Ci restano quelle tre fotografie memorabili di Robert
Capa: una folla di uomini - e qualche donna - che salutano con il pugno chiuso
vicino alla fronte, e due primi piani di combattenti che appaiono molto più
vecchi della loro probabile età, uno ha la bocca socchiusa in un ultimo
canto di lotta perduta, l'altro fissa un punto verso l'alto, con sguardo infinitamente
triste. Le immagini della sconfitta definitiva. Vennero scattate a Barcellona
il 25 ottobre del 1938. Sono le migliaia di volontari delle Brigate Internazionali
che lasciano la Spagna, obbedendo all'accordo ipocrita che costrinse loro ad andarsene
per obbedire a una falsa "non ingerenza", mentre la Germania nazista
e l'Italia fascista avrebbero impunemente continuato a sostenere la macchina bellica
di Francisco Franco. Sembrano volti di minatori - e chissà quanti di loro
lo erano davvero - con la polvere e il sudore a rendere più forti i contrasti
del bianco e nero, facce scure di fango e fumo, qualcuno accenna un sorriso forzato,
ottenendo soltanto di apparire più disperato dei compagni seri e cupi.
Non c'è un berretto uguale all'altro, anche se prevale il basco di traverso,
di uniformi neppure un accenno: solo due particolari risultano simili in tutti,
il fazzoletto al collo e il vuoto negli occhi. Sono sconfitti, superstiti dell'ultimo
sogno utopista nell'Europa che si appresta a dimenticarli in fretta.
Qualche mese più tardi, li avrebbero seguiti lunghe colonne di profughi,
oltre mezzo milione di persone affamate e coperte di stracci, che varcavano i
Pirenei sperando nell'accoglienza di una Francia ritenuta dai più un paese
amico, e sfuggendo alle esecuzioni sommarie che raggiunsero livelli da genocidio.
Chi non ce la fece ad affrontare l'estenuante esodo a piedi, tentò di trovare
un imbarco negli ultimi porti non ancora occupati dai falangisti. Ma la fine di
ogni speranza, e la coscienza di un futuro tetro, si risolsero per molti in una
scelta estrema. Tra le testimonianze di quei giorni disperati, ecco quella dello
storico L. Romero:
"Le persone che si pigiavano sui moli di Alicante erano di condizione molto
diversa, ma condividevano un destino comune ed erano agitate da identiche correnti
di estremo scoraggiamento... La notte accendevano dei falò attorno ai quali
si riscaldavano e si assopivano i fuggitivi le cui speranze sarebbero state frustrate...
Non c'è dubbio che nel porto di Alicante vi fu un alto numero di suicidi.
Un uomo salì in cima a un lampione, vi restò molto a lungo, parlando
come un folle in tono apocalittico. Alcuni dicono che si lanciò sul selciato,
altri che prima di cadere si sparò un colpo di pistola... C'era chi si
gettava in mare e affogava, e chi una volta in acqua se ne pentiva e chiedeva
aiuto. Molti si sparavano. La voglia di suicidarsi si diffondeva come un contagio".
La Francia si dimostrò spietata con gli sconfitti. Già il governo
del Fronte Popolare, presieduto dal socialista Léon Blum, aveva mantenuto
un atteggiamento ambiguo nei confronti della repubblica, senza imporsi alla tracotanza
di Hitler e Mussolini che inviavano truppe, aerei e carri armati a Francisco Franco,
e ostacolando continuamente gli acquisti di armi da parte del governo legittimo.
Poi, ritiratosi Blum nel giugno del '37 e tornati al potere i conservatori, i
rifugiati spagnoli si ritrovarono in un paese che, pur non avendo chiuso le frontiere,
li vedeva come una fonte di fastidi insopportabili, scomodi per il piano di normalizzazione
nelle relazioni con il governo del Caudillo e, in definitiva, bocche da sfamare
in un periodo di crisi. Per mezzo milione di profughi vennero allestiti campi
di concentramento dove le baracche, il cibo scarso e infame, nonché la
disciplina feroce, li avrebbero resi alquanto simili ai campi di sterminio nazisti.
Dietro quel filo spinato c'era un diciannovenne antifascista di nome Eulalio Ferrer.
Oggi ha ottant'anni, vive a Città del Messico, e ha recentemente chiesto
le pubbliche scuse della Francia. Per lui, quei giorni furono di "schiavitù",
senza mezzi termini.
"La Germania ha chiesto perdono per l'Olocausto. E la Francia cosa aspetta?
Quale spiegazione può darci per le vessazioni, le umiliazioni, i maltrattamenti
e la follia? Perché furono in molti a perdere la ragione di fronte a tanto
orrore, e quando successivamente ne deportarono qualche migliaio in Algeria, c'era
sempre qualcuno che si metteva in testa il cappello malconcio, il fagotto con
i miseri averi in spalla, e salutava dicendo: ci vediamo, laggiù mi aspettano.
E si incamminava sulla spiaggia verso l'orizzonte, entrava in acqua, e affogava
tra le onde... Ricordo nel nostro campo in Francia un violinista dell'Orchestra
Sinfonica di Barcellona, che aveva miracolosamente conservato il proprio strumento.
Tutte le sere faceva il giro delle baracche, suonava un paio di brani in ognuna,
e salutando ripeteva immancabilmente: ci rivediamo domani alla stessa ora nel
Teatro Liceo, sulle Ramblas, non mancate."
Eulalio Ferrer era giovane, robusto, riuscì a resistere grazie alla forte
tempra. Varcando la frontiera, aveva dato il suo cappotto al poeta Antonio Machado,
vedendolo riverso a un lato della strada, sfinito e ammalato, con la vecchia madre
in condizioni non certo migliori delle sue.
Lavori forzati
"I primi giorni furono tremendi. In pieno inverno, dormivamo sulla terra
gelata dei Pirenei...". Ma allora non avrebbe mai immaginato di dover subire
anni di privazioni e "schiavitù". Pochi mesi dopo, il governo
francese offrì agli sconfitti tre sole alternative: tornare nella Spagna
di Franco, arruolarsi nella Legione Straniera, o rassegnarsi ai campi di lavoro
forzato. Che venivano chiamati proprio così, senza eufemismi. Circa centocinquantamila
decisero di rientrare: la maggior parte finì davanti a un plotone d'esecuzione,
gli altri avrebbero affrontato lunghi anni di carcere, dove comunque la fucilazione
sarebbe sempre stata "pendiente". Qualche migliaio accettò l'arruolamento
nella Legione - mentre chi riuscì a fuggire dai campi si unì ai
maquis, i partigiani francesi - andando a combattere su diversi fronti,
ed evitando di poco l'invasione tedesca e quindi il governo di Vichy capeggiato
dal collaborazionista Pétain. Ufficialmente al seguito di De Gaulle, e
di conseguenza in forze agli Alleati, i legionari spagnoli combatterono nella
liberazione della Norvegia e della Grecia, a El Alamein contro Rommel, parteciparono
allo sbarco in Sicilia e all'assedio di Montecassino. I tre quarti di loro perirono
in battaglia, basti pensare che solo nell'invasione di Creta si contavano cinquemila
repubblicani spagnoli inquadrati in una divisione paracadutisti: ne sopravvissero
diciassette...
Eulalio Ferrer fu tra quanti si rassegnarono ai lavori forzati, che si calcolano
da settantamila a novantamila uomini. Chiuso nei carri bestiame, venne trasferito
nella famigerata Compagnia 168, sul lago Loiret - in quel periodo ghiacciato -
nel massiccio centrale.
"Dovevamo scavare a mani nude, che sanguinavano, e le curavamo orinandoci
sopra. Lavoravamo dalle sette del mattino alle sette di sera, per costruire una
fabbrica di prodotti chimici. La 'paga' era di un franco al giorno, cioè
il costo di un francobollo per la posta ordinaria locale... Non bastava neppure
per scrivere all'estero. Gli 'alloggi' erano recinti per maiali, tre uomini in
ognuno, e i pidocchi, un tormento incessante: pieni di piaghe dappertutto... Per
sbarazzarcene facevamo il bagno in un buco scavato nella superficie ghiacciata
del lago. Ma solo i più giovani e ancora in forze potevano permetterselo.
In tanti morivano di polmonite, dissenteria... Vedevamo passare continuamente
le barelle con i cadaveri sopra".
Poi, un giorno, la speranza di tornare a vivere si presentò sotto forma
di una lettera dell'ambasciatore del Messico Luis Rodríguez, che su ordine
del presidente Lázaro Cárdenas offriva al governo di Vichy ospitalità
ai rifugiati spagnoli, incaricandosi anche del loro trasferimento in nave. La
prima reazione del maresciallo Pétain al diplomatico messicano fu testualmente:
"Mi stupisce che siate disposti ad accogliere quell'esercito di topi di fogna".
Il presidente Lázaro Cárdenas riuscì nel suo intento. Per
Pétain, quei "topi di fogna" erano un fastidio di cui si liberava
volentieri.
Dopo due tentativi, Eulalio Ferrer - ostacolato da una schedatura come "disertore"
per aver tentato la fuga dal campo - si imbarcò a Le Havre e arrivò
sulla costa veracruzana, nei pressi di Coatzacoalcos. Oggi, a ottant'anni, si
fa intervistare nella sua vasta biblioteca chiedendo sui giornali messicani -
per primo "La Jornada" - che la Francia si scusi ufficialmente. Non
vuole risarcimenti, vuole sconfiggere l'oblio: che il mondo ricordi come furono
trattati i rifugiati spagnoli della guerra civile. In Messico, ha trovato una
seconda patria.
Eulalio Ferrer è uno dei tanti anonimi antifranchisti che nel porto di
Veracruz hanno innalzato un monumento, costituito da una semplice lastra di bronzo
con scritto: "Gracias, México".
Pino Cacucci
|