Rivista Anarchica Online


movimenti

Il popolo di Seattle
di Helena Velena

Così si intitola un libro edito da Malatempora. Lo presenta qui l'autrice.

Fa uno strano effetto leggersi oggi documenti di movimento risalenti agli anni '70.
Sia che si tratti di scritti operaisti sulle lotte di fabbrica di ambito marxiano-marxista, analisi sulle forme e le motivazioni della lotta armata, testi di critica radicale situazionista o saggi libertari antiutopici, quello che si noterà sempre è che fortemente pervasivo era un senso di programmaticità e fiducia nei cambiamenti in positivo che il futuro avrebbe di lì a poco portato. Anche quando, appunto, si faceva autocritica feroce o si esaminava in modo fortemente analitico "lo stato delle cose", l'idea era che il comunismo, socialista o anarchico che fosse, era comunque alle porte, e che "noi" si era l'avanguardia di un mondo, una comunità, un "popolo" nuovo che stava mettendo in crisi & rivoltando tutti, ma proprio tutti i dettami dell'ancient regime.
E a partire dal famoso falso filosituazionista della "Carta della Sorbona" diffuso nel maggio del '68, per oltre un decennio l'idea era che, come cantavano i Jefferson Airplane, "insieme si può fare la rivoluzione". Le memorie di chi scrive riportano appunto a giorni di fervore unico passati tra Radio Alice e le strade & le piazze, col senso intenso di "fare la storia", tra una manifestazione e un esproprio proletario, un volantinaggio davanti a scuola e una carica della polizia, con una profonda convinzione che tutto, veramente tutto stava cambiando, e un nuovo mondo, una nuova realtà, erano alle porte.
In realtà, come i militanti delle Brigate Rosse sequestrati dallo stato capirono per primi nel loro osservatorio pur malgrado privilegiato dato dal distacco forzato dagli entusiasmi auto contagianti, il mondo ci si stava cambiando intorno senza che ce ne accorgessimo, troppo presi/e dal nostro "interagire" con e per nome di un "popolo", quello della gente comune, che ormai non esisteva più, soprattutto nella forma in cui noi lo volevamo vedere idealizzandolo.
La sconfitta, la fine di un'illusione, venne infatti non dall'aver perso clamorosamente battaglie sanguinose, non dall'essere stati sopraffatti/e dalla repressione di stato e polizia, ma dal non essere più rappresentativi/e di percorsi e di bisogni che, in contraddizione coll'allargamento dell'area numerica che li rappresentava, da avanguardia passavano inesorabilmente a nicchia senza che avessimo più nuovi strumenti adatti per comprenderlo.
Un processo di erosione lento ma di grande successo perché apriva brecce sulle piccole cose, quelle assolutamente trascurabili per chi, "unto dal verbo" si apprestava a fare la rivoluzione. E poi perché il gioco degli opposti, la presenza di una componente ying nello yang e viceversa, è oggettiva parte dell'esistente. Non a caso il primo clamoroso successo soft pop americano dei Bee Gees arrivò nell'era dell'hard rock, ed il loro secondo, con la disco music, quando sembrava ormai certo che i templi della cultura borghese fossero stati spazzati via dalla gioia creativa del "comunismo giovane e felice".

 

Il punk finì quando ...

Forse avremmo dovuto fare più attenzione ai capelli corti ben tagliati, ai Rayban e alle Lacoste dei "dirigenti" di Rosso e di tanti altri gruppi dell'autonomia & non solo, e meno alle loro parole. Ma non lo facemmo, e il resto è storia, anzi tragedia e farsa.
Certo, è vero; gli anni '80 dalle ceneri del movimento portarono l'ondata anarco (molto) situazionista (poco) del punk, con tutta la sua carica sovvertitrice di praticamente tutti i valori tradizionali, rituali e nazionalpopolari che stavano fortemente riacquistando terreno, nel nulla desertificato del dopo-movimento, ma....
Ma anche il punk come controcultura (la musica è un'altra cosa, e chissenefrega, sinceramente) morì quando cominciò ad essere fico, invece che scriversi nomi di gruppi sconosciuti o frasi criptiche e slogans radicali sui giubbotti, indossare piuttosto i cappellini delle squadre di baseball e football americano & le t-shirts, pure quelle false fatte da Pierre di Riva del Garda di Vision Streetwear, Everlast e di gear skate, surf (che pretendevamo di pensare fosse tutta "robba alternativa") o peggio ancora boxe.
E anche in quel caso non ce ne accorgemmo.
Ma era la cultura della globalizzazione che avanzava dentro di noi, il morbo della Nike inoculato che iniziava il suo percorso retrovirale. Certo, negli anni '70 il WTO ancora non esisteva, però la Trilateral si, e non è che i suoi scopi fossero poi tanto diversi.
E a rileggersi un articolo contro le multinazionali di John Diebold (why be scared of them?) targato 1973, scorrono i brividi lungo il fondoschiena, tanto è attuale l'analisi, tanto è precisa la descrizione, tanto è lucida la definizione del loro ruolo e dei loro metodi di intervento che sembra scritto trent'anni dopo, e a proposito proprio del WTO.
Però, troppo convinti, tutti, che l'economia fosse solo un sottoprodotto della politica del Capitale, e che quest'ultimo si sarebbe marxianamente autoestinto, lottavamo sordidamente contro il controllo sociale e, per l'appunto, specificamente politico, che il Potere metteva in atto per fiancheggiare il Capitale, senza accorgerci che era proprio questo in realtà a usare il potere come strumento e non viceversa. E nessuna archeologia luxemburghiana o trotzkista poté aprirci gli occhi, e nessuna analisi della Scuola di Francoforte ne critica radicale, radicalissima, situazionista, ci colpì se non di striscio, troppo preoccupati/e come eravamo di creare la nostra identità antagonista FUORI da un sistema che giustamente detestavamo.
E chi aveva colto nel segno, scovando il vero volto di chi realmente teneva le fila del sistema di cose contro cui ci opponevamo c'era già, ma noi preferivamo, forse allora pure giustamente, vivere l'intensità identitaria della nostra ribellione quotidiana, piuttosto che fare un lavoro sporco, noioso, poco gratificante e altamente destabilizzante: capire quanto pure noi eravamo già parte di ciò che combattevamo.
Mentre scrivo MTV manda un video degli Shandon, punkrock italico da parrocchia, che rifanno Karma Chamaleon dei Culture Club in versione ska-punk rock, celebrandola come "bella canzone" dall'altissimo contenuto di entertainment pop. Il rastapunk in kilt rosso e t-shirt dei DRI che balla insieme a loro sul palco forse pensa al deturnamento del tutto e al "riprendiamoci il divertimento", ma intanto la band ci ammanta anche le sue "corporate griffes", da STP a Playboy, mentre il tutto, ripeto, è trasmesso da MTV.

Aggiorniamo le agende!

Ciò, sia detto, è molto più "globalizzazione" che non gli OGM o il brevetto del riso Basmati, ma intanto noi continuiamo ancora (per poco, però) a non accorgercene, a sviluppare un anticorpo che ci impedisce di combattere in modo adeguato, fuori dalla retorica simbolica della "protesta", l'operato concreto del WTO e dei suoi propugnatori, perché ne siamo pure noi fisiologicamente coinvolti/e.
È questo il motivo per cui occorre aggiornare le nostre agende, e per quanto assurdo ciò possa sembrare, guardarci intorno, nella nostra scena, e imparare da ciò che vediamo.
"Popolo di Seattle" quindi, al di là della stereotipizzazione televisiva, è qualcosa di molto diverso da un aggiornamento storico della definizione di "autonomi", e non è neppure un sinonimo di "compagni dei centri sociali". Il senso di appartenenza a questa definizione è necessario quindi viverlo in un senso allargato che non comprende nel NOI soltanto chi scrive e chi legge, ma anche tutta una serie di realtà talmente multiformi da essere spesso anche contraddittorie, conflittuali e apparentemente inapparentabili.
Eppure i metalmeccanici & i punk anarchici, le casalinghe e i buddhisti, i contadini & i sindacalisti, le associazioni consumatori e gli ecologisti, i preti socialisti e le creature GLBT (e via con luoghi comuni e associazioni improbabili) rappresentano molto di più che non un casuale fronte comune di rivendicazione di migliori condizioni di vita.
Rappresentano piuttosto il paradigma di un nuovo modo di fare politica che non si basa più sui massimi sistemi di ideologie o analisi politiche messianiche, ma che vibra della necessità di fare costantemente i conti col degradare continuo del quotidiano. Un degradare che ci riguarda indipendentemente dalle nostre scelte politiche o dalle nostre condizioni sociali, dove sia chi era favorevole all'intervento bellico italiano in Serbia, sia chi era contrario rischia ora di morire di cancro per effetto dei bombardamenti (e se il tasso di esposizione radioattiva all'uranio impoverito dei militari italiani corrisponde alle media nazionale è semplicemente perché TUTTA la nazione è a rischio, indipendentemente dalla distanza di interazione con lo stesso). E i già 8000 morti italiani dal dopo Chernobyl non sono iscrivibili in una antica dinamica marxista o marxiana che sia, di conflitto tra proletariato e padronato, ma fanno suonare una campana (oltre che a lutto) a raccolta per un modo anche analiticamente completamente nuovo di fare attività politica e di definire nuovi nemici, e nuovi alleati (un "popolo" intero...), ma soprattutto nuovi obiettivi, più concreti, più socializzanti ma soprattutto più urgenti.
Tenendo pure conto che se a volte il "nemico", il WTO e la logica della "globalizzazione" a favore delle multinazionali è assolutamente palese, nella maggioranza dei casi, quelli più pericolosamente "virali", non lo è poi così tanto.
Quindi se, passando dal cancro dell'uranio a quello dell'amianto, il caso francese, il cui governo è stato condannato dal tribunale del WTO a continuare a importare tale mortifero materiale da una multinazionale canadese, ci sembra un motivo sufficiente per andare a sfasciare le vetrine dei McDonald's e comunque anche contestare e controinformare ad ogni nuovo meeting dei G8 e del WTO stesso, su tante altre forme di desertificazione psico-sociale meno evidenti e palesi occorre assolutamente mobilitarsi al più presto, anche se ciò richiede un'autoanalisi e autocritica sociocomportamentale che rischia di non lasciarci ne indenni ne puri nel nostro ruolo di "ribelli incazzati".
Occorre liberarsi da una mentalità macdonaldizzata & MTV-izzata, anche se non mangiamo hamburgers né guardiamo videoclips di pop bands ballerecce e 15enni sexybombs, ma che determina e modifica comunque il nostro stile di vita facendoci accettare ben di più di quello che rifiutiamo. E se è recentissima la nascita di una protesta contro la Nike in giro per l'Italia, la pretestuosa motivazione del tutto (lo sfruttamento del lavoro minorile asiatico) mostra come il reale pericolo sia ancora di là da essere colto, e come ancora ragioniamo con una pseudo coscienza buonista ipocrita, diciamolo chiaramente, e discendente da polverose impostazioni politiche antiche. Ipocrita perché ci permetterebbe di definire un "più cattivo" rispetto ad Adidas, Rebook, Fila & co, permettendoci quindi di rifiutarne una e continuare ad essere imbelli consumatori zombie delle altre, le quali, sia detto, fanno esattamente ciò che fa la Nike, cioè ciò che è più sensato in una logica di profitto "uber alles".
Ma anche perché focalizzando su di un unico nemico invece che sull'interezza del sistema, continuiamo ad essere preda dei consumi identitari che sono la vera e attualissima faccia di un controllo sociale sinuoso, brutale e potentissimo che è il mostruoso ostacolo che si frappone tra noi e la possibilità di VIVERE, piuttosto che vegetare, e sempre peggio, nel ciclo del "produci, consuma, crepa".
Tutto ciò e non solo è affrontato nel nuovo libro di chi scrive (Helena Velena) Il Popolo di Seattle, Jimi Hendrix compreso! (Malatempora, pagg. 128, lire 20 mila), come proposta di discussione e crescita sinergica verso una nuova politica, questa sì globale, che sappia imparare a liberarsi dai particolarismi ideologici grazie a una contaminazione con le altre componenti di questo "popolo" altrettanto globale di cui noi siamo, sia chiaro, solo una delle tante componenti.

Helena Velena

Il Popolo di Seattle di Helena Velena è uscito giusto in tempo per Genova, ed appartiene al trittico delle edizioni Malatempora assieme a Le multinazionali fanno male di Ilde Scaglione (pagg. 128, lire 20mila) e Dove andrà a finire la nuova economia di Domenico De Simone (pagg. 128, lire 20mila).
Per i lettori di A questi libri sono in vendita anche direttamente da Malatempora - Vicolo della Penitenza 23 - Roma 00165 - telfax 0668804321 - malatempora@libero.it con lo sconto del 20% - spedizione immediata e gratuita.