Rivista Anarchica Online


 

Potere e Contropotere

Si intitola Contropotere (pagg. 128, euro 9,00) il libro di Elèuthera – uscita prevista: settembre 2002 – scritto da Miguel Benasayag (filosofo e psicoanalista argentino, residente a Parigi) e Diego Sztulwark (docente di filosofia nella Universidad Nacional di Buenos Aires, è uno degli animatori del movimento argentino “El mate” in difesa dei diritti civili). Al centro, i nuovi movimenti sociali: secondo gli autori, questi movimenti, ignorando volutamente la questione del potere e della sua conquista, inventano una politica del “contropotere”, i cui effetti sulla società esistente sono più importanti di quanto si possa credere.
Eccone l’introduzione.

La rottura nei confronti degli anni ottanta, il decennio «postrivoluzionario» che aveva sancito la disfatta annunciata di ogni impresa emancipatrice, di tutti i progetti di trasformazione sociale in nome di un conformismo rassegnato, oggi è completamente esaurita. Da qualche anno, un po’ dappertutto nel mondo, assistiamo allo schiudersi, in molteplici forme, di un vasto movimento che si rifiuta di vedere nel neoliberismo un «orizzonte invalicabile». Per noi la data simbolica e costituente di questa controffensiva è il 1° gennaio 1994, il giorno in cui le forze zapatiste avevano occupato la città di San Cristobal de Las Casas, nello Stato messicano del Chiapas. Da quel momento, da quel movimento, si rinnovano un discorso e una pratica alternativi che non si accontentano più di lottare «contro gli eccessi», mettendo al centro la filosofia dei «diritti dell’uomo», né per la tolleranza, perché la tolleranza altro non è che il privilegio dei padroni.
Si tratta di un’autentica sensibilità rivoluzionaria, per la quale il neoliberismo e la società del denaro e del profitto, non soltanto non sono «invalicabili», ma devono anzi essere superati. Il nucleo centrale di questo superamento è quella che noi chiamiamo la «nuova radicalità» che fa si che esso non sia legittimato in nome di un modello precostituito ma in nome della vita stessa. La controffensiva nasce prima di tutto come rottura rispetto ai metodi tradizionali dei gruppetti politici, che tentano disperatamente di recuperare un fenomeno senza fare il minimo sforzo per capirlo o per affiancarlo.
Da noi non si tratta più di un «Touche pas à mon pote» (1) ma della lotta qui e subito per chi non ha casa, non ha lavoro, non ha documenti… È un impegno giorno per giorno per costruire alternative alla mercificazione del mondo, alternative di cui la manifestazione gioiosa di Millau, nel giugno 2000, è stata una vetrina effimera. Una miriade di associazioni e di gruppi che sbocciano qua e là e sviluppano una vera e propria rete, un «rizoma di contropotere» all’interno di una nuova soggettività sovversiva che non mette più al centro la questione del potere, senza per questo escluderla.
Una delle novità più importanti di questa nuova radicalità sta nell’abbandono della pura militanza «contro»: nelle molteplici pratiche di ogni situazione, essa sviluppa luoghi (case, officine, università popolari, occupazioni di terre...) e modi di vita che superano concretamente negli atti l’individualismo del sistema. Una casa nel quartiere che intesse nel quotidiano i legami sociali, articolando le proprie pratiche con quelle di altre esperienze non ha niente a che vedere con la lotta di individui isolati che all’elenco delle proprie attività «normali» di ogni giorno aggiungono qualche momento di solidarietà. In altre parole, si può distinguere da un lato la lotta da «agenda», quella di individui che tentano di trovare, tra le proprie occupazioni, un’occasione per essere solidali e dall’altro la nuova radicalità, che significa lo sviluppo concreto nella vita di tutti i giorni, di modi di vita e di rapporti diversi.
La nostra società sta attraversando un’autentica crisi culturale. Per riprendere le categorie proposte da Françoise Héritier, ogni cultura deve essere in grado di operare una chiara distinzione tra il «pensabile» e il «possibile», perché non tutto il possibile è per forza pensabile. Ora, il neoliberismo, cioè la società dell’individuo, pretende che in nome del profitto economico tutto ciò che è possibile sia pensabile. Ecco perché la nostra è una lotta per la difesa di certi principi, di certi fondamenti che la postmodernità a cercato di sradicare e senza i quali la vita sul nostro pianeta è sotto la minaccia della barbarie economica.
Si sente dire che se non ci si ribella più contro l’orrore economico, contro l’utilitarismo dominante che considera il mondo, gli uomini, la vita come prodotti «a perdere», la ragione consiste nel fatto che la gente avverte di avere molto da perdere. Questa affermazione è più vera di quanto si possa immaginare. È vero non solo perché c’è chi approfitta più o meno del sistema, ma soprattutto e sostanzialmente perché questa rivolta implica addirittura la perdita della nostra vita di individui serializzati. Da questo punto di vista anche il meno ricco di noi ha molto da perdere, perché si tratta di abbandonare un modo d’essere che ha forgiato la nostra esistenza, una maniera di sentire, di pensare, di amare, un rapporto con il mondo e con noi stessi strutturato dall’individualismo: questa credenza secondo cui noi, ognuno di noi sarebbe un’entità isolata da tutte le altre e che intrattiene con il mondo una relazione contrattuale. L’emancipazione è allora prima di tutto «esistenziale» e non semplicemente economica o politica. Non emerge in nome di un ipotetico «dover essere» ma, come oggi dimostrano migliaia di pratiche sparse per il mondo, in nome di un autentica gioia che sia capace di battere la nostra società della tristezza.
Questo libro è parte di questo impegno comune, che non è di fatica ma di creazione, di gioia condivisa, di vita che vince la logica di sopravvivenza cui il sistema vuole asservirci. Cerchiamo di avanzare nel lavoro teorico, nella comprensione di ciò che «potrebbe» o «dovrebbe» essere, pur sapendo che, come ha scritto Marx, è l’esistenza che determina la coscienza, provando ad aprire e a elaborare quale percorso a partire dai movimenti esistenti.
Nelle pagine che seguono, quindi, il lettore troverà l’illustrazione di un insieme di ipotesi o di chiavi di lettura di quello che chiamiamo pensiero radicale (o politica radicale). Parliamo di chiavi nel senso che aprono un diaframma, che rendono possibile il dispiegarsi di un’opera, di uno spazio nuovo.

Miguel Benasayag
Diego Sztulwark

Note:
1. È il nome di un’organizzazione francese di solidarietà con gli immigrati. Letteralmente: «Giù le mani dal mio amico» [N.d.T.]

Mussolini e le Baleari

Il 18 novembre 1936 Mussolini, durante una seduta del Gran Consiglio del Fascismo proclamò che “Le Baleari sono in nostro possesso”. Il giorno prima il Duce aveva riconosciuto come legittimo il governo del generale Francisco Franco, mentre, sempre nello stesso giorno, gli antifascisti italiani riuscivano a far evacuare ed in seguito occupare il Consolato Italiano di Barcellona, istituzione diplomatica del Governo Fascista.

Il console aveva già provveduto a far evacuare parte dell’archivio in Italia, ma molti documenti, forse ritenuti meno compromettenti, vennero lasciati nella sede consolare.
Camillo Berneri è uno degli intellettuali anarchici antifascisti che prende parte all’occupazione del consolato e con un “grande intuito investigativo” e profonde doti di intellettuale meticoloso e scrupoloso non si lascia sfuggire l’importanza di quelle carte, documenti riservati e lettere, materiale che assume in quel momento un ruolo nuovo, di denuncia internazionale. Quello che scopre Berneri è in realtà solo la conferma della frase che Mussolini avrebbe pronunciato il giorno dopo l’evacuazione del consolato, ossia, il suo millantato possesso dell’arcipelago spagnolo.
L’espansione nel Mediterraneo occidentale era in realtà un progetto che durava da molti anni; nella politica di conquista e di colonialismo di Mussolini le Baleari erano considerate uno strategico obiettivo nel suo disegno di impero, che in una ipotetica spartizione fra le potenze, sarebbero dovute toccare a lui, mentre alla Germania sarebbe invece andato il Marocco.
Berneri sente l’urgenza e l’importanza della denuncia a livello internazionale di questa invasione programmata negli anni e trova con molto lavoro e molti sforzi, tenuto conto anche del contesto di guerra e rivoluzione in cui sta vivendo nella Barcellona del 1936 e 1937, molte prove documentate che attestano l’intenzione di Mussolini di fare delle Baleari un protettorato in Spagna, trampolino di lancio per la vicina Barcellona.
Mussolini alla conquista delle Baleari (Galzerano Editore/Atti e memorie del popolo, Casalvelino Scalo (Sa) 2002, pag. 172, euro 10,00), più che un libro può essere definito un dossier, in quanto l’autore si limita a scrivere una breve introduzione, e poi lascia che siano i documenti a parlare: corrispondenze diplomatiche, lettere, articoli di riviste e di giornali, resoconti, da cui risultano con straordinaria evidenza i progetti di conquista del Governo Fascista. Lo stesso Berneri dice: “Qui s’illustra soltanto come Mussolini mirasse alle Baleari come ad una testa di ponte della conquista del Mediterraneo. Qui, a parlare, è il documento, soltanto il documento”, e più avanti, sempre nella sua prefazione: “Non scriviamo con l’illusione di commuovere l’opinione pubblica, bensì con il proposito d’illuminarla”.
Già dal 1926 infatti, le Baleari avevano attirato l’attenzione per la loro importanza geografica e logistica nel mar Mediterraneo. Quello che in un primo tempo venne sfruttato fu l’incantevole paesaggio naturalistico, che diventò quindi la scusa per numerose crociere di avanscoperta e per dare inizio ad un piano preciso di conquista lenta e capillare. In pochi anni nelle isole si assistette ad una processione ininterrotta di navi, flotte, sottomarini, corazzate, incrociatori, sommergibili e crociere aeree che portavano in mostra giovani Camicie Nere, turisti che, immancabilmente, per la gioia del duce ossessionato dal prestigio, sfilavano implotonati.
Il dossier non ha fini propagandistici, ma solo di documentazione, Berneri vuole che il mondo sappia gli orrori del fascismo, vuole che “la vecchia e sorda Europa” apra finalmente gli occhi di fronte alla disperata situazione del continente.
Camillo Berneri diede molta importanza a questo libro e sentiva la fretta e l’urgenza del dover terminarlo il più presto possibile, per poter dedicare le sue attenzioni a quanto stava accadendo attorno a lui. Purtroppo non ci riuscì, perché il suo corpo venne trovato, insieme a quello dell’antifascista anarchico Francesco Barbieri, crivellato di colpi di pistola, ucciso barbaramente nella notte tra il 5 ed il 6 maggio dalla polizia politica comunista.
Dopo 65 anni finalmente il libro è stato pubblicato in Italia in seguito ad un tormentato iter editoriale. Nei giorni successivi la morte dell’intellettuale anarchico il testo venne pubblicato, alla Oficina de Propaganda, Sección Italiana CNT-FAI con un prologo di Diego Abad de Santillán, presente anche in questa edizione, arricchita da fotografie concesse dall’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa della Biblioteca comunale Panizzi di Reggio Emilia. La prima edizione è però praticamente scomparsa e quindi il lavoro di Berneri è rimasto sconosciuto in Italia, dove solo pochissime persone hanno potuto leggere il suo ultimo lavoro. In lingua spagnola ebbe invece una diffusione maggiore, a partire dalla prima pubblicazione a Barcellona con il titolo Mussolini a la conquista de las Baleares, per arrivare fino in Argentina dove il libro venne pubblicato l’anno successivo.
La prefazione di Claudio Venza contestualizza la figura del grande studioso anarchico e inquadra storicamente l’importanza dell’ultimo documento che ha lasciato, mentre la postfazione curata dall’editore Galzerano analizza scrupolosamente le recensioni apparse dopo la prima edizione del libro tra cui è possibile trovare quella appassionata e commossa di una giovanissima Luce Fabbri, che scrive a Montevideo per la rivista Studi Sociali.
Quest’opera è fondamentale per comprendere l’impegno, l’entusiasmo, la dedizione assoluta che questo grande anarchico militante ed intellettuale ha dedicato fino all’ultimo momento della sua vita all’analisi, all’approfondimento ed alla denuncia del fascismo, sia nel contesto italiano che internazionale.

Arianna Fiore

La voce dell’anima, parola d’amore

un detto, d’alcun dolce asperso
ben mille volte ripetuto e mille
nel costante pensier,
sostegno e cibo
esser solea dell’infelice amante:
benché nulla d’amore parola udita
avess’ella da lui
(Giacomo Leopardi, Consalvo)

Si lamentano cinque tori, uccisi per realizzare la scena della corrida su cui Pedro Almodovar, nel suo ultimo film Parla con lei, ha imposto il prezzo materiale e insolvibile del marchio necatorio, dal quale l’economia dell’ esistenza simbolico-vitale non prescinde.
Mi è difficile – ahimè! – se non addirittura impossibile perdonare il sacrificio del vivente: fare sacro ciò che lo è – in vita – già di per sé.
Una difficoltà la mia, avvertita come – Clarice Lispector – dice costrizione in vita, cui riesco a non sottrarmi, giacché, come ancora lei considera, la vita di qualsiasi essere vivente vale mille e più mille volte la produzione di qualsiasi oggetto, libro, film, quadro, farmaco o monumento esso sia. L’arte, alla scuola oziosa della scrittrice brasiliana, non coincide con l’opera d’arte e la fiction scenica, che sostituisce la verità dell’esistente, inappaga l’arte del vivere in fedeltà al sentire.
Come chiamare questa cosa che si sottrae? come richiamarla a sé e non perderla?
Alla sua casa di produzione cinematografica Almodovar ha dato nome ‘el deseo’, si apprende dalle intestazioni ai suoi film. La forza di un nome (appropriato?) rivela il potere di appropriazione – e quindi anche di espropriazione – di un dire impersonale: ossia la trama intessuta da crune simboliche dove il discorso persuasivo si perde in un sentire visionario.
Poteva essere evitato il sacrificio dei cinque tori? In tutta evidenza, no. Cinque le dita della mano umana, cinque i sensi nominabili, il sesto senso del giudizio incede sul luogo del ‘desiderio’. Nel mistero che agita il mondo, il geniale irrora una vena struggente.
Parla con lei tocca, con la leggerezza di una mano invisibile anche quando gli oggetti del suo tastare imprimono tutta la loro cruenta concretezza, la realtà sbilenca di vita, amore e morte.
D’altra parte, la parola divina guarisce nella modalità di un miracolo continuo e non nell’ attesa di esso. Né messianico né escatologico, il senso del tempo è fissato, con incursioni a macchia, da un racconto svolto al presente assoluto. L’ora evoca il passato con la rammemorazione illineare, secondo un movimento di significazione a ritroso e a salti illuminanti; per cui capita soltanto ciò che si sente di capire e si capisce soltanto ciò che ci capita di sentire.
Questa simmetria realizza, a condizione però di un’ estetica non dogmatica, l’impalpabile spirito delle relazioni intrecciate, per pura gratuità, dai personaggi del film.
La storia si dispiega allora tra la più lieve delle strutture possibili e su tale leggerezza si articolano le sequenze di un discorso tra amore e morte. La prima delle quali vede – film dentro il film – una sala cinematografica dove un uomo distoglie lo sguardo dalla scena virtuale e lo dirige su un altro uomo che, seduto accanto a lui, piange per essa.
Scena muta è quella che commuove, da una parte come dall’altra.
La scena proiettata da due sonnamboliche danzatrici, in una stanza ingombrata da sedie, vede un accorto scenografo, affannarsi – servizievole – a toglierle affinché la regia della danza si svolga liberamente. Nulla potendo però all’ infrangersi del trasognato movimento sul limite fisico delle insormontabili pareti.
La scena rifratta rifrange, a sua volta, un pubblico inscenato sullo scarto tra simbolico e reale. Essa restituisce all’immaginario la verità del visibile: si vede ciò da cui si è guardati. Lo spettacolo dentro lo spettacolo coinvolge il pubblico spettatore esterno, senza ingabbiarlo con l’invadente monotonia di un riflesso narcisistico. L’interpretante è anche l’interpretato da ciò che interpreta e l’interpretazione finisce in una comica farsa.
L’allegoria del cinema – sembra dire Almodovar – è la non metafora della vita.
Parla con lei dice altro. A cominciare dal titolo che non è un’etichetta a sintesi conclusiva di una dimostrazione, bensì un pezzo di intercalato frastico, espresso da Benigno, quale benevolo invito a dar voce all’amore indicibile e fisicamente interdetto.
Benigno d’altronde è colpito da Alicia prima ancora di esserne l’infermiere, amante amorevole, durante il suo coma profondo.
Marco, il ‘duro’ che piange, vive un’analoga per quanto differente situazione con la donna torera, anche lei caduta in coma, a seguito e per la sfida fallica con la forza mortale della corrida. Ma Marco è incapace a toccare con mano e con parole il corpo dell’amata. Lo sorveglia ma non lo anima, giacché le cure materiali al corpo lo mantengono in vita, ma le parole d’amore, che a lui mancano, lo resuscitano. Così si spiega la misura vivente di un corpo fisico che immediatamente è corpo spirituale.
La trama della relazione materna e l’ordine di quella paterna si intrecciano senza omologarsi. In una matassa di storia dove l’uno e l’altra fanno della loro mancanza l’eccedenza che muove il desiderio, il mistero della vita e della morte appare piuttosto la narrazione della magia.
Sorto da una visione evocata da un cinema muto, tanto simile al sogno di un uomo piccolo piccolo abbandonato si all’ enormità di una vagina di cartapesta, il desiderio di Benigno fa del mostro allegorico l’ironia scherzosa della verità: un atto di verità sessuale che si compie inevidente, e che in tutta evidenza nasconde il suo fragile potere violatore, stùpido e stupìto.
Vicino alla relazione materna più di quanto lo psichiatra, padre di Alicia, sia disposto a considerare normale, ancora Benigno fa del suo meno l’eccellenza del suo essere: distratto dispensi ere di un crimine vivificante laddove l’obbedienza, necessaria alla costrizione d’amore, lo libera –senza colpa e senza peccato – in un incanto ebete e stupefacente.
La scena del ‘presunto’ stupro – Alicia in coma – è invisibile; mentre quella del toro agonizzante – iterata per ben cinque volte nelle prove sceniche al prezzo di cinque vere morti di tori vivi – è presente in tutta la sua indelebile cruenza.
Stupro necrofilo per i sospetti del normalizzatore giudizio penale, giudizio sospeso per la mancanza di prove a carico sconfessano il peccato di un atto d’amore con gesti di cura amorevole.
Certo, amore sesso e morte trovano misura soltanto nel cuore puro. Ma quando, mio Dio, il cuore può dirsi puro? Mi sovviene allora, con la domanda che Clarice Lispector annota perplessa nel suo diario di scrittrice, anche la sua risposta: A volte nell’amore illecito è contenuto tutto l’amore di anima e corpo.*
Dunque, Parla con lei assolve non tanto e soltanto un imperativo in forma di consiglio; né è un abito consolatorio per chi non trova risposta nel cuore dell’ altra.
«Parla con lei» suona un’esclamazione piuttosto, in virtù di un soggetto inespresso o sottinteso privo, in entrambi i casi, di una ‘forte’ identità soggettiva. Il mostruoso infatti turba le rassicuranti certezze dell’opinione dominante e risveglia al contempo l’incanto di vedere: lui che parla con lei. Senza cancellarla.
La parola vivifica e la lettera uccide, si legge nel Vangelo. Nella penultima scena Benigno si lascia andare con uno scritto. La sua lettera commuove Marco fino al pianto disperato in quel corpo rude che è.
Rende infine continuo il gioco del desiderio rilanciato con il sottotitolo Alicia e Marco.
Su cui si arresta l’immagine.

Monica Giorgi

Note:
*Clarice Lispector, La scoperta del mondo, La tartaruga, Milano 2001. La citazione è presa alla data 5 aprile 1969, pag. 176.

 

Il vento dalla Liguria

Ecco un nuovo racconto appena pubblicato dal giovane scrittore ligure Marco Sommariva: si tratta di Fischia il vento (Caroggio Editore, Genova 2002, prezzo 8,00 euro).
Con questa nuova uscita Marco non solo conferma tutte le promesse fatte con i suoi lavori precedenti (comunque puntualmente mantenute), ma dimostra che le belle cose che si sono dette in giro e scritte a suo proposito non erano esagerazioni di giornalisti recensori irretiti da un qualche ufficio stampa intenzionato a “spingerlo” nel mondo dell’editoria. Erano complimenti del tutto meritati: il ragazzo, insomma, gioca bene e ha talento.
Il suo primo lavoro Il cristallo di quarzo (pubblicato nell’ottobre 1999 dalle edizioni Sicilia Punto L, ed allora segnalato su queste pagine da Marco Casamonti), era un misto curioso di noir e spy story costruito attorno ad una soluzione immaginaria ed al tempo stesso assai verosimile dei fatti di Ustica del giugno 1980, a tutt’oggi non ancora risolti ufficialmente dai nostri organi governativi.
Lo stile in questo scritto d’esordio è veloce, il ritmo della scrittura paragonabile al respiro urgente del rock.
Il cristallo di quarzo è un racconto gonfio di suoni (CSI, telefonate, treni, televisori, autobus, Pink Floyd, altoparlanti, Radiohead, clacson, etc.), non una colonna sonora tradizionale, badate: sembra proprio che sia il racconto a fare rumore.
Trovo che Marco, sin dall’inizio, abbia mostrato una certa abilità nel caratterizzare i personaggi dei suoi racconti con tratti essenziali e precisi: le parole sono studiate una ad una nel colore e nel peso, l’autore ci dà per indicazione pochi elementi e lascia fare il grosso del lavoro alla fantasia di chi legge. Non è avarizia, questa, ma un grande regalo che ci viene fatto.
Bene, questo primo passo editoriale sembra gli abbia portato fortuna: lo scorso anno l’abbiamo ritrovato vincitore del web-concorso “La staffetta degli scrittori” promosso dalla libreria online bol.com, poi s’è letta la sua storia d’amore e d’anarchia Ho ucciso Capossela (Edizioni Cr.Es.Pi., Genova 2001, prezzo 1,55 euro).
Marco in questo lavoro sperimenta, si spinge un po’ più avanti senza accontentarsi delle etichettature semplici (“…assomiglia quasi a Pino Cacucci”, s’è spesso letto e detto). È questa una storia assai strana, anzi una non-storia, tutta fatta di frasi corte appiccicate tra loro e tenute assieme come per un miracolo cinematografico (oppure per bravura, dipende dai punti di vista). Parole tenute assieme con una colla fatta d’immaginazione che stridono e fanno scintille, cibo buono per l’immaginazione.
Un po’ sullo stile di Ho ucciso Capossela è Non ci lasceremo mai, il cut-up che Marco ha scritto per la raccolta Mille papaveri rossi, un cd di prossima pubblicazione che raccoglie alcune canzoni di Fabrizio De André interpretate da musicisti estranei e/o marginali rispetto alla scena musicale discografica. Beh, insomma: io l’ho letto. Voi per favore abbiate ancora un po’ di pazienza…
Veniamo finalmente al nuovo libro. In Fischia il vento Marco s’è messo a fare tutt’altra cosa rispetto al passato. Il genere stavolta è storico contemporaneo: queste pagine raccontano di un gruppo di partigiani impegnati in un’azione di guerriglia nella zona dell’entroterra genovese, e della rappresaglia terribile che ne seguì. Disgraziatamente, questa è una storia vera. Anzi, sono tanti pezzi di storie tutte vere, anche quelle inventate. “Cicatrici della memoria”, così le chiama Marco, che ha iniziato a lavorare a questo progetto raccogliendo i racconti dei suoi genitori: “storie di miseria, lotta, fame, rabbia, impotenza”, così le chiama.
In questo libro c’è anche un poco delle storie che i miei genitori raccontavano a me quand’ero piccolo: non riuscivo a capire che cosa poteva significare vivere “in tempo de guera”, ma dagli occhi grandi di mia madre che si velavano improvvisamente e dal nervosismo delle parole spezzate di mio nonno capivo che era una cosa brutta che c’era stata e che bisognava impedirne il ritorno.
Anche questo libro, al pari delle altre cose scritte da Marco, ha un suono proprio: un rumore assordante.
Fischia il vento è, senza mezzi termini, un pugno forte sullo stomaco. Gronda (letteralmente) sangue, passione, morte, rabbia, violenza. Eppure, conficcate in mezzo alle parole, troviamo schegge di speranza che nonostante una distanza lunga sessant’anni che ci separa dalla Resistenza sono così taglienti da far male. Taglienti e assordanti, più del silenzio pesante con cui si vuol seppellire la storia recente del nostro paese. Ordigni del cuore che scoppiano a distanza di una vita, di molte vite anzi, liberando oggi intatto e terribile il fragore osceno delle granate e degli spari che rimbombava nella testa di chi allora, a neanche vent’anni, non s’era rassegnato e aveva trovato il coraggio oppure la disperazione di scappare di casa e fuggire in montagna.
La storia non è inchiodata al 1945 ma ha una coda lunga fino ad oggi: ancora, un misto di passione e speranza …che non vi racconterò.

Marco Pandin