Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)

 

Un'idea chiamata America

Bene: si parla d’America anche in questo spazio.
Non dell’America morta ammazzata al World Trade Centre che adesso censura dallo spazio radio “Imagine”, Bob Dylan, i REM e i Rage Against The Machine e cento altri musicisti e canzoni “colpevoli” di essere improvvisamente inadatte all’umor nero dei radioascoltatori in lutto.
Non dell’Amerika con la “k” macchina da guerra dei Poliziotti del Mondo, non dell’AmeriKKKa razzista in fuga da Durban né degli U$A scritti così, col simbolo del dollaro ad esplicitare la connessione fondamentale e maligna della politica col denaro.
“America” è un’idea che ci siamo fatti e che così abbiamo chiamato; mi spiego meglio: di un’immagine di “certa” America che ci siamo fatti noi (e intendo col plurale e col “noi” la fetta sociale dei nati nei tardi anni Cinquanta a cui appartengo, temendo di non essere poi così distante da altre generazioni e da altri luoghi colonizzati) vedendola in tv e sognandola al cinema, ascoltandola dentro ai dischi, leggendola attraverso romanzi, lettere, giornali e poesie.
Insomma immaginandola da qui, a distanza di sicurezza, dalla provincia inconsapevole e distante dalle torri di controllo del commercio mondiale, lontano dalla stanza dei bottoni e dalla prima linea.
Se per gli albanesi l’America è (era, meglio) una skyline che ricalca la curva delle tette delle vallette di Canale 5, io nel mio piccolo ho chiamato “America” uno stato della mente, una specie di fiaba per bambini cresciuti, o un sogno ad occhi aperti: una cosa che abbiamo fatto in molti, illusi superficiali ipnotizzati dalla pubblicità subliminale “peace and love” (a cui soltanto dopo i Crass nelle scritte sulle magliette e sui giubbotti abbiamo aggiunto “anarchy”, parola che in cuor nostro era già scritta col pennarello nero grosso così e indelebile) a stelle-e-strisce cacciata dentro a mille e mille dischi, libri e film.
Il discorso viene da lontano, una strada lunga più di trent’anni almeno per quanto mi riguarda.
Forse è nato tutto da un seme piantato in testa quando alle superiori qualcuno - uno dei tanti supplenti di italiano del primo anno - mi ha cacciato in mano un ciclostilato di “Howl” di Allen Ginsberg e guardandomi fisso negli occhi mi ha detto di leggerlo con attenzione, ci avrei trovato dentro delle meraviglie, diceva, e aveva ragione. Oppure è stato quando ho ascoltato con gli occhi fuori della testa a boccaperta per la prima volta su un vero impianto stereo Frank Zappa e le sue Mothers of Invention a casa di un compagno di scuola di famiglia benestante ma ripetente e contestatore (l’album era “Burnt weeny sandwich”, lui credo sia diventato il direttore di una catena di supermercati), o mi guardavo “Easy rider” o “Woodstock” al cineforum... e io ‘sto benedetto seme lo innaffiavo di sospiri e lo concimavo con tonnellate di semplice genuino triste povero “desiderio”.
Sarei riuscito a coronare il mio sogno a stelle e strisce soltanto anni dopo: ho incontrato Allen Ginsberg al Festival Internazionale dei Poeti a Roma – e anche William Burroughs, John Giorno, Anne Waldmann, Michael McClure e Gregory Corso... - senza riuscire a smettere di tremare né a districare il groppo che mi serrava inesorabilmente la gola, nel 1983 ho attraversato l’Atlantico per trascorrere tre settimane anfetaminiche a NYC senza scrollarmi di dosso il jet lag, mentre per riuscire a comprare una vera moto avrei dovuto aspettare i trent’anni.
E non è finita: sono un arrivato, gente. Una Fender l’ho presa coi risparmi solo due anni fa – non è tardi, non sono ancora morto – ma più che suonarla, non ho mai un po’ di tempo per me, quando sono solo in casa mi consolo a spolverarla.
Tanti tra noi sfigati teenagers di provincia, cresciuti – me compreso – a pane comune e marmellata dura e formaggini in offerta speciale negli ultimi ritagli di campagna veneta ancora da devastare col cemento e l’asfalto, avremmo dato chissà cosa per poter scambiare – anche solo per un giro, solo per poco, il tempo di una canzone – il chopper dentro lo schermo con la vecchia bicicletta ereditata dal fratello/cugino maggiore, una vera Fender Stratocaster con la nostra timida Eko corde strausate e con l’ammaccatura coperta alla bell’e meglio con un adesivo del CND staccato chissà da dove.
Ecco un punto da ponderare: volevamo il chopper ma non avremmo saputo guidarlo sulle nostre strade (troppo corte, e con troppi fossi, troppi platani e troppe curve). Volevamo la Fender e non saremmo assolutamente stati capaci di urlare l’inno di Mameli dietro a Jimi Hendrix: l’avremmo usata per massacrare “Signore, io sono Irish” o “Vorrei comprare una strada” o “Risposta” cioè la versione italiana di “Blowin in the wind” (canzoni sovversive imparate in parrocchia).
Per chi ci si è ritrovato in mezzo per questioni anagrafiche, gli anni ’70 hanno significato qualcosa di molto diverso dai pantaloni a zampa d’elefante, dalla discoteca del sabato sera e dalle perline colorate commercializzate adesso ai ragazzini che sono arrivati dopo.
Siamo stati terra di mezzo, troppo piccoli per capire realmente il Sessantotto (però ricordo vivamente l’agitazione di mio padre, che tremava e aveva gli occhi bagnati quando parlava a casa degli scioperi a Marghera, per mantenere quel lavoro che avrebbe portato neanche trent’anni dopo alla fossa lui e qualche centinaio d’altri suoi compagni attraverso un calvario di chemioterapie e morfina), e disgraziatamente fuori tempo massimo per il punk e per il 1977 indianometropolitano.
Sia chiaro, non è stata una questione di scelte obbligate esplicite: chi non s’è adattato alla fabbrica e all’utilitaria non è poi per forza finito in banca, oppure sui marciapiedi a darsi via o a mendicare spiccioli per Bhagwan o per l’eroina. La provincia offre ombra e riparo, grande sottana a fiori protettrice e discreta: una vita a velocità ridotta, sopravvivenza forse più che vita, pochi scossoni e curve morbide. Qualcuno chiama tutto questo mediocrità, ma per noi bravi ragazzi cresciuti con poca o niente televisione abituati a condividere discorsi libri dischi film oltre che la merenda, i chilometri a piedi o in autobus per tornare a casa – ai casermoni, ai quartieri dormitorio – erano cosa normale come il puzzo che veniva dagli stabilimenti e la nebbia della laguna.
Noi allora non lo si sapeva, ma questo spaesamento non era cosa che succedeva solo in provincia: come confessarono Lalli e Stefano Giaccone (che stavano a Torino tutt’e due) nelle note di copertina di un loro vecchio disco, anche loro – proprio come qui – sentivano più vicina al cuore una canzone di Bob Dylan o di Joni Mitchell o un pezzo di Archie Shepp o della Liberation Music Orchestra piuttosto che una canzone popolare napoletana o qualsiasi altra canzone melodica tradizionale tricolore.
Ce lo raccontò anche Eugenio Finardi in più d’una sua canzone, ce lo urlò in faccia rimproverandoci di sognare la California incapaci di comprendere le parole “dentro ai manifesti e scritte sopra ai muri”, ed Eugenio abitava a Milano.
Musicalmente parlando (la musica è il sogno più a portata di mano) siamo cresciuti globalizzati, con le radici nel posto sbagliato, piantate da qualche altra parte: in un posto che abbiamo chiamato “America” assecondando la corrente, mettendo le nostre canzoni in rima con la propaganda degli invasori.
La nostra America – il sogno di cui vi parlavo all’inizio – assomigliava più che all’America a qualsiasi cosa che fosse diverso da casa-scuola-oratorio, diverso dalla passeggiata pomeridiana obbligatoria in piazza tasche vuote a guardare le vetrine senza potersi mai comprare un cazzo, diverso dal negozio di dischi-libri-giornaliporno di seconda mano (!), diverso dall’autobus giallo che ferma a ogni pisciata di cane e dalle messe beat (o dai popconcerti-raduno, che sotto certi punti di vista erano un po’ lo stesso). America era qualcosa di distante dai sogni rimasti per forza tali, dalla felicità immaginata e mai realmente provata.
Ho comprato per caso Frisco Mabel Joy revisited e quando l’ho ascoltato sin dal primo istante ho avuto un brivido indescrivibile che mi ha fatto ricordare violentemente tutte queste frustrazioni - sepolte chiuse a chiave in un baule da qualche parte in testa, rimasto al buio e in silenzio per tutti questi anni - che chiamavo chopper/Fender Strat/California a seconda della temperatura a cui friggevano la mia inquietudine e la mia voglia di andare via.
In un rimescolamento malato di date, mi sono venute in mente tutte le copie riacquistate nel corso degli anni (per usura e/o per furto) di “4-Way street” e del “Live at the Old Quarter”, m’è venuta in mente la festa per i miei 18 anni organizzata in garage, ho ricordato la prima canna e la bottiglia di Jack Daniel’s che un’amica speciale mi aveva regalato come incoraggiamento.
In una parola, “Frisco Mabel Joy revisited” è per me un disco magico. In due parole, magico e bellissimo. Potrei andare avanti per delle pagine con i superlativi, e senza sentirmi in colpa nei vostri confronti.
E’ un’opera notevole, da non confondersi - per “retroterra culturale”, mezzi e prospettive economiche - con la recente processione di cloni discografici (dopo il tribute collettivo a “Nebraska” di Bruce Springsteen di qualche tempo fa, sono usciti da poco un rifacimento di “Rumours” dei Fleetwood Mac e addirittura uno di “Songs from a room” di Leonard Cohen).
Questo progetto parte da una miscela esplosiva di sentimenti.
Dall’amore per certe vecchie canzoni tristi e per certi vecchi cantanti che accompagnano un pezzo della tua vita e poi piano piano scompaiono: “Frisco Mabel Joy” venne pubblicato nei primissimi anni ’70 da Mickey Newbury, un frequentatore dei piani alti delle classifiche americane negli anni ’60 (una stella di Nashville, le sue canzoni sono state interpretate da Kenny Rogers, Ray Charles, Tom Jones, Waylon Jennings, Elvis Presley e Roy Orbison tanto per dire una manciata di nomi tutti maiuscoli anche da questa parte dell’oceano) ma commercialmente in declino nella decade successiva, scomparso dalla circolazione in quella ancora successiva e dimenticato da tutti negli anni ’90.
Ricordo una copia strausata di “Frisco Mabel Joy” nell’archivio di una delle primissime radio che ho frequentato: ogni tanto mettevo in onda qualcosa, magari in compagnia di un blues di David Bromberg o di una qualsiasi cosa di Townes Van Zandt (dei quali mi piaceva immensamente la condivisione musicale d’intimità e segreti, sorridente e solare il primo, fumoso e desertico il secondo), o dei “miei” Joni Mitchell, John Fahey, Bruce Cockburn, Neil Young, Eric Andersen, che ascoltavo devotamente prima di venire fulminato da Patti Smith e da “Stations of the Crass”.
Mi piaceva di quel disco di Mickey Newbury soprattutto “How many times” così struggente e carica di addii sconfinatamente tristi e definitivi, tramonti, cose già viste, frasi pensate e mai dette (per raccontarne lo spleen potrei descrivere Newbury come una specie di Chet Baker in versione cantautore country, se non vi fa troppo schifo l’accostamento tra i due generi espressivi distantissimi).
Ritornando all’oggi, questa versione “revisited” è caratterizzata dall’enorme rispetto per l’originale: un rispetto sincero che non ha impedito il libero volo degli arrangiamenti e delle interpretazioni.
E’ curioso ed emozionante ogni singolo contributo: dall’iniziale ”American trilogy” registrata in diretta su un dat in Slovenia dai norvegesi Midnight Choir alla successiva “How many times” rifatta dai Walkabouts (un gruppo indipendente attivo da vent’anni, molti bellissimi album all’attivo), via via fino al bonus track conclusivo “San Francisco Mabel Joy” (che però non ricordo fosse presente nell’edizione originale) registrata in casa sua alle Hawaii da Kris Kristofferson, beato lui che se ne sta lì in spiaggia lontano dall’Afghanistan, da Washington e da Manhattan.
Le varie canzoni sono suggestivamente unite una all’altra da brevi momenti strumentali interpretati da un Bill Frisell in puro stato di grazia. La confezione comprende, oltre al cd, un libretto con molte note informative, purtroppo non ci sono i testi delle canzoni (immagino per insormontabili problemi di copyright) ma penso non sia impresa impossibile scovarli sul web da qualche parte.
Il cd “Frisco Mabel Joy revisited” è edito dall’indipendente Glitterhouse (la cui base europea è in Germania, Gruner Weg 25, D-37688 Beverungen, tel. +49 5273 36360, fax +49 5273 21329, http://www.glitterhouse.com, e-mail: info@glitterhouse.com) che offre un catalogo molto ricco in quantità e qualità. Se accettate un consiglio, prendete qualsiasi cosa dei Walkabouts, oppure Rainer, 16 Horsepower, Dakota Suite. Parte del ricavato dalle vendite di questo cd andrà a sostenere lo Sweet Relief Musicians Fund, un’associazione di Los Angeles che fornisce ai suoi iscritti sostegno economico per le spese mediche.
La Mountain Retreat ha pubblicato nel 1999 il box set The Mickey Newbury Collection: questo ed altri suoi cd si possono richiedere tramite il website http://www.mickeynewbury.com.
Per concludere (quasi), ecco l’indirizzo della Mickey Newbury Society: p.o. box 121984, Nashville TN 37212, USA. Questa gestisce anche un sito web all’indirizzo http://www.congray.com (attenzione: in questo periodo non sono in grado di collegarmi ad internet, questi indirizzi ve li passo “al buio” senza averli testati personalmente).
E, se volete provare ad ascoltare come suona l’America immaginata di cui parlavo all’inizio di questa pagina, correte ad ascoltare i tre bellissimi album degli Howth Castle. Loro sono di Torino, ma il cuore, la testa e tutto quel che c’è dentro stanno di certo da qualche parte tra Seattle (...non l’ho scritto a caso) e la California.

Marco Pandin

 

“ed avevamo gli occhi troppo belli

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