A
proposito di cgt, cnt, ecc...
La pubblicazione all'intervista al segretario spagnolo della
CGT "A"259 e quella successiva della lettera di Gianfranco Careri
"A"260 mi stimolano ad alcune riflessioni e a ripercorrere alcune
tappe significative di vicende dell'anarcosindacalismo.
Nel Congresso Straordi-nariodell'AIT(Associazione Internazionale
dei Lavoratori) del 1937, nel 6° punto dell'ordine del giorno
si lasciava alla CNT la responsabilità di continuare l'esperienza
in corso ci si riferiva alla sua collaborazione governativa
che aveva significato un enorme trauma per il Movimento Libertario
sopportato appena davanti alla realtà della guerra, però con
una critica vigorosa espressa in vari giornali.
Terminata la guerra, una parte considerevole del Movimento Libertario
ritenne decaduti i compromessi politici con i partiti del Fronte
Popolare fatti durante la guerra, ritenendo si dovessero recuperare
i tradizionali principi antistatali, mentre l'altra fazione
considerava ancora validi i compromessi politici fino a che
il franchismo non fosse caduto.
Si venne così ad una situazione di crisi all'interno della CNT
e nel novembre del 1945 si produsse una rottura al suo interno.
Infatti si era costituito in Messico il governo Repubblicano
in esilio di José Giral y Peréire e il Comitato Nazionale della
CNT di Spagna aveva eletto due ministri; la CNT in esilio si
sentì scavalcata esigette un approfondito dibattito sulla questione
che però nei fatti il CN delle CNT di Spagna negò.
Nel VII Congresso dell'AIT nel 1951, si presentò la discussione
"sulla CNT spagnola" che si era presentata con due delegazioni
distinte, ognuna delle quali restò ferma sulle proprie posizioni.
All' VIII Congresso dell'AIT per la Spagna furono presenti la
CNT in esilio e la CNT di Spagna. Oltre a ciò che riguardava
la questione spagnola uno dei punti interessanti di questo congresso
è rappresentato dalla discussione del punto n° 11 che trattava
principi e tattica dell'ATI, che come ha attivamente espresso
Abel Paz (Al pie del muro, hacer editorial, Barcellona,
pag. 369) si rivelò essere il tallone d'Achille del Congresso.
La collaborazione che la CNT aveva avuto con il governo, e che
era il 4° punto di discussione, ciò premeva soprattutto alla
SAC svedese e all'Olanda. La questione spagnola perdeva importanza
rispetto alle posizioni personali di Helmut Rudiger della SAC
e dell'osservatore Alberto de Jong dell'organizzazione simpatizzante
olandese OVB, fautori di una riforma degli Statuti dell'AIT
che avrebbe permesso alle sezioni dell'AIT un rapporto di collaborazione
con i municipi e il Ministero del lavoro nei rispettivi paesi.
Durante i lavori del Congresso i delegati della SAC avevano
distribuito ai convenuti copie della nuova Dichiarazione di
Principi votata nel 1952.
La situazione svedese era delicata anche perché la situazione
svedese era diversa da quella spagnola.
Rudiger della SAC disse che la sua delegazione non era stata
autorizzata ad esprimersi per la richiesta di una modifica per
gli statuti dell'ATI e che però voleva sottolineare il fatto
che lo sviluppo storico di ogni paese che aderisce all'AIT non
era identico, per cui desiderava far conoscere la Dichiarazione
di Principi del sindacato cui apparteneva.
La tendenza era verso la socialdemocrazia. Seguì un animoso
dibattito, tutte le sezioni, eccettuata quella olandese, rifiutarono
tale dichiarazione e rettificarono principi e tattiche dell'ATI.
La SAC contava 20.000 iscritti, era stata fondata nel 1910,
aveva avuto un passato glorioso e nel suo periodo migliore aveva
raggiunto 37.000 aderenti, pubblicava un quotidiano Arbetaren
e un mensile Fuego era stata solidale con il popolo spagnolo
contro il regime franchista: a partire dagli anni cinquanta
inizierà progressivamente ad allontanarsi dall'AIT seguendo
una via riformista, adotterà posizioni di compromesso ed in
contrasto con i metodi degli anarcosindacalisti degli altri
paesi adotterà una posizione revisionista espressa nel proprio
metodo: "attitudine che consiste nell'ammettere delle tappe
e delle soluzioni parziali, la tendenza ad accettare il compromesso
per poter addentrare alla realtà e non essere tenuti ai margini
degli avvenimenti, e poiché essendo questa solamente la "pratica"
non può portare nessun danno ai "principi"". (Le Syndacalisme
Libertaire et le Weltfare state l'experience suedoise, Evert
Ardossou, Parigi ed. l'Union des Syndacalistes, prefazione di
Helmut Rudiger).
La tendenza che si era già manifestata ai tempi dell'VIII Congresso
dell'AIT riguardante il punto n° 11 su principi e tattica veniva
eluso e superato dalla posizione assunta dalla SAC?
Naturalmente no.
La scissione della CNT ad opera di quella che sarà la CGT spagnola
che tenta di essere accreditata, come anarcosindacalista come
ha espresso chiaramente nella sua lettera Gianfranco Careri
pone anche l'evidenza del tentativo di una nuova internazionale
di sindacati europei che ancora una volta contraddicendo la
politica con i principi vogliono presentarsi come anarcosindacalisti.
Dovrebbe forse l'ATI rinunciare ai propri principi?
Pino Cavagnaro
(Genova)
Pastiglie
e opuscoli
Giovani, sbarbati, incoscienti, o forse solo sventati, troppo
fiduciosi nelle prorpie risorse fisiche..., morti ammazzati
dalla nuova droga; dalle pastigliette colorate che hanno la
faccia innocua come le caramelle per l'alito che quegli stessi
ragazzi si mangiavano prima di baciare la fidanzata di turno.
Quelle pastiglie che sono anni che girano tra feste più o meno
legali, discoteche, after hours, rave party, quelle stesse pastiglie
che fino a pochi giorni i media "cagavano" quando proprio di
morti per overdose da eroina era un po' che non se ne vedevano.
Ci volevano i cadaveri di due ragazzini per fare alzare il culo
ai giornalisti-tuttologi-medico-politologi ed ai chimici di
chiara fama, che tra il contrito ed il compiaciuto (sì perché
loro l'hanno studiato all'università il processo di sintesi
che porta alla creazione delle droghe sintetiche) snocciolavano
una bella serie di informazioni pronto uso (tipo il manuale
dell'ecstasi come quello che si usava durante i compiti in classe
di matematica) sulle pasticche. E a me questa fiera delle falsità
fa proprio girare le palle: sì perché io nelle discoteche ci
lavoro da una vita ed ho visto gente "fatta" di coca, "impasticcata"
e "bevuta" parlare con le forze dell'ordine che non si accorgevano
di niente (....).
Ho visto gente tranquilla entrare in un cesso lurido, l'ho vista
uscire dopo poco saltellante e spiritata, ho visto gente a cui
i capillari del naso non tenevano più, ho visto gente fradicia
di sudore ballare senza sosta per cinque ore a fila, ho visto
gente bersi bottiglie di tequila senza storcere un capello (e
immagino si sappia che la coca, così some le droghe oggi incriminate,
alza molto il livello di tollerabilità all'alcol).
Ho visto troppe porcate per non incazzarmi con chi adesso si
stupisce e criminalizza quelle discoteche, quegli after, quei
rave in cui ha mandato i figli fino a poco tempo fa; ho visto
troppo qualunquismo sul famoso "divertimentificio" romagnolo,
sul Paese dei Balocchi della nostra Riviera.
Però poi un giorno ho incontrato quattro cristi di assistenti
sociali che tentano di fare informazione e stampano dei mini
opuscoli dove viene spiegato cos'è una pastiglia colorata, un
francobollo con un disegnino simpatico, una polvere bianca,
una polvere più scura. Sono anche carini questi opuscoletti
mignon, ci sono i disegni (abbastanza infantili da sembrare
amichevoli), le didascalie, i numeri utili.
Peccato però che questi famosi opuscoli non si schiodino dai
tavolini dei consultori, e che ovviamente sarà assai arduo che
capitino nelle mani del frequentatore medio di una discoteca
che non credo sia solito farsi un giro al consultorio più trendy
della sua città. Magari sarà più probabile che prima di andare
a ballare si vada a bere qualcosa nel pub più trendy della sua
città.
Ecco, la logica vorrebbe che il grazioso opuscolo informativo
magari venisse lasciato lì, magari (apoteosi dell'utopico ottimismo)
proprio nelle discoteche.
Magari in questo modo la pianteremo di ostentare una falsa indignazione
per i cadaveri di due ragazzini: loro forse non sapevano, quelli
dopo sapranno ed a quel punto la scelta di drogarsi sarà affar
loro.
Il senso civico-morale del borghese benpensante sarà salvato
ma, aggiungo io, forse anche qualche vita o neurone in più.
Deborah Dirani (Forlì)
babydeby@hotmail.com
Lacio
Drom ringrazia
Caro Paolo Finzi,
La ringrazio per la sua lettera e per il bell'articolo che ha
dedicato a "Lacio Drom" "A"261. La speranza che rimane, è quella
che qualcuno, forse domani, si muoverà e accoglierà la sfida
di portare avanti una battaglia difficile, con serietà e senza
de-magogia.
Oggi per associazioni e gruppi gli Zingari sono diventati talvolta
solo merce da sfruttare al fine di ottenere finanziamenti pubblici
e di emergere personalisticamente con mire politiche, cosa che
non posso accettare.
Per quanto riguarda l'anarchia, lo ritengo un ideale splendido,
ma non lo credo realizzabile data la naturale tendenza dell'uomo:
non appena uno ha un minimo di potere, prende subito le misure
per impedirlo agli altri. Così oggi siamo soffocati come non
mai da limiti e vincoli che impediscono ogni minima iniziativa
e imponendo, fra l'altro, mille carte bollate. Un Sinto francese
mi diceva una volta: "voi gagé vi siete cercati una muraglia
di paperasseries, di cartacce, e ve ne siete fatti prigionieri".
Malgrado il mio scetticismo, ritengo tuttavia che l'anarchia,
come utopia a cui tendere, abbia una vitale funzione di stimolo
verso la libertà individuale e sociale.
Con tanti auguri per il vostro impegno.
Mirella Karpati (Roma)
Ma
Lacio Drom non deve morire
Carissimi,
le recenti vicende di ignobili persecuzioni contro le nostre
sorelle e i nostri fratelli sinti e rom, dimostrano ad abundantiam
quanto sia necessario promuovere sia una miglior conoscenza
della cultura e dei problemi delle comunità nomadi e viaggianti,
sia un'attività di difesa e di affermazione dei diritti di queste
popolazioni.
Per lavorare con le nostre sorelle ed i nostri fratelli sinti
e rom, per conoscerli, per condividerne riflessioni e problemi,
per poterne rispettare e valorizzare identità e cultura, per
aiutarci reciprocamente a difendere e promuovere insieme i loro
ed i nostri diritti, la loro e la nostra dignità, e quindi i
diritti e la dignità di tutti, occorre avere adeguati strumenti
di informazione, collegamento, riflessione ed approfondimento.
Strumenti come per trentacinque anni è stato "Lacio drom", la
straordinaria rivista del Centro Studi Zingari diretta da Mirella
Karpati, che alcuni mesi fa ha cessato le pubblicazioni per
mancanza di risorse finanziarie ed umane che consentissero il
proseguimento della più longeva e più prestigiosa esperienza
editoriale in tale ambito di studi e di impegno.
È necessario che "Lacio drom" riprenda le pubblicazioni, e se
questo è necessario, se in molti lo riteniamo necessario, allora
è anche possibile.
Vorrei esortarvi quindi ad un rinnovato impegno, esplicabile
in più forme:
1. scrivere a Mirella Karpati, direttrice di "Lacio drom", presso
il Centro Studi Zingari, via dei Barbieri 22, 00186 Roma, per
esprimerle apprezzamento e sostegno;
2. inviare un motivato contributo finanziario all'indirizzo
qui sopra segnalato, e/o dare una minima ma concreta disponibilità
a sostenere la rivista qualora esse riprendesse le pubblicazioni
(ad esempio inviando notizie, o promuovendone la diffusione);
3. scrivere a Università, enti culturali, editori, istituzioni
ed associazioni culturali ed umanitarie, internazionali, nazionali
e locali, affinché contribuiscano al finanziamento della ripresa
delle pubblicazioni della prestigiosa rivista;
4. scrivere ai mass-media affinché diano notizia di questa situazione
e di questo impegno, ed a loro volta si adoperino, con l'informazione
e la sensibilizzazione, affinché non si spenga definitivamente
una voce indispensabile come quella di "Lacio drom", di enorme
prestigio scientifico e culturale, e di straordinario valore
morale e civile;
5. parlarne con amici che possano a loro volta essere interessati,
e chiedere loro di contribuire a questo tentativo di promuovere
la ripresa delle pubblicazioni di "Lacio drom", attraverso le
iniziative indicate ai punti precedenti o in altre forme efficaci
che ognuno saprà ideare.
Scusatemi se mi sono permesso questa nuova intrusione.
Un cordiale saluto.
Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" (Viterbo)
Io
la penso così
Conosco da pochi mesi "A"(grazie a Marco Cagnotti, vostro
collaboratore e mio recente collega di lavoro), e spulciandola
qua e là mi è venuta una irresistibile voglia di scrivervi le
classiche "due righe" - che, naturalmente, saranno un po' di
più... Mi hanno incoraggiato a farlo alcune vostre affermazioni:
"La rivista non ha e non vuole avere - né tantomeno vuole dare
- 'la Linea'", "un elemento di vivacità di una pubblicazione
[è] rappresentato dai dibattiti". Probabilmente le mie ovvie,
addirittura banali obiezioni ciascuno di voi e dei vostri lettori
le avrà già abbondantemente rimuginate dentro di sé e con amici
e compagni; in tal caso consideratele come lo sfogo di un ormai
stagionato "militante" (di che?) e cestinatele senza problemi.
Tanto perché sappiate "da che pulpito viene la predica", ecco
la mia biografia "politica": anni Settanta Manifesto-PdUP; anni
Ottanta sindacalismo "di base", vari comitati per la pace ecc.;
anni Novanta ambientalismo rosso-verde. Le mie osservazioni
(superfluo precisare che si tratta di questioni sulle quali
anch'io mi arrovello ogni giorno...) riguardano, più che questo
o quel problema specifico, un certo modo di guardare alla realtà
(e quindi di formulare giudizi e di appioppare etichette). Gli
schematici appunti che seguono hanno quindi solo valore esemplificativo.
1) Popolo Sarawi. Per decenni, quello dell'autodeterminazione
dei popoli è stato considerato un principio inossidabile di
libertà, progresso, democrazia ecc. E certo lo è, in teoria.
Quando, cioè, ci sono tutti gli ingredienti giusti, quando "la
larga maggioranza di un popolo - storicamente, culturalmente
e territorialmente [o anche solo religiosamente?] omogeneo -
si batte in modo consapevole e partecipato, senza determinanti
interferenze esterne, per motivi non grettamente economici e
senza ricorrere a metodi brutali o eticamente riprovevoli, contro
una dominazione straniera, o anche contro un regime tirannico
ed etnicamente [ahi!] alieno che lo opprime con la forza delle
armi". Ma la realtà non è un laboratorio chimico. Se ne mancano
un paio, della quindicina dei suddetti ingredienti, possiamo
anche chiudere un occhio e schierarci senza riserve. Ma se,
come quasi sempre succede, ne mancano 3, 4...? Tanto per fare
qualche esempio stranoto, il caso dei kurdi, secondo me, è tutt'altro
ovvio, e largamente "fuori regola" risultano oggi quelli dell'IRA
e dell'ETA. E se questa impostazione può far storcere il naso
e apparire troppo cinicamente ragionieristica, basterà ricordare
che proprio in nome dell'autodeterminazione si sono perpetrate
nell'ex-Iugoslavia le più orrende atrocità, e da noi Bossi continua
a propinarci le sue grottesche pagliacciate.
2) Rom e accettazione del diverso. Che ci piaccia o no,
i rom (o nomadi, o zingari - termine già di per sé ridicolmente
giudicato "razzista", proprio come è "politically uncorrect"
chiamare netturbino, o addirittura spazzino, un "operatore ecologico")
non sono affatto "artigiani che lavorano il rame ecc., portatori
di valori di libertà alternativi al perbenismo ipocrita della
società borghese". Chiunque li incontri, per la strada, in un
parco, sui mezzi pubblici, non può non constatare che è tutto
il contrario. La prevaricazione gerarchica del forte (il maschio
adulto) sul debole (le donne e i bambini) all'interno della
comunità e l'ostentato disprezzo per i "diversi", i gaji, (specialmente
se inermi) sono i tratti salienti di una cultura che eleva a
sistema di vita la furbizia, il parassitismo, l'opportunismo
con i forti e la prepotenza con i deboli (gli studiosi ne colgono
certo molti altri aspetti, ma è di questi comportamenti tutt'altro
che "alternativi" che ha esperienza la gente comune). Riconoscere
queste cose non significa essere intolleranti e auspicare sanguinosi
pogrom: significa semplicemente prendere atto che la convivenza
con loro è oggettivamente difficile (è come avere ospite in
casa un tizio che sputa per terra, butta le cicche dove capita,
rubacchia nei cassetti e, per di più, ti considera un povero
pirla da spennare), e che quando una vecchietta strilla contro
gli zingarelli che le hanno fregato il borsellino, forse non
è il caso di darle anche della razzista, aggiungendo al danno
la beffa. [E che l'"accettazione del diverso" sia una faccenda
alquanto complicata lo confermano sempre più spesso nuovi problemi
connessi all'immigrazione: peroriamo, per esempio, il rispetto
delle culture altrui, però ci indigniamo contro la pratica dell'infibulazione.]
3) Immigrazione clandestina e diritto alla libera circolazione
degli individui. Ovvio che il tentativo di arginare i flussi
immigratori alimenta il traffico clandestino gestito dalla malavita
(in qualsiasi campo, una politica "proibizionista", o anche
soltanto "di regolamentazione", non può che provocare, accanto
a eventuali effetti positivi, l'effetto certo di ingrassare
chi specula sul suo aggiramento: il traffico internazionale
delle armi, delle droghe, dei rifiuti tossici ecc. lo conferma
ogni giorno). Preso atto di questo, che fare? Siccome ogni norma
genera inevitabilmente lo sforzo più o meno coordinato di molti
per eluderla o violarla impunemente, la soluzione è forse quella
di abolire il concetto stesso di norma? Sarebbe come dire: accertato
che la proibizione di rapinare le banche induce i malintenzionati
a organizzarsi segretamente in bande armate per svolgere tale
attività, mettendo a repentaglio la vita di cassieri e ignari
clienti (nonché la loro e quella dei poliziotti eventualmente
lanciati al loro inseguimento), meglio sarebbe abolire tale
reato; se uno vuole un po' di soldi, entra in una banca e semplicemente
li chiede, alla luce del sole: si renderebbero così superflue
le armi e si eliminerebbe ogni rischio di spargimenti di sangue.
Paradossi a parte, torniamo al concetto di diritto alla libera
circolazione degli individui e immaginiamo di applicarlo integralmente.
Ovvio che ai porti e alle frontiere della "Fortezza Europa"
si affolleranno ben presto milioni (quanti? 10, 20, 50? L'Europa
orientale, l'Africa e, più ancora, popolosissimi e poverissimi
paesi asiatici come il Bangladesh potrebbero alimentare il flusso
indefinitamente, almeno finché le condizioni di vita qui si
fossero deteriorate a tal punto da azzerare l'incentivo a venirci
per "cercare fortuna") di persone legittimamente desiderose
di migliorare le proprie condizioni di vita, e non più frenate
dai rischi e dal costo di un viaggio clandestino. (Forse i più
ardenti sostenitori del principio, indignati per le disumane
condizioni di tale biblico esodo, solleciteranno i loro governi
a porre rimedio a una simile vergogna, inviando navi confortevoli
a raccogliere gli immigrati e allestendo centri di accoglienza
adeguati, e non i lager tanto cari a quei sanguinari assassini
di D'Alema e Bianco; uno sforzo colossale che mobiliterebbe
ingenti risorse e creerebbe centinaia di migliaia di posti di
lavoro: il debito pubblico salirebbe di qualche centinaio di
migliaia di miliardi? Pazienza, a queste bazzecole deve pensarci
lo Stato, mica noi cittadini - chiedo scusa per l'ironia, forse
fuori luogo, ma certe affermazioni perentorie e certi toni saccenti
farebbero uscire dai gangheri anche il famoso Giobbe.)
No, non sono uno che applaude quando i turchi bombardano un
villaggio kurdo, che rimprovera a Hitler di non essere riuscito
a sterminare davvero gli zingari, che quando nell'Adriatico
va a fondo un gommone con 10 giovani albanesi si frega le mani
pensando: "Dieci magnaccia in meno nelle nostre strade".
Sono semplicemente uno un po' stanco degli slogan semplicistici
(anch'io, però, lo ammetto, qualcuno l'ho gridato per le strade
una trentina d'anni fa...), dei facili luoghi comuni, dei principi
campati per aria. Uno assolutamente certo che l'utopia è indispensabile
per dare un senso alto al nostro vivere e non scadere in un
grigio pragmatismo senza ideali, ma altrettanto convinto che
con la realtà bisogna farci i conti, e che anzi proprio questa
è la sfida (tremenda, forse impossibile, ma anche appassionante)
con la quale ogni momento dobbiamo misurarci: coniugare la bellezza
astratta dell'utopia con l'asprezza "sporca" della realtà. Uno
che non invidia i Prodi, i D'Alema, i Ronchi ecc. che giorno
per giorno devono prendere decisioni concrete che tengano conto
dei mille aspetti diversi e contraddittori di ogni problema;
e trova sacrosanto criticarli per gli errori che commettono
(e ne commettono tanti!), per l'arroganza che dimostrano ecc.,
ma sterile e puerile cavarsela definendoli sistematicamente
"traditori", "assassini", "venduti" ecc., spesso senza avere
uno straccio di soluzione alternativa praticabile da proporre,
trincerandosi dietro una presunta (e molto presuntuosa) "purezza".
In altre parole, se davvero ci sentiamo portatori di valori
alternativi al mercato totalizzante, al berlusconismo teleguidato,
all'intolleranza, al consumismo miope ed egoista dell'usa-e-getta
(non solo degli oggetti, ma anche delle esoerienze) ecc., sforziamoci
di tradurli in pratica nella vita quotidiana, nei rapporti con
gli altri e nelle mille battaglie di civiltà in cui possiamo
dare il nostro piccolo contributo (con passione, ma anche con
una robusta dose di autoironia alla "Brian di Nazareth"), anziché
inveire inutilmente contro i politici che, volenti o nolenti,
"fanno un altro mesteriere". Possono farlo più o meno bene,
e per questo è giusto tampinarli: ma sarebbe sciocco pretendere
che attuino le nostre utopie.
Immagino il commento che questa specie di predicozzo può legittimamente
suscitare: ecco il solito intellettuale di sinistra che spacca
il capello in quattro, che, tormentato dai dubbi e dai distinguo,
finisce per stare alla finestra mentre molto concretamente nel
mondo si massacra ecc. Obiezione fondata, fondatissima (a volte
me la muovono, spazientiti, anche nel piccolo gruppo ambientalista
che bazzico da una quindicina d'anni). Eppure resto convinto
che alla lunga sia più "antagonista al sistema" cercare di seminare
dubbi che instillare illusorie certezze (non sono forse già
troppi quelli convinti di "avere la verità in tasca"?). E che
sia meglio non andare a una manifestazione antirazzista che
andarci con un cartello con scritto "VIA I RAZZISTI DA MILANO"
(visto con i miei occhi qualche anno fa), o magari "NON TOLLERIAMO
GLI INTOLLERANTI".
La chiudo qui per non farvi morire di noia.
Vittorio Ghinelli (Milano) ghinel@iol.it
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Piero Milesi (Bonassola),
30.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara), 100.000; Fabrizio
Serra (San Giovanni in Persiceto), 50.000; Aurora
e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 1.000.000;
a/m M. Pandin, ricavato da "Musica per A", 1.500.000;
Saverio Nicassio (Bologna), 50.000; Tullio Procacciante
(Milano), 100.000; Fabrizio Eva (Milano), 50.000;
Pralina (Firenze) "un fiore per Ottavio Querci, partigiano
anarchico e mio nonno adottivo", 10.000.
Totale lire 2.890.000.
Abbonamenti sostenitori.
Matilde Bassani Finzi (Milano) ricordando Alfonso
Failla, 150.000; Marco Galliari (Milano), 500.000;
Zelinda Carloni (Roma), 200.000; Roberto Panzeri (Perledo),
150.000; Filippo Trasatti (Cesate), 150.000; Battista
Saiu (Biella), 150.000; Paolo Faziani (Bubano), 150.000;
Gianni Pasqualotto (Crespano Del Grappa), 300.000;
Piero Cagnotti (Dogliani), 150.000; Marco Valerani
(Milano), 150.000.
Totale lire 2.050.000.
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Errata Corrige
Sullo scorso numero, a pag. 17, nella descrizione
delle persone fotografate mentre si affacciano al balcone
della sede della Federazione Anarchica Italiana, a Messina,
nel 1947, è saltata l'indicazione di Placido
La Torre (l'ottava persona da sinistra, con le mani
in tasca) che - tra l'altro - ci ha dato la foto.
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