La cecenia e l'estinzione
In Cecenia rimangono donne e bambini, donne incinte e bambini
piccoli, che cercano disperatamente un appiglio a cui aggrapparsi
per non morire. I bombardamenti protratti per tre mesi, 24 ore
su 24, non hanno lasciato in piedi quasi niente, intatto nessuno.
Grozny è macerie, lutto, panico, è poche immagini rubate dagli
ultimi giornalisti presenti, assediati anche loro e rimasti
nei nascondigli per settimane. L'assedio è finito, soldati ubriachi
festeggiano sfregiando i cadaveri, seviziando i prigionieri,
mostrando armi e arroganza, disprezzo e superiorità. Il leader
russo Putin, si fa riprendere mentre regala coltelli da caccia
ai soldati che si sono distinti in azioni di guerra. Anne Nivat
e Sophie Shihab, di Liberation e Le Monde, riescono a
portare in occidente alcune fotografie che rompono la spirale
e la cospirazione del silenzio. Testimoniano il massacro. I
vincitori di Grozny possono dire tranquillamente "più la cosa
resta resta tra noi, meglio s'ammazza", ma la cosa non è più
solo tra loro è anche tra noi e quel disperante filo di umanità
e impotenza con cui ci misuriamo da decenni.
Dalla città distrutta nessuno riesce più a scappare, neanche
quella metà della popolazione di origine russa ma così povera
che non può trovare le 3000 lire (l'equivalente del caffè e
del giornale con cui iniziamo la giornata) per tentare di mettersi
in salvo. L'altra metà della popolazione è mussulmana, altrettanto
povera e in più marchiata come fanatica, travisata e venduta
come connivente con i terroristi. Un terrorismo quello Ceceno
fatto di guerriglia alla disperata, ma che non può spiegare
la spietatetezza dei russi i cui obiettivi non sono certo le
bande guerrigliere, ma il controllo strategico della regione
e la riaffermazione del ruolo di super potenza con annessi e
connessi economico militari.
L'occidente si è sporcato degli stessi crimini usando la bandiera
della democrazia, ma sappiamo dalla stessa voce degli emigranti
Kosovari che si sono sentiti dei deportati e non dei salvati.
Il neoliberismo non vivrebbe molto senza nuovi rapporti coloniali,
perché pur fingendo che siano il secondo, il terzo e il quarto
mondo ad avere bisogno di noi, siamo noi che abbiamo molto bisogno
di loro.
Lo ricordo, non è certo inutile ribadirlo, anche se molte analisi
dettagliate hanno detto tutto questo e sono per lo più state
insabbiate o quasi. Vi rimando comunque a Chomsky, a Dumont,
a Roberto Cavalieri, che in Balcani d'Africa spiega troppo
bene cosa nasconde il concetto di guerra etnica e soprattutto
a chi serve. Vi ricordo anche Ilaria Alpi che meno fortunata
di Cavalieri mise le mani su qualcosa che avrebbe svelato certi
traffici e certi rapporti e per questo venne uccisa con il suo
operatore in maniera da confondere per sempre le tracce. Niente
però sparisce per sempre.
Le tracce restano, magari casualmente. A Alby, per 5 giorni
le donne mussulmane non hanno seppellito i cadaveri, sperando
passasse di lì un fotografo e sperando fino all'ultimo che la
testimonianza dell'eccidio giungesse in occidente. È stato inutile,
ma altrove due giornalisti francesi invece scattavano, usavano
quel che rimaneva dei rullini per fermare l'oblio e la menzogna.
Le autorità russe dicono ancora che si tratta di corpi di uccisi
in combattimento, ma chi ha mai visto combattere mani e piedi
legati e con le orecchie mozzate? Insomma non è mica Hallowen.
I video della tv tedesca hanno poi riempito altri buchi. Il
leader russo, Putin, si pavoneggiava un mese fa, mentre era
in visita ufficiale in Francia, vantandosi come un difensore
della causa animalista con Brigitte Bardot. Parlava diffusamente
del suo bel cagnolino e Grozny da due mesi già moriva, invitava
l'ex diva a Mosca, complice il noto razzismo antimusulmano di
lei, e si diceva pronto a discutere di diritti degli animali.
Sia chiaro non ho niente da dire contro chi protegge gli animali,
tra l'altro li proteggo anch'io, ma faccio notare,ce ne fosse
bisogno, l'uso di mass media-retorica-divismo per cancellare
realtà più amare. Mentre scrivo queste note, mentre rifletto,
una domanda insistentemente si pone tra me e le righe.
Penso all'Afganistan dei Talebani, alla morsa oscurantista che
lo stringe e penso all'Algeria che faticosamente sta uscendo
da un bagno di sangue. Mi chiedo se si possono difendere i diritti
degli uni, sapendo che si rischia di vedere poi gli stessi violare
quelli di molti altri e soprattutto altre. L'Algeria insegna
che si può fare una battaglia civile e umana se non si lasciano
soli quelli che patiscono gli oscurantismi sulla loro pelle
e nonostante tutto testimoniano interamente, con corpo e parola
una ben più alta sovranità. Questa battaglia, questo non abbandonare,
sono cominciati anche qui, nel nostro paese. Sono cominciati
con il rifiuto dei campi profughi, dei Rom, degli steccati per
i troppo scuri e diversi. In una comunicazione che non si sottragga
anche al difficile compito di rivelare che i diritti umani sono
i diritti umani di tutti, uomini-donne-bambini, che non si fermi
compiacente al giustificazionismo che consente la violazione
tra i violati (sono tra loro), in questo vedo una strada, rischiosa,
per alzare le cortine (quelle vere), cortine che reciprocamente
rivelano l'altro a noi e noi all'altro.
È difficile dire qualcosa su questi argomenti e mi rendo conto
che pur volendolo fare da tempo, tacevo per l'imbarazzo che
tutto questo mi procura. Troppe, certo, le delusioni, gli esempi
duri da digerire, ma troppi anche gli "interventi umanitari"
con i bombardieri, i missili, le stragi impunite.
Se è vero che siamo figli e figlie di nessuna frontiera e viviamo
sulla "linea dell'esilio" è pur vero che sono pesanti per la
nostra coscienza le immagini senza speranza di una città cancellata
dal mondo, una città le cui immagini ferite non lasciano più
spazio a parole o concetti, ma conducono inesorabilmente a luoghi
che non sappiamo più.
Nota: Il libro di R. Cavalieri, Balcani d'Africa è edito
dalle edizioni gruppo Abele. Sul caso Ilaria Alpi numeroso è
il materiale reperibile.
Nadia Agustoni
8
marzo Nel Chiapas
Tanto piccole da sembrare bimbe, dietro i passamontagna che
nascondono volti di madri, i segni dell'età e della dura quotidianità.
Tanto colorate, con le loro gonne e camicette di manta decorata
a mano, con i loro fiocchi, da sembrare innocenti bamboline,
non fosse per qualche seno scoperto col relativo pargolo attaccato,
portato a tracolla.
Tanto determinate da occupare una radio governativa della città,
trasmettendo per un'ora comunicati sullo stato delle cose nelle
loro comunità. "Molte di noi non sanno leggere, né scrivere,
e da qui vogliamo solo farci ascoltare". Tanto semplici ed incolte
da rappresentare sui loro cartelli di denuncia figure con stereotipi
infantili, disegni di carri armati, elicotteri ed aerei che
sorvolano a bassa quota i loro municipi autonomi giorno e notte,
per intimidire e filmare basi di appoggio zapatiste e osservatori
internazionali, rendendo la vita una costante ossessione. Ma
tanto degne e coscienti di chi è il nemico da combattere, alias
Ernesto Zedillo, alias neoliberismo, machismo, militarizzazione,
paramilitarizzazione.Tanto nobili da pensare oltre la loro miseria,
allargando la lotta a tutte le donne oppresse del pianeta, o
chiedendo l'immediato rilascio degli studenti della UNAM di
Città del Messico, l'università più grande del mondo, incarcerati
dopo un anno di occupazione fatta per rivendicare il diritto
ad uno studio libero e gratuito.
Erano in quasi 10.000 l'8 marzo le piccole donne zapatiste del
Chiapas, indigene TZOTZIL, TZELTAL, CHOL, ZOQUE e TOJOLABAL,
salite dalla Selva Lacandona o scese dai monti del Los Altos.
Molte scalze, hanno marciato sotto il sole di S. Cristobal De
Las Casas, città simbolo della oppressione spagnola sugli indigeni,
ai quali ne era vietato l'accesso fino al secolo scorso. Hanno
urlato la loro sofferenza ma anche rivendicato con ordine ed
organizzazione il diritto ad occupare ruoli decisionali nelle
comunità, il diritto al riposo, alle cure sanitarie, all'istruzione.
E alla vita, minacciata dai vigliacchi gruppi paramilitari assoldati
dal governo, o dalle stesse forze armate e dell'ordine. Hanno
denunciato gli incarceramenti, le sparizioni e gli omicidi commessi
a danno dei militanti zapatisti. E col danno la beffa dei programmi
governativi di aiuto PROCAMPO e PROGRESA, pubblicizzati sulle
TV in una campagna elettorale già iniziata da mesi, che mostra
indigeni belli e felici, e che costerà al governo (ai cittadini
messicani) qualcosa come il 2% del PIL. Aiuti governativi che
naturalmente non esistono, o altro non sono che offerte di generi
di prima necessità in cambio della desistenza.
Una delle rivendicazioni politiche più grandi della marcia è
stata, come da qualche anno a questa parte, il rispetto degli
"accordi di S. Andres", dove nel Maggio 1995 il governo si impegnava
a migliorare le condizioni delle popolazioni indigene concedendo
loro una maggiore autonomia politica e culturale. Accordi poi
disattesi dal burocrate Ernesto Zedillo, presidente di un paese
politicamente e socialmente allo sbando. Poco più di 6 anni
fa, il 1° gennaio 1994, l'Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale si rivelò agli occhi del mondo, occupando il municipio
di questa stessa città e annunciando la rivolta armato in difesa
di un popolo oppresso da più di 500 anni.
La vita di questo popolo purtroppo, non è migliorata da quel
giorno. Ma da quel giorno gli indigeni del Chiapas hanno (ri)conquistato
faticosamente una forte dignità. E una voce. E una grande, grande
speranza.
Paolino Bruschi
Con o senza Haider
Amnesty International denuncia gravi episodi di brutalità da
parte della polizia austriaca nei confronti di arrestati e detenuti.
Calci, pugni, ginocchiate, manganellate e gas urticanti sono
i metodi comunemente usati. La maggior parte delle vittime sono
cittadini austriaci o stranieri non bianchi che, in molti casi,
vengono insultati dagli agenti di polizia con epiteti razzisti.
Il caso più grave nel maggio 1999: Marcus Omofuma, un richiedente
asilo nigeriano di 25 anni, fu condotto da tre agenti all'aeroporto
di Vienna per essere espulso. Imbavagliato e legato al sedile
dell'aereo con del nastro adesivo "come una mummia", non sopravvisse
al viaggio.
Le indagini in merito ai maltrattamenti ad opera della polizia
sono lente, incomplete e spesso inconcludenti. Pochissime finora
le incriminazioni di persone colpevoli di violazioni dei diritti
umani. Paradossalmente, spesso sono le vittime ad essere denunciate
dagli agenti per resistenza all'arresto, aggressione o diffamazione.
Lo scorso novembre la Commissione delle Nazioni Unite contro
la tortura ha esaminato il secondo rapporto periodico dell'Austria
sulle misure adottate per applicare la Convenzione ONU contro
la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani
o degradanti. La Commissione ha raccomandato alle autorità di
dichiarare con chiarezza che gli abusi di potere non saranno
più tollerati.
L'impunità apre la strada a nuove violazioni dei diritti umani.
Amnesty International rinnova il proprio appello al nuovo governo
austriaco perchè affronti seriamente il problema degli abusi
da parte della polizia. Soltanto l'apertura di indagini immediate
ed esaurienti su tutti gli episodi di maltrattamenti potrà indicare
chiaramente la volontà di impedire altre violazioni e di punire
i responsabili. Amnesty International
Amnesty International
L'importanza degli archivi
I compagni di una certa età sanno molto bene che fino ad alcuni
decenni orsono, quando la loro generazione cominciava ad affacciarsi
all'anarchismo, non esisteva in Italia un solo archivio o centro
di documentazione anarchico degno di tal nome. Se si eccettua
infatti la breve esperienza della Biblioteca "Max Nettlau" creata
a Bergamo da Pier Carlo Masini, nessuno si era posto il problema
di creare una struttura permanente che fosse in grado di raccogliere
la testimonianza della nostra storia e della nostra esperienza,
capace quindi di fornire una documentazione di prima mano sul
percorso storico del libertarismo nel nostro paese. Eppure,
in quegli anni, il movimento anarchico di lingua italiana godeva
ancora di un sostanziale radicamento nel corpo sociale e politico
italiano, era forte e vivace, diffuso sul territorio in modo
sostanzialmente omogeneo, e sufficientemente inserito all'interno
del movimento dei lavoratori: quindi materialmente in grado
di dar vita a strutture del genere.
Questa apparente trascuratezza rispetto al nostro patrimonio
e alla necessità della sua conservazione, era forse imputabile
al fatto che i meccanismi della trasmissione dell'esperienza,
della continuità e della pratica quotidiana del nostro movimento,
erano ancora in grado di funzionare direttamente, senza il bisogno
di trovare legittimazione nelle carte d'archivio o nelle raccolte
delle annate della nostra stampa. In un certo senso si può dire
che mancasse, o non si percepisse appieno, la consapevolezza
che anche l'anarchismo - e il movimento che ad esso si richiamava
- avesse bisogno, prima o poi, di raccolte documentarie che
testimoniassero la sua non secondaria presenza nella storia
sociale italiana. Come ben si percepisce al giorno d'oggi, gli
anarchici non potevano continuare ad ignorare questa esigenza,
che a lungo andare avrebbe comportato la inevitabile, irreparabile
e definitiva perdita di quasi tutto il loro patrimonio documentale,
per lo meno quello sfuggito ai sequestri delle questure di mezza
Italia e depositato negli archivi di stato, o quello acquisito
dai numerosi istituti culturali richiamantisi alla egemonia
culturale marxista.
Ecco perché oggi va riconosciuto ad Aurelio Chessa, creatore
dell'Archivio "Famiglia Berneri", l'indiscutibile merito di
aver compreso, forse prima di chiunque altro, quale importanza
avesse, e soprattutto avrebbe avuto, promuovere la conservazione
organica dei nostri documenti e delle nostre carte. Fu Aurelio
infatti, personaggio spigoloso quant'altri mai, ma anche completamente
e disinteressatamente dedito al proprio impegno, il primo ad
aver cominciato, con sacrifici personali e grazie a una fittissima
rete di relazioni impostata soprattutto coi compagni del Nord
America, a sottrarre alla distruzione e alla dispersione una
notevole parte della documentazione della storia, e delle storie,
del movimento anarchico.
La storia, come penso la intendano gli anarchici, non è una
semplice sequenza di atti compiuti dal potere per rafforzarsi
e perpetuarsi; tanto meno si riduce alla riproposizione superficiale
del succedersi di processi che hanno coinvolto la vita popolare
solo in modo negativo. Piuttosto e soprattutto, la storia procede
attraverso pratiche e sentimenti collettivi che si riannodano
e si ripropongono di tempo in tempo a partire dalle insopprimibili
esigenze di emancipazione e liberazione degli individui. E conservare
questa storia, questa esperienza così particolare, è la funzione
primaria di un archivio anarchico, di un archivio in grado non
solo di raccogliere la documentazione che altrimenti andrebbe
dispersa nella turbinosa vicenda delle sedi e delle collocazioni
logistiche, ma anche di opporsi alla riscrittura tendenziosa
della storia attraverso l'uso strumentale delle fonti. In questa
prospettiva gli archivi, le biblioteche, i centri di documentazione
diventano la cinghia di trasmissione, da una generazione all'altra,
di esperienze, sistemi di valori, metodologie e pratiche militanti:
in definitiva, in assenza di modelli autoritari, si rivelano
strumenti utili per annodare l'esperienza delle nuove e delle
passate generazioni di militanti.
Ne è dimostrazione la bella mostra Storie di Anarchici e Anarchia,
inaugurata l'11 marzo a Reggio Emilia (Sala Giardino dei Musei
Civici) e aperta fino al 9 aprile. Nata dalla collaborazione
fra la Biblioteca comunale "Panizzi", recente beneficiaria della
donazione ricevuta dagli eredi di Aurelio Chessa, e da Fiamma
Chessa, attuale curatrice dell'Archivio "Famiglia Berneri-Aurelio
Chessa", questa esposizione allestita interamente col materiale
documentario e librario dell'Archivio, racconta con la vivacità
delle immagini e dei documenti originali quello che nessun libro
potrebbe trasmettere con altrettanta immediatezza: la storia
di un movimento ricco e vivace, che ha percorso con una intensa
presenza tutta la storia del secolo appena passato.
Dopo la breve introduzione fatta dall'assessore alla cultura
e dal direttore della biblioteca del comune emiliano, che hanno
voluto rimarcare l'importanza della recente acquisizione nel
patrimonio culturale della città, l'architetto Alberto Ciampi,
esperto ed efficace curatore della mostra, ha condotto il numeroso
pubblico giunto da ogni parte d'Italia in un affascinante percorso
attraverso i materiali esposti, illustrando non solo i criteri
storici e scientifici su cui si sono basate le scelte fatte,
ma anche la consistenza e la natura dell'Archivio. Le numerose
bacheche, il cui materiale viene parzialmente descritto nel
bel catalogo curato dall'amministrazione comunale, hanno tutte
un'impostazione monografica, con un'attenzione particolare,
ovviamente, alle figure di Camillo Berneri, della moglie Giovanna
Caleffi e della figlia Maria Luisa, di Aurelio Chessa. Molto
interessanti anche le bacheche dedicate a Leda Rafanelli, ricche
di cimeli davvero commoventi, e quelle assegnate alla pubblicistica
anarchica e ai giornali d'inizio secolo: una attenta scelta
di libri, opuscoli, testate giornalistiche, disposti in modo
da colpire, anche visivamente, l'attenzione del visitatore.
Le altre sezioni della mostra sono dedicate a coloro che hanno
lasciato all'Archivio, in tempi diversi, fondi documentari particolarmente
importanti: da Ugo Fedeli a Pio Turroni, da Pier Carlo Masini
a Emidio Recchioni e Vernon Richards, da Giuseppe Faravelli
a Virgilio Gozzoli. Non poteva mancare, naturalmente, l'esposizione
di materiali riguardanti la rivoluzione spagnola e il ruolo
avutovi dagli anarchici e segnatamente da Camillo Berneri. È
soprattutto il materiale esposto in questa sezione che dà conto
della dovizia e della preziosità dei documenti conservati nell'Archivio,
rendendo ancor più apprezzabile il lavoro di raccolta e conservazione
di Aurelio Chessa.
Quanto sia diffusa ormai la sensibilità sulla necessità di conservare
e rendere accessibili le testimonianze dell'anarchismo, lo dimostra
il proliferare di piccole biblioteche e centri di documentazione
locali. Poco prima dell'importante mostra reggiana, infatti,
a Rimini il locale gruppo "Libertad" inaugurava l'omonima biblioteca
installata in una nuova sede aperta al pubblico (Casa della
Pace, via Tonini 5): praticamente dall'archivio più grande al
centro di documentazione (per ora) più piccolo. Eppure, a ben
guardare, l'importanza delle due strutture è la stessa, perché
identica è la volontà di trasmettere a nuove generazioni di
libertari i valori, gli ideali e la cultura dell'anarchismo.
Significativa, e sicuramente non casuale, la presenza all'inaugurazione
di una trentina di persone, in gran parte giovani e giovanissimi,
venuti per riscoprire le radici di percorsi di vita alternativi
a quelli proposti dal potere. Giovani che potranno trovare,
fra le testimonianze di chi li ha preceduti, l'esempio della
possibilità di una vita espressa in coerenza con le proprie
tensioni e la propria personalità.
Desidero chiudere questo breve resoconto con le belle parole
lette al termine dell'inaugurazione da un compagno riminese.
L'attenzione commossa con la quale i presenti hanno seguito
la lettura ha evidentemente colto l'importanza di una presenza
libertaria nella società, anche quando ad esprimerne lo spirito
sia una "scalcagnatissima bancarella" tenuta da alcuni "scalcagnati
trentenni". Oppure una piccola biblioteca ancora povera di testi
ma già ricca di umanità.
Massimo Ortalli
Quella scalcagnatissima bancarella.
Un giorno - erano i primi anni 80 -, su di un piccolo giornaletto
locale che noi ragazzi leggevamo, un tizio più o meno famoso,
di quei piccoli "boss di provincia" che bazzicavano le associazioni
e i locali alternativi e che adesso girano incravattati fra
gli assessorati -se non sono assessori -, mandò una sua lettera
che fu pubblicata.
La lettera diceva: "Oggi si può stare sul mercato e fare cose
intelligenti".
Premesso che non ho mai conosciuto nessuno che stesse su nessun
mercato per fare cose stupide, perlomeno non volontariamente,
quella frase, detta allora ed in quel contesto, rappresentò
per tanti l'epitaffio di tutta un'era, per una pietra che di
lì a poco calò sul "movimento", sui movimenti, degli anni 70.
Dopo poco, aperta la porta, iniziò il fuggi-fuggi, il riflusso
nel privato.
"Qualcuno ha l'Aids, qualcuno è morto", cantarono i CCCP.
C'era, e c'è, il silenzio di chi era ed è rimasto in carcere,
a scontare condanne decennali senza magari neanche aver mai
visto un'arma. Era iniziata la caccia alle streghe, e c'era
gran bisogno di paggi e ciambellani per la nuova corte, per
la stabilità osannata e tanto attesa. I nani e le ballerine
arrivarono poco dopo, e furono reclutati sappiamo dove.
Alcuni ragazzi, alcuni punx, che parlavano di anarchia e solo
vagamente sapevano dell'esistenza degli anarchici, non accettarono
l'invito. Di nessuno, né al mercato, né alle nuove corti.
Accettammo l'invito di un gruppo di scalcagnati trentenni che
conoscemmo un sabato pomeriggio, mentre tenevano una scalcagnatissima
bancarella di libri, di riviste, di adesivi. Forse è quello
il modo sbagliato di stare sul mercato, forse il tizio di cui
parlavo prima intendeva quello. Accettammo l'invito di un signore
barbuto di inizio secolo, tal Malatesta, a non delegare a nessuno
la conquista e la difesa delle libertà, della libertà.
E mentre sfilava la "Milano da bere" degli anni 80 e il movimento
non c'era più per nessuno, scoprimmo sulla nostra pelle il significato
della repressione, del controllo sociale, delle lotte, dei poteri
che un giorno dopo l'altro sottraevano spazi, agibilità, chiudevano
giornali, radio, ogni voce di dissenso. Era la "legge del mercato",
dicevano.
Quello che ora abbiamo, lo abbiamo strappato con le unghie.
Nessun tipo di agibilità ci è concessa, è concessa agli anarchici:
tutto è ed è sempre stato conquistato e pagato in prima persona.
Perché a nessuno venga in mente di liquidare tutto ciò con la
categoria tutta cristiana dei martiri immolati a qualsivoglia
causa, che è quanto di più estraneo esista rispetto alla nostra
idea gioiosa di vivere una vita libera.
Perché sia comprensibile il significato e la dignità di questo
comunque allucinante prezzo politico ed umano che uomini, donne,
gruppi e movimenti quotidianamente pagano in ogni angolo del
mondo, occorre interrogare la nostra storia, la storia del movimento
anarchico. Occorre la memoria. Occorre questa biblioteca. Non
so per quanto tempo, per quanti anni potrà esistere questa biblioteca.
So solo che se mai per qualunque motivo dovesse chiudere, prima
o poi qualcuno che non riesce proprio a fare cose intelligenti
su nessun mercato, la riaprirà e ci si sbatterà come fosse la
dannazione della sua vita.
L'anarchia è contagiosa. E si trasmette facilmente.
Pelle
Gruppo Libertad - FAI
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