In questo strano paese Italia si sono
sprecati e si sprecano riconoscimenti premi articoli per "grandi
vecchi" che, tutto sommato, lasciano e lasceranno un'opera
discutibile e certo minore, in azioni o in scritti, e si dimenticano
altri, di loro migliori, per il solo fatto che hanno vissuto
le loro battaglie e le loro idee fuori dai grandi circuiti del
potere politico e culturale, sempre bisognoso di darsi legittimazione
idealizzando i pensatori più "utili", più
transigenti consoni integrati e che meno hanno messo (mettono)
in discussione le basi e la legittimità dei poteri consacrati.
È il caso, oggi, anche di persone notevoli, anche se
meno di quanto essi stessi non credano e i media vogliano farci
credere, per esempio i Bobbio e i Foa, e di altre molto meno
notevoli, come i Fo e gli Scalfari.
Il potere, politico e culturale, negli anni dal dopoguerra a
oggi, è stato democristiano e comunista, cattolico e
liberale, e di recente di nuovo anche fascista e post-fascista,
e i suoi critici non potevano certo appartenere a queste formazioni;
la vecchia schiatta dei liberal-socialisti (libertà in
politica e socialismo in economia) è stata sconfitta,
molto presto, anche attraverso il recupero di molti di loro,
castrati e autocastratisi della loro diversità, nel fiume
di un liberalismo di tradizione, sì che, risibilmente,
molti sono passati dai Gobetti agli Agnelli eccetera eccetera.
Hanno resistito, senza mai arrendersi, e senza le illusioni
di rivoluzioni politiche che non fossero anche rivoluzioni culturali,
pochi, condannati al minoritarismo, ma senza nessuna vergogna
o paura di questo, attenti a fare bene il loro lavoro (e il
"ben fare" è stata una loro bandiera) che era
bensì un lavoro di apertura, di allargamento, di lotta,
di formazione di nuove coscienze capaci di dimostrare la loro
stessa tenacia e saldezza morale. I loro allievi, sottoposti
alle pressioni del tempo, si sono perlopiù persi per
strada, si sono istituzionalizzati e hanno fatto carriera e
sono diventati nuovi campioni del filisteismo nazionale. Ma
così va il mondo, e i maestri di cui parliamo l'avevano
messo in conto, non se ne stupivano più che tanto anche
se certamente se ne addoloravano. Non si trattava di "figli
che tradiscono i padri" avendo ben assimilata la loro lezione
ma bisognosi di una propria strada e pronti a nuove battaglie
dentro i nuovi tempi, ma di traditori tout court di ideali e
modelli, di principi e postazioni...
L'amico Capitini
Il quasi silenzio che ha circondato la morte di Lamberto Borghi
anche da parte di tanti che egli aveva, magari, contribuito
a mandare in cattedra, non ci scandalizza più che tanto,
mentre dà conforto, così come l'ha dato a lui,
che sia potuta uscire lui vivo una antologia dei suoi scritti
che rivendica la sua appartenenza al pensiero libertario e ricorda
al lettore interessato e all'educatore per vocazione e per collocazione
professionale come la pedagogia sia stata e possa essere ancora
un'arte e una missione, una scelta che probabilmente, nei tempi
a venire, tornerà centrale nel panorama delle possibilità
di resistenza al potere.
Il libro di cui parlo è La città e la scuola,
l'editore, ovviamente, (pochi altri ne avrebbero accolto con
altrettanta convinzione la proposta di pubblicazione) Elèuthera.
La mia tesi è semplice, ed è costruita in buona
parte sulla lettura dei grandi educatori di ieri e in particolare
degli scritti di Borghi, ripresi in mano in funzione di La
città e la scuola, e di quelli di Capitini (in La
città e la scuola è compreso non a caso, anche
se accorciato, il bellissimo saggio di Borghi in morte dell'amico
Capitini, in un anno non qualsiasi come il '68). È questa:
prima c'erano gli educatori - i "maestri" e "mastri",
che erano poi spesso la stessa persona: trasmettitori di conoscenze
e di tecniche e al contempo di un sistema di modelli di comportamento
e di valori in cui socialità ed etica erano tutt'uno.
Poi vennero (alcuni di loro furono i primi a fare il salto)
i "militanti", membri di organizzazioni sempre più
vaste e con compiti già di "potenti", e la
politica (in funzione della rivoluzione) sostituì l'educazione.
Poi, giunta al potere, la militanza rivoluzionaria rovesciò
le sue vesti, e portò al disastro ben noto della possibilità
e della speranza di un diverso potere. E infine, oggi, all'inizio
di un nuovo secolo che secondo alcuni è iniziato più
di dieci anni fa con la caduta dell'impero sovietico e con la
caduta di ogni pretesa a un potere politico accentratore (mentre
si assiste, però, alla realtà mai prima realizzata
di un unico potere economico mondiale più che accentratore)
con il fallimento di ogni grande progetto politico che ha portato,
corruzione dopo corruzione, perfino all'impraticabilità
della politica almeno in paesi come l'Italia, ecco che i "militanti"
della politica tornano a sostituirsi gli "educatori",
i mastri e maestri, i trasmettitori di conoscenze e valori,
generazione dopo generazione, nella coscienza di un'azione obbligatoriamente
minoritaria. Da minoranza a minoranza, da pochi a pochi, in
attesa di sviluppi futuri e, chi lo sa?, della sconfitta di
ogni "realtà".
Questo non c'è, è ovvio, negli scritti di Borghi,
ma è come se vi fosse iscritto dovunque ed è una
conseguenza che è perfettamente legittimo trarne, così
come è facile trarla dalla lettura di tanti altri pensatori
e "maestri".
"Faccia a faccia"
Rileggiamo il suo saggio sull'autonomia, che è, per
quanto riguarda l'educazione, autonomia della scuola dallo stato,
dalla chiesa, dai partiti, dai sindacati, dall'industria e da
ogni altro potere, ma anche qualcosa di più profondo
e necessario: "Il problema dell'autonomia della scuola
è parte integrante di quello più generale dell'autonomia.
Esso investe tutti i campi della cultura, quelli dell'arte,
della scienza, della filosofia e, più largamente, i problemi
del funzionamento e dell'organizzazione della vita sociale,
nonché quelli del lavoro che ne sono momenti integranti.
(...) Chiama in causa tutte le dimensioni dell'esistenza individuale
e collettiva, tutte le libertà formali e informali. (...)
È rifiuto dell'esistente, dell'acquiescenza alla realtà
sussistente considerata e vissuta come data, stabile, compiuta;
mentre è intrinsecamente collegata all'innovazione, alla
creatività, alla progettazione che unisce insieme passato,
presente e futuro (...)". "La autonomia è una
modalità della comunicazione" (e ciò "esclude
l'esistenza tra individui e tra gruppi di rapporti di assoluta
dipendenza al pari che di assoluta indipendenza, mentre postula
legami fatti di interazione, di reciprocità, di partecipazione
di finalità sotto il profilo intellettuale ed emotivo").
Passando da Cattaneo e Salvemini a Rogers e Dewey, l'autonomia
è alla base di ogni ideale federalistico, di ogni educazione
alla libertà.
Borghi insiste sul "faccia a faccia" del rapporto
pedagogico, insiste in sostanza sul legame minoritario, di minoranza
cosciente dei propri limiti e doveri e della propria forza,
insiste sul reciproco riconoscimento dell'io e dell'altro che
è fatto di autoconsapevolezza e di ricerca di un terreno
comune, in funzione di un progetto comune.
Lamberto Borghi non ha teorizzato in proprio, se così
si può dire, e ha preferito, dall'interno del suo lavoro
di professore universitario e di maestro di maestri, un ruolo
appartato e preciso, dentro una città e una comunità
precise. Venuto dalla Livorno della minoranza ebrea e dalla
Pisa di Capitini e dalla infima minoranza nonviolenta venuta
dall'America di Dewey Rogers Cassirer Macdonald Arendt, dall'amicizia
di Caffi e Chiaromonte, dal sodalizio con Codignola dentro "Scuola
e città" di Firenze, egli si è voluto trasmettitore
e comunicatore, tramite un incontro tra il pensiero di chi,
prima di lui e dei citati, aveva già teorizzato e praticato
autonomia e libertà, e i possibili allievi continuatori
di una pratica di ricerca e confronto, tempo dopo tempo. I suoi
saggi sono lezioni di storia e lezioni di metodo: aprono gli
occhi, insegnano a vedere, invitano ad agire.
Goffredo Fofi
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