I Pigmei e le compagnie
I Pigmei dell'Ituri (Repubblica Democratica del Congo, in
prossimità dei confini con l'Uganda e il Ruanda) sono
ormai ridotti a poco più di trentamila. Vivono di caccia,
pesca e della raccolta dei frutti della foresta, una foresta
sempre più assediata dalle compagnie del legno.
"Come conseguenza della deforestazione" denuncia Padre
Antonino Mazzuccato, in Congo dal 1967, "anche i pigmei
rischiano di scomparire. Siamo ormai di fronte a un vero e proprio
genocidio, non solo sul piano culturale e morale, ma anche su
quello dell'eliminazione fisica vera e propria in quanto i pigmei
rappresentano un intralcio alle attività delle compagnie".
Il missionario si batte per i diritti delle popolazioni pigmee
del bacino del fiume dell'Ituri-Arawini da più di trent'anni,
realizzando strutture scolastiche, sanitarie e per fermare la
deforestazione operata dalle multinazionali del legno in modo
che i pigmei possano sopravvivere come hanno fatto per millenni
in equilibrio con l'ambiente naturale.
Da qualche tempo è al suo fianco il fratello gemello
Benito, insegnante in pensione, con cui porta avanti un progetto
di riconoscimento giuridico per le zone forestali da riservare
agli indigeni e per l'autonomia amministrativa (anche se nell'ambito
dello Stato congolese) delle zone in cui sono attualmente insediati
i pigmei superstiti.
Da un paio d'anni nella regione è in atto una specie
di "internazionalizzazione" della guerra civile con
l'intervento sistematico delle truppe ugandesi, e sono proprio
gli ugandesi i maggiori responsabili delle devastazioni ambientali
dato che intendono far fronte agli alti costi della guerra vendendo
il legname pregiato, mogano e tek in particolare.
Gli ugandesi, in collaborazione con una multinazionale tailandese
specializzata nel commercio del legname, stanno operando dissennate
deforestazioni nell'intera area, senza alcun rispetto per le
popolazioni e per il prezioso ecosistema.
Ogni anno vengono distrutti circa 150.000 kmq di foresta tropicale
per ricavare legname e per la costruzione delle infrastrutture
necessarie per le attività delle multinazionali. Oltre
ai pigmei rischiano di scomparire definitivamente anche rari
esemplari della fauna locale. A rischio di estinzione è
soprattutto l'okapi, la cosiddetta "antilope zebrata"
divenuta il simbolo della Società internazionale di Criptozoologia
e già perseguitata dai bracconieri.
Il fratello Benito ci aggiorna che "in questo momento Antonio
si trova in Congo ma, a causa della guerra, non è ancora
riuscito a rientrare nella foresta dell'Ituri e sta svolgendo
attività di alfabetizzazione in parrocchia. Purtroppo
la deforestazione prosegue a velocità impressionante,
con la sostanziale complicità dei militari".
Gianni Sartori
Alberto Moroni, l'anarchico gentile
Con la morte di Alberto Moroni (4 dicembre) scompare uno degli
ultimi testimoni della lotta antifascista anarchica.
Nato a Milano nel 1923, figlio di Antonio figura controversa
eppure centrale dell'antimilitarismo e del sindacalismo rivoluzionario
sino alla settimana rossa del 1914 a quindici anni iniziò
a lavorare come tipografo presso la Capriolo & Massimino.
Il suo debutto politico avvenne nei primi mesi del 1942 quando,
insieme a suo padre, stamparono e diffusero clandestinamente
una versione pacifista e antitedesca della nota canzone Lili
Marleen. Denunciati da un delatore all'OVRA, furono tradotti
nel carcere di San Vittore e dopo diversi mesi di detenzione
subirono una condanna a 5 anni di confino da scontarsi alle
Tremiti.
Amnistiato il 28 ottobre 1942 per l'anniversario della marcia
su Roma, Moroni rientrò a Milano e continuò a
fare il tipografo presso l'ospedale psichiatrico di Mombello.
Notato per il suo attivismo sindacale, l'otto aprile 1945 fu
costretto a nascondersi per non cadere in mano alle SS italiane.
Entrato nelle Brigate Mazzini, formazioni organizzate dal PRI
che nell'area milanese ebbero un certo peso militare e una forte
componente libertaria e anarcosindacalista riconducibile alla
tradizione dell'USI, attese l'inquadramento nelle brigate di
montagna.
Dopo la Liberazione, Moroni s'impegnò a fondo nel campo
sindacale e nella pubblicistica anarchica, diventando uno dei
più prolifici ed eclettici articolisti del movimento
anarchico. Non si contano i suoi interventi su Il Libertario,
Umanità Nova, L'Internazionale ed in particolar
modo su Volontà dove, dal 1958 al 1979, divenne
una delle presenze consuete con oltre una cinquantina di articoli
pubblicati.
Negli ultimi anni prese a collaborare con il Centro Studi Libertari
di Milano aiutando nella classificazione dell'emeroteca. Le
restanti energie le utilizzò nella pubblicazione delle
sue memorie sul padre (Alberto Moroni, Antonio Moroni. Una
vita controversa dall'inizio del secolo al dopoguerra, a
cura di Virgilio Galassi, Capriolo & Massimino, Milano 1998,
pagg. 156, lire 18.000).
Di lui restano numerose testimonianze tra cui la sua partecipazione
al video Gli anarchici nella Resistenza curato dal CSL
di Milano nel 1995 e numerose ore d'intervista depositate presso
la nastroteca del CSL.
Dino Taddei
È morto Gianfranco Bertoli
Martedì 28 novembre scorso, a Livorno, è morto
all'età di 67 anni Gianfranco Bertoli. Balzato alla ribalta
delle cronache il 17 maggio 1973, per l'attentato di cui fu
protagonista davanti all'entrata della questura di Milano
che causò 4 morti e numerosi feriti , Bertoli è
stato un personaggio controverso.
Nei suoi primi 40 anni (cioè fino all'attentato di Milano)
ebbe vari problemi con la giustizia per la sua vita ai margini
della legalità: furti, piccole rapine ecc. Politicamente
era schierato a sinistra, con una lunga militanza nella FGCI
e nel PCI. Nel periodo precedente l'attentato visse in Israele,
in un kibbutz. Da qui rientrò in Italia, via Francia,
per "vendicare" Pinelli, nel giorno in cui, nel primo
anniversario dell'assassinio del commissario di polizia Luigi
Calabresi, allo stesso veniva inaugurato un busto nella questura
milanese, con una cerimonia a cui era presente anche il ministro
dell'interno Mariano Rumor. Bertoli scagliò una bomba
qualche attimo prima che le autorità varcassero la soglia
della questura, l'ordigno finì ai piedi di un poliziotto
che lo allontanò con un calcio. Ne risultò una
strage: tra le vittime, una ragazza che si stava recando in
questura per ritirare il passaporto.
Bertoli venne immediatamente arrestato, sottratto al linciaggio
dei presenti, e rimase in carcere per un quarto di secolo. Fin
dalle prime dichiarazioni trapelate a mezzo stampa, poi tramite
il suo difensore d'ufficio e infine al processo (che si celebrò
a Milano nel '75), Bertoli si dichiarò "anarchico
individualista", precisando di aver agito da solo, mosso
dall'impulso di "vendicare Pinelli". Si era in piena
campagna di contro-informazione sulla "strage di stato"
e gran parte del nostro impegno in quegli anni era appunto dedicato
a rovesciare l'iniziale campagna politico-giudiziaria del Potere
volta a colpevolizzare gli anarchici e più in generale
la sinistra extra-istituzionale. L'inaccettabilità della
strage del 17 maggio subito condannata in un comunicato-stampa
delle tre organizzazioni anarchiche nazionali allora esistenti
(FAI, GIA e GAF) sommata al contesto più generale
e anche ad una serie di informazioni (poi rivelatesi false)
su di una sua militanza neo-nazista, spinsero fin dall'inizio
il grosso dell'opinione pubblica compresa quella "rivoluzionaria"
ad accettare l'ipotesi di un attentato e di un attentatore
neofascisti, ennesimo anello di una catena di stragi. E così,
più o meno, è rimasta l'opinione prevalente.
Noi di "A" e pochi altri operammo invece
un distinguo tra l'attentato (la cui condanna sottoscrivemmo
subito) e l'attentatore, suscitando un acceso dibattito in campo
anarchico. Iniziammo una corrispondenza (originata da una sua
prima lettera) con Bertoli: numerose di queste lettere (indirizzate
a volte ad altre persone) sono state pubblicate su "A"
e anche su qualche altra testata libertaria. I compagni di "Senzapatria"
ne raccolsero alcune in un libro ("Attraversando l'arcipelago")
oggi quasi introvabile. In questi suoi scritti Bertoli descriveva
la situazione nelle carceri e dal '79 nelle supercarceri,
esprimeva le sue opinioni sulla lotta armata come su quanto
avveniva all'interno dell'arcipelago carcerario. Per quanto
riguarda il proprio gesto, ebbe parole di profonda autocritica
e spinse pubblicamente i giovani a rifiutare la violenza
quella "terroristica" in particolare. E lo fece in
epoca non sospetta, prima di quella legislazione premiale che
aprì la stagione del pentitismo, cioè dei mille
pentiti (perlopiù strumentali) alla ricerca di provvedimenti
di clemenza. Bertoli non ne chiese e non ne ebbe: per quasi
15 anni non uscì da un carcere se non per essere trasferito
in un altro.
Nella seconda metà degli anni '70 e negli anni '80 è
stato per noi un compagno, un collaboratore valido, una persona
che ci ha aiutato a capire dal suo osservatorio del tutto
particolare (la cella di un supercarcere a Cuneo, all'Asinara
e a Marino del Tronto) l'evolversi della situazione.
Le sue riflessioni sulla violenza, contro il terrorismo, sulla
situazione medio-orientale ecc. hanno occupato molte pagine
di questa rivista.
Per lungo tempo fu il "bibliotecario" nel carcere
di Porto Azzurro (ex Portolongone) e proprio sull'isola d'Elba
ebbe, nella seconda metà degli anni '80, i primi permessi.
Le uscite dal carcere, prima occasionali e limitate all'isola,
poi strutturali legate al lavoro esterno diurno a Pistoia, videro
il suo rapido precipitare nella droga con frequentazioni legate
a quel mondo. I suoi rapporti con i compagni che gli erano stati
vicini entrarono l'un dopo l'altro in crisi e neppure l'umanità
di alcuni operatori giudiziari e carcerari riuscì a bloccarlo
su quella strada.
Gli ultimi anni della sua vita sono stati segnati da pubbliche
dichiarazioni di vicinanza al cattolicesimo militante, dalla
pubblicazione di un volume autobiografico, da un tentativo di
suicidio e soprattutto da processi nei quali Bertoli non ha
chiarito una serie di accuse di connivenza con l'estrema destra
prima del suo attentato. Si è limitato a ribadire, ad
ogni occasione, la "genuinità" del suo gesto,
che pure ha continuato a "condannare". Anche i mass-media
hanno dovuto registrare, nel segnalarne la morte, questa sua
coerenza.
Con noi i rapporti si erano rotti poco dopo la sua uscita dal
carcere e la sua "caduta" nella droga, con annessi
comportamenti squallidi. A Livorno, suo ultimo luogo di residenza
(prima in carcere, poi fuori), frequentava ambienti cattolici
e alla domenica gli ultras della locale squadra
di calcio. È stato seppellito con un crocefisso e la
bandiera amaranto degli ultras.
"Il suo difficile vissuto personale ha scritto la
redazione del settimanale anarchico "Umanità Nova"
(17.12.2000) non può aiutarci a dare una risposta
certa, univoca. Probabilmente la verità è calata
nella fossa con lui".
la redazione
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