori", in termini
di commesse internazionali ed appalti per favorire la ricostruzione
delle zone distrutte, o in termini di ridimensionamento ed assoggetamento
politico ed economico della regione bombardate; terreno di confronto/scontro
economico fra la UE e gli USA, fra dollaro ed euro.
La premessa fatta, nella sua schematicità, ci serve comunque
per capire che il militarismo è qualcosa di complesso
e diversificato, e non certo rapportabile solo alla questione
della coscrizione obbligatoria. Semmai questa ha rappresentato
un elemento storico del passato su cui, in periodi particolari,
è stato fatto leva da un lato per irrigimentare le masse
ed uniformarle ai dettami politici ed economici della società
imperante, mentre dall'altro, per contro, è servita alle
volte per poter agitare la protesta antimilitarista. Nei paesi
anglosassoni, USA e GB, alle porte dei due conflitti mondiali,
l'entrata in uso della coscrizione obbligatoria alimentò
numerose proteste e lotte. In molti paesi coloniali dell'impero
francese ed inglese la protesta contro l'arruolamento di massa
negli eserciti coloniali fece radicare ulteriormente i germi
della rivolta anti-coloniale che, dopo qualche tempo, sarebbe
esplosa.
L'abolizione della leva lascia comunque intatta tutta una serie
di problemi legati alle politiche guerrafondaie: le servitù
militari, ettari ed ettari di territorio assoggettati alle leggi
militari per farne delle basi aeree, depositi nucleari, campi
di raccolta, le fabbriche di armi, le commesse militari, gli
stanziamenti pubblici per lo sviluppo di interessi industriali
privati nel settore.
Inoltre in futuro, la questione della leva obbligatoria sarà
sostituita da un'altra più complessa e problematica:
il costo di un esercito professionale. Fatto che peserà
sul piano economico, per ovvie ragioni: stipendio dei professionisti
della guerra, acquisto di armi e tecnologie nuove, e loro mantenimeto.
Fatto che peserà anche sul piano politico e sociale.
Nel primo caso in quanto un esercito professionale implica automaticamente
la formazione di una corporazione che vorrà sempre più,
dal generale al soldato "contare" e far sentire la
sua voce nelle stanze del potere (il Pentagono insegna), potenziando
enormemente quello stato nello stato che già da tempo
sono le forze armate. Nel secondo caso, la carriera militare
sarà vista sempre più come un'alternativa alla
disoccupazione ed una scorciatoia per futuri impieghi "civili".
Come già succede in alcune professioni con gli ex-carabienieri
ed ex-poliziotti, ci ritroveremo sicuramente in futuro a lavorare
con tecnici ex-militari, portatori della loro visione gerarchica
della vita.
Una prospettiva futura non molto rosea, anzi grigio-verde, cui
in contrapposizione sarà necessario ridefinire la valenza
stessa dell'antimilitarismo in un'ottica strategica composita,
dove l'abolizione della leva non mette certo in discussione
le lotte antimilitariste, ma diventa la prerogativa analitica
per il rinnovarsi di una strategia che fuoriesca dagli schemi
ideologici del passato, che veda nella giusta ottica l'antimilitarismo:
non come elemento a se stante, ma come prodotto di un radicamento
delle lotte di massa sul territorio.
Non è un caso che ogni volta che l'antimilitarismo ha
acceso la scintilla della rivolta, questa era già un
fuoco che covava sotto le ceneri di movimenti di massa. La corazzata
"Potemkin" sarebbe stato un semplice atto di ammutinamento
se non fosse stato il prodotto di una coscienza di classe rivoluzionaria
radicata da tempo nelle masse diseredate della Russia zarista.
Al pari il gesto del ribelle Masetti, sarebbe stato solo quello
di un folle esasperato, o di un refrattario sognatore, se invece
non si fosse legato ad un ambito sociale e politico dove la
guerra di Libia veniva contestata dalla base del movimento operaio
italiano d'inizio secolo.
Più vicino ai giorni nostri, l'esperienza dei P.I.D.,
il movimento dei proletari in divisa, negli anni '70, non era
figlio solo della protesta antimilitarista contro gerarchie
militari che, nelle caserme italiane si erano fermate ai tempi
del ventennio, ma derivava anche e soprattutto dall'ondata di
rivolta di classe che riempiva le piazze, le scuole e le fabbriche,
ed anche le caserme, in quegli anni.
Ma forse l'esempio più chiarificante in merito può
essere quello di analizzare il recente movimento contro la guerra
in Kosovo che, nella primavera scorsa, come durante la guerra
del Golfo, si è attivato.
Per quasi tre mesi le piazze d'Italia si sono riempite a più
riprese di manifestazioni contro la guerra. Non c'è stato
un fine settimana in cui non fosse stata organizzata una "gitarella"
davanti a qualche base militare. Tutto il fronte antiguerra,
dal pacifismo cattolico all'antimilitarismo anarchico, passando
per le strumentalizzazioni di ogni sorta di leniniana memoria,
ha dato battaglia per settimane in mezzo ad una opinione pubblica
anestetizzata dai media di regime, con forze molto limitate,
ma frutto di militanti che, in un modo o nell'altro in questi
decenni bui, hanno cercato di sviluppare un movimento di massa
contro la disoccupazione, l'inquinamento, le lobby politiche
ed economiche.
Purtroppo il fronte anti-guerra si è scontrato contro
una realtà dove praticamente, al di là di ogni
singola aspettativa o speranza ideologica, sono praticamente
assenti veri e propri movimenti di massa, radicali, incisivi,
di classe, che non siano il frutto di alchimie politiche o strumentalizzazioni
di sorta che usa le piazze per i propri giochi di poltrona.
Forse il vero problema dell'antimilitarismo è questo:
l'assenza di un qualche movimento di massa nel tessuto della
società italiana ed occidentale. Vedere che militanti
e simpatizzanti di ogni sorta questa primavera si sono ritrovati
insieme, in piazza senza che però ad essi vi si sia unito
qualcuno che era "fuori dal giro", ci ha fatto scoprire
che il resto delle masse ormai non si eccita più di fronte
a parole d'ordine ormai vecchie ed abusate (grazie alle sceneggiate
della sinistra storica), e che in fondo considera una guerra
tale, solo quando entra dentro la loro casa.
Cosa riproporre oggi per una strategia antimilitarista che vada
oltre lo scendere emotivamente in piazza non è facile
dirlo. Anche la chiusura delle basi e delle fabbriche di morte
non sono che singoli obbiettivi contigenti, facilmente recuperabili
dalle gerarchie statali. Una base militare di professionisti
della morte non necessariamente sta qui, nel nostro primo mondo,
sotto casa, a disturbarci la vista. La legione straniera alloggia
esclusivamente in basi disperse nel cosiddetto terzo mondo.
E le fabbriche militari, come quelle di scarpe o di auto, si
possono facilmente spostare in luoghi dove la mano d'opera costa
dieci volte di meno. Non sarà improbabile trovarsi di
fronte, in futuro, a cortei che chiedono il mantenimento di
una fabbrica di morte in nome dell'occupazione. L'Enichem di
Porto Maghera ne può essere, sul fronte dell'inquinamento,
un triste esempio.
Non basterà quindi all'antimilitarismo in futuro giocare
a tutto campo smascherando gli interessi bancari e l'educazione
colonialista fatta nelle scuole, opporsi ad ogni partecipazione
militare a missioni di pace all'estero, e a qualsiasi nuovo
finanziamento per la macchina bellica, e smascherare la falsa
attrattiva occupazionale della carriera militare.
Esso dovrà certamente continuare ad essere uno degli
elementi specifici di un progetto più ampio di cambiamento
radicale della società, l'anarchismo, ma dovrà
anche essere l'espressione di una presa di coscienza collettiva,
più che di un sofferto rifiuto individuale, legandosi
ad una strategia di lotta ampia che attraverso le questioni
del mondo del lavoro, dell'ambiente, delle libertà e
dei diritti sociali, fa dei diseredati un soggetto sociale pensante
ed agente. E forse, più che l'abolizione della leva militare,
è l'assenza di un qualche movimento di massa, di classe,
antagonista e di base, che oggi rappresenta il limite maggiore
ad una efficace azione antimilitarista contro ogni tipo di guerra
e di gerarchia militare. Ma questo è un altro problema.
O forse è il problema.
Giordano Cotichelli
(Jesi)
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Enrico Ardenghi (Monza), 20.000;
Laura Fossetti (Montemagno di Calci), 50.000; Aurora
e Paolo (Milano) ricordando Gianni Furlotti e Alfonso
Failla, 1.000.000; Alessandro Milazzo (Linguaglossa),
150.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara) a ringraziamento
del buon esito di un'operazione di ernia inguinale,
500.000; Antonio Gei (Piovene Rocchette), 20.000;
Salvo Pappalardo (Acireale), 20.000; Lucio Brunetti
(Campobasso), 10.000.
Totale lire 1.770.000.
Abbonamenti sostenitori. Cesare Vurchio (Milano),
200.000; Paolo Santorum (Arco), 150.000; Paolo Zonzini
(Cailungo - Repubblica San Marino), 200.000.
Totale lire 550.000.
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