Rivista Anarchica Online


memoria

L’ombra e la luce
di Nadia Agustoni

Anna Frank, l’Afghanistan e noi.

A portarmi fu il caso tra le nove
e le dieci d’una domenica mattina
svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra
lungo il semigelo d’un canale. E non
questa è la casa ma soltanto
– mille volte già vista –
sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.

Disse più tardi il mio compagno: quella
di Anna Frank non deve essere, non è
privilegiata memoria. Ce ne furono tanti
che crollarono per sola fame
senza il tempo di scriverlo.
Lei, è vero, lo scrisse.

Vittorio Sereni
– dall’Olanda: Amsterdam –



Sola sarai, calce sfinita e segno,
sola sarai finché duri il letargo
o s’ecciti la vita.


Andrea Zanzotto
– da: Colloquio –


Parlare di cose vere. Parlare. Raccontare senza: senza molte cose che appaiono scontate, così semplici, come è semplice smettere di esistere. Anche le cose che durano di più come il sole, ma basta un’eclissi, un attimo e tutto cambia. A Kabul in questi nostri giorni – metà novembre 2001 –, due adolescenti, Friba e Sayed, hanno scelto di tornare in prigione per sfuggire all’orrore delle mutilazioni (per lei) e alla punizione per entrambi perché senza perché si amano.
“Germe dovunque e germoglio...”, i versi di Vittorio Sereni che sembrano cadere giù dal cielo e liquefarsi sui canali – non solo Amsterdam, non solo –, tutta la polvere viene dalle stelle e le stelle quaggiù sono volti, occhi, mani, nomi di persone che resistono e ci sono – quasi che il vento portando via si dimentichi di chiamarli.
Un nome: Anna Frank. Un diario: il diario di Anna Frank, letto da tanti in tutto il mondo generazioni accomunate dallo stupore, dal domandarsi qualcosa che non si domanda perché non si può, perché le linee e i confini che conosciamo, che ognuno conosce, sono poi soltanto nostri e ogni uscire è uscire al caos, mostrarsi.
Succede che lo rileggo in questi giorni il suo Diario, in giorni in cui l’opacità sollevata dalle notizie della guerra e dalle immagini di Kabul e dei profughi sembrano vincere sulla mia capacità residua di resistere e su quel nodo allo stomaco che vuole interrogarmi, che ancora mi chiede uno sforzo.
Può essere che l’incapacità di vedere veramente sia soprattutto incapacità di sapere e quindi di distinguere tra i fatti e quello che è opinione propinata da ogni mass media. Forse per questo sembra venirmi incontro la poesia, quei suoi brandelli di umanità ferita: “Si chiamava Moammed Sceab .../ suicida perché non aveva più patria/ ...e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi/ dove si ascolta/ la cantilena del Corano/ gustando un caffè .../”; sono i versi di Ungaretti su uno dei dimenticati, un sommerso, uno delle moltitudini che passando da polvere a polvere non lascia un segno in qualche stentato cimitero. Ma ecco, torno a una fotografia, uno dei ritagli che conservo come un appunto sulla vita, una, memoria personale, quasi tascabile. Sono i bambini superstiti in un campo profughi vicino a Srebrenica messi sul tavolo da lavoro vicino al libro con delle foto di cui una ha la didascalia: “Anna e Hannali sulla Merwedeplein 1939”. In entrambe i bambini/e con occhi ostinatamente pieni di vita e qualcosa come pozze scure in fondo allo sguardo, un disincanto che buca lo spazio e ti prende in mezzo allo stomaco, alla bocca, ti prende fino a lasciarti sola e come se poi fossi sola per sempre. Sessanta e più anni di mezzo e la stessa magrezza di gambe, lo stesso stringersi contro se stessi e contro niente quasi sapendo subito che non c’è riparo.
Sto cercando il contatto, la linea invisibile in cui le anime si incontrano e si riversano come se l’attesa, la pazienza o altro fossero finalmente ricompensate.

“Ho paura delle prigioni e dei campi di concentramento.”
Anna Frank, Diario 12 marzo’44

Mancano pochi mesi all’arresto di Anna e dei suoi e le notizie che arrivano al rifugio segreto dei Frank non sono sempre rassicuranti. Il Diario è costellato di brevi ma incisive righe con cui Anna descrive le proprie emozioni riguardo quanto riesce a sapere del mondo là fuori. Sa, sanno degli arresti degli ebrei e delle deportazioni e sanno del campo di Westerbork da cui i convogli partono per i campi nell’est dell’Europa (da Westerbork partirà anche Etty Hillesum, l’altra ebrea che lascerà un diario tra i più belli mai scritti). Prima di questa nota Anna Frank ha sperimentato la lunga attesa in quella prigione sicura che è la soffitta in una casa di Amsterdam e l’incertezza delle ore, dei giorni, dei mesi, degli anni non ha mai completamente stemperato la paura, quel sentimento legato alla precarietà della propria sorte. Eppure e lo comprendiamo, come gli adolescenti di Kabul che scelgono la prigione a una residuale e iniqua vita, anche la ragazzina Anna non può non soccombere a sentimenti di volta in volta diversi: “...qualsiasi cosa è meglio che essere scoperti” e il giorno dopo “che venga una fine, anche se dura”, perché il miracolo della sua volontà, della sua interiorità, non possono non allargarsi come ali e ripiegarsi sotto il sasso che arriva inesorabile, carico di altre volontà e indifferenze, di un incomprensibile odio che non riconosce e non ricorda. Mi soccorre Hannah Arendt quando parlando della banalità del male e di Eichmann, riporta il dato della difettosa e selettiva memoria del gerarca, di quell’oblio alternato a menzogna e vanità (che per me sono la stessa cosa) con cui si è spinto nella vita, in avanti, nascondendosi dal proprio fallimento umano per finire alla mera esecuzione di quelli che per lui erano solo “ordini”. Ordini o il proprio dovere – parole che rieccheggiano nei cosidetti fedeli in terre dai nomi lontani.


Tutto cade dal dentro

Il dovere di Anna Frank è più alto. Non importa se ne fosse o no cosciente o in che strano modo il suo dovere l’ha raggiunta, ma il Diario è il documento vivo di un’epoca in cui le ferite diventano il marchio della cancellazione e le colpe diventano la colpa e la vergogna di una nazione che si stordirà per non dover fare i conti e conti più ampi di quanto si possa pensare, con la propria appartenenza non ad un’etnia, una religione (e in questo caso quella cristiana) o una razza, ma appartenenza all’umanità. La parola sicura di Anna lascia interdetti per la nuda essenzialità che trasmette. Pare un piccolo mondo che irradia e si riversa con un carico di cose piccole, anche insignificanti a volte, un po’ come la vita di tutti. Non c’è eroismo se non nella lucida accettazione di sé e di quello che rimane da affrontare. Una bambina ebrea ce lo spiega – così bene e talmente che non dimentichiamo, non dimenticheremo; anche se volessimo – non possiamo.
I desideri, la simpatia, la vita, l’antipatia, gli screzi, si alternano a lieve, consapevole, profondo e a quel battito segreto, senza rumore – se non il cigolio di scale, lo sbattere di una porta, il sobbalzare per l’allarme aereo –; quell’amore che non è in fondo amore di nessuno in particolare, ma amore per un sentire comune che fa partecipe la bambina e poi adolescente Anna Frank del sentimento di coloro che ha vicino e di coloro che vicino non sono più e che le permette di sentire e vedere e sapere gli altri con dolore o con gioia fino a partecipare di loro e cadendo in loro. Non sono tanto i brani in cui parla della madre e del padre o di chi ha vicino quelli più illuminanti in cui nomina un’amica ormai deportata con una pulizia e limpidezza di parola che meravigliano.
È partecipe. Niente cade dall’alto in lei. Tutto cade dal dentro. Cade da un’immensità che vibra la propria adolescenza, la propria giovinezza abbandonata e indifesa che a malapena si ripara in quella soffitta di Amsterdam, in quella casa persa in fondo al mondo, al capo di tutto. Tocca i pensieri e questi diventano quello che ci raggiunge. Tocca l’emozione di una vita appena appena, ma quanta vita pure in quell’appena, in quell’aver poco e essere. Dalla finestra guarda il cielo notturno e si stupisce di quanto non vedeva. Adesso sentire è per lei vedere e vede meglio e per la prima volta può leggere le persone mentre queste non possono leggere lei. Troppo segreta perché semplice nel suo dispiegarsi.
Il suo volo è attimo; è la sua intensità calma e l’intensità ha un punto in cui è chiaroveggenza.
La sua scrittura sorprende. Ci ha sorpreso da sempre perché è incredibilmente matura e efficace. Anche lei lo sa, si riconosce l’eloquenza come se si spostasse e si vedesse da un altro angolo, non lei.
La paura ha spinto le sue parole; la sua lingua ha l’urgenza della necessità e il rimpianto di una normalità che non esiste per lei, non esisterà più.
È una voce estesa la sua, è un corale senza coro. Il coro è perso nella distanza dei campi di sterminio, nell’annichilimento dell’offesa, nel bruciare dell’abbandono.
I nazisti potevano dire ai prigionieri che se anche fossero sopravvissuti nessuno avrebbe mai creduto loro riguardo a quanto gli era stato fatto. Dopo sessant’anni in molti affiora il ricordo della doppia offesa: quella dei nazisti e quella di chi assisteva compiacente.
C’è ancora chi non crede e chi si attacca alle cifre dello stermio ebraico: “tre e quattro milioni non sei... ”, come se la differenza stesse nella cifra, come se un milione in meno o in più potessero confutare o confermare chissà che cosa e come se non contassero gli altri milioni di morti zingari, omosessuali, lesbiche, russi, polacchi, dementi, malati eccetera. Cifre, numeri che servono da alibi a chi spesso crede nelle grandi astrazioni o in un Dio, in qualcosa di maiuscolo, o usa la parola amore proprio solo come una parola con dietro se stesso o se stessa e la propria arroganza, il proprio ingiustificato orgoglio – quel senso d’essere speciale e quindi giudice e quindi qualcuno. La si legge questa arroganza nei commenti maschili (quasi tutti) sulle donne afghane e la loro vita menzionata di striscio, sempre dopo, sempre con quel disprezzo leggero – da tradizione –, quel disprezzo di tradizioni in quel qualcosa che pare tagliare come un coltellino da nulla, come una lametta usa e getta con cui ferire senza sentirsi assassini, senza dire ho assassinato.


In un tempo di vergogna

Anna Frank è grande nella sua radice di piccolo albero che dà ossigeno a questa terra offesa a tanta vita che si sorprende d’essere ancora viva.
“È un grande miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto perché continuo a credere all’intima bontà dell’uomo.”
Leggendo mi sorprendo un attimo a pensare che in un tempo di vergogna com’è ancora il nostro, queste parole portano il senso del nostro insopprimibile bisogno di consolazione. C’è come un amore bianco in queste parole, una tenerezza che esce forte e ci lascia assurdamente soli e meno soli. È quasi come se ci guardassimo faccia a faccia senza il coraggio di parlare ma sorridendo.
La shoah ebraica può forse apparirmi per questo come non luogo di una solitudine biografica che inscrive il suo valore nel valore del destino umano (individuale ma anche indiviso e in fondo indivisibile); quindi un non luogo plurale – un non luogo in cui la memoria si interseca con altre memorie e con memorie altre. Un non luogo per farsi ancora esilio e l’atto dell’esiliarsi che solo retrospettivamente diviene uno spazio, un essere di umanità al plurale, umanità incontrate. L’apolide infatti è forte di quel custodire il ricordo che prima o poi riconoscerà non solo come proprio ricordo, ma come partecizione – partecipare degli altri. Il senso di questo non è solo appartenere a se stessi ma appartenere anche al mondo: ai sommersi e ai salvati.
Se è vero che i sogni si polverizzano è anche vero che i sogni sognati sono con noi per sempre, non si staccano e si fanno larghezza di sguardo, passo, silenzio, visione e ancora ogni ponte, ogni nome di strada - di città - di persona, anche il nomignolo di un gatto, ma in ogni caso sono un brillare improvviso, un confutare quella paura che pare spingere le cose contro di noi, contro di noi gli altri. Non sono daccordo con Sartre. Il problema non sono gli altri. Gli altri non esistono, gli altri sono altri solo per chi uccide e tortura, per chi tra avere e essere sceglie il possedere, la negazione di tutto ciò che è fiato - respiro - ariosità - di un qualcosa che è un po’ migliore di chi vuol solo distruggere.
Quando l’ombra è sopra di noi intuiamo la luce. Non lo diciamo; è il nostro segreto – quel patto che qualcuno ha chiamato speranza.
Non so più una cosa, ma so che c’è.

Nadia Agustoni