Rivista Anarchica Online


Occidente & Islam

Supremazie
di Carlo Oliva

Dietro il volto del liberismo “compassionevole”.

Non mi sarebbe spiaciuto, ve lo confesso, assistere all’incontro dei primi di ottobre tra Berlusconi e gli ambasciatori islamici, quello in cui il capo del governo italiano, con la solita faccia di bronzo, ha giurato e spergiurato di non avere assolutamente detto quello che, in tema di superiorità della “civiltà occidentale” sull’Islam, tutti gli avevano sentito dire. Dev’essere stato un bel match. Quei degni diplomatici, naturalmente, hanno dovuto far finta di credere a quanto veniva loro assicurato, ma suppongo abbiano trovato il modo di far capire al loro disinvolto interlocutore che, in futuro, avrebbe fatto meglio a riflettere prima di parlare. Una pretesa in sé ragionevole, ma, nel caso, illusoria, perché il nostro presidente del consiglio ama parlare e non è sempre disposto a riflettere e il suo modello comportamentale, comunque, ricorda assai quello del bambino, che appena libero dalla sorveglianza della maestra ne approfitta per dire le parolacce, salvo poi negare, quando si giunge al redde rationem, di aver detto alcunché.
E dire che quando, una decina di giorni prima, Berlusconi, a Berlino, aveva portato la sua pietruzza nella dilagante polemica contro il “relativismo culturale”, avevo avuto, per un brevissimo istante, la tentazione di dargli, una volta tanto, ragione. Non perché confidi, come lui, in alcun primato o in alcuna supremazia dell’Occidente, naturalmente, ma perché sono davvero un po’ stanco, come immagino voi, di quella forma di relativismo istituzionale secondo la quale usi, costumi e valori altrui, proprio perché altrui, vanno, se non rispettati e ammirati, almeno sottratti a un franco e sincero giudizio. Di una tolleranza che rispetta quello in cui credono gli altri solo perché a crederci sono, appunto, degli altri, mi sembra sia il caso di diffidare un po’. Io credo, al contrario, che qualsiasi presa di posizione umana meriti di essere valutata e giudicata, in nome di quell’umanità che, al di là delle opzioni culturali, ci accomuna tutti. Non credo che si manchi di rispetto a nessuno rifiutandosi di condividere le sue credenze e mi sembra doveroso, ove quelle credenze appaiano errate e nocive, dichiararlo con quanta più chiarezza possibile.
Quella dell’Islam è una grande civiltà, che può vantare una storia gloriosa e delle notevoli realizzazioni, ma alcuni dei suoi atteggiamenti attuali mi sembrano, senza offesa, un po’ discutibili. Non mi riferisco soltanto alla vexata quaestio della posizione delle donne nella maggior parte dei paesi islamici, che pure non è problema da poco. Mi sembra, più in generale, che in molti di quei paesi si tenda a dare ai portati della tradizione più peso di quanto, francamente, non meritino e che da questo atteggiamento discenda, di giocoforza, una serie di conseguenze piuttosto gravi, quali un deficit generale di democrazia e la difficoltà nel separare, sul piano ideologico e su quello dell’organizzazione sociale, gli elementi di natura religiosa da quelli puramente civili. Il problema non riguarda soltanto l’Islam, naturalmente – dobbiamo fare i conti anche noi con i nostri Wojtyla e i nostri Formigoni – ma appunto per questo merita di essere posto. Come merita sempre di essere posto il problema dell’oppressione e della prevaricazione, ovunque si eserciti e in nome di qualsiasi pretesa ideale venga esercitato.


Più sofferenze e più lutti

Naturalmente la tentazione di dar ragione a Berlusconi mi è passata subito. È fin troppo ovvio che lui con tutto questo non c’entra. I tipi come lui concepiscono i rapporti tra le culture in termini di superiorità e di inferiorità, come a dire che loro si considerano superiori agli altri (e quindi si sentono autorizzati a disporre ad arbitrio delle risorse disponibili) e quando qualcuno manifesta un pur timido disaccordo sono sempre pronti a risolvere la questione a suon di botte. È una pretesa, questa, in cui nessuna persona seria può riconoscersi, anche perché è intrinsecamente pericolosa. Di fatto, la superiorità dell’Occidente come la intendono loro ha creato, in questo povero mondo, più sofferenze e più lutti di quante ne abbia mai provocato la supposta arretratezza delle società tradizionali.
Le culture, in fondo, non esistono. Sono delle entità teoriche, dei flatus vocis sotto i quali può essere comodo raggruppare le più varie manifestazioni ideologiche e sociali. Sappiamo tutti che non c’è un unico Islam, come non c’è un unico Occidente o un unico Cristianesimo. Le rispettive definizioni dipendono dai criteri di classificazione e giudizio che di volta in volta decidiamo di utilizzare o di non utilizzare. La pretesa di fare di quelle astrazioni un soggetto concreto di valore risale a quel filone (reazionario) del pensiero sociologico ottocentesco che utilizzava in senso anti-illuministico la contrapposizione tra “comunità” e “società”, tra Gemeinschaft e Gesellschaft. La libertà dei singoli, in quella prospettiva, tende a identificarsi con l’adesione al sistema di valori della comunità in cui sono inseriti. È la libertà, sempre cara a chi detiene comunque il potere, di aderire e obbedire, consolandosi come si può sul piano ideologico dei propri lutti e delle proprie sofferenze.
Il fatto è che lutti e sofferenze sono ripartiti – in modo, certo, ineguale – tra gli uomini tutti, quali che siano la società e la cultura in cui ciascuno si riconosce. Il problema, allora, non è quello di giudicare in astratto i sistemi ideologici e sociali: è quello di riconoscere, nella varietà dei modi e delle forme storiche, le costanti dell’oppressione e della negazione dei diritti. E senza fare eccezioni per nessuno, perché noi occidentali siamo sempre pronti a vantarci della nostra democrazia, ma possiamo farlo soltanto a patto di occultarne ai nostri stessi occhi il funzionamento reale. Non c’è società al mondo, tanto meno la nostra, in cui una minoranza di arroganti bastardi non sfrutti spietatamente una maggioranza di sottomessi. Su questa contrapposizione, più che su quella tra Oriente e Occidente, o tra Cristianesimo e Islam, mi sembra valga la pena di lavorare.

Carlo Oliva