Ritratto in piedi
Mi piace concludere questo primo ciclo
della rubrica Ritratti in piedi, parlando, finalmente,
del libro e del personaggio che ne hanno ispirato il titolo
(Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori,
1971). E poter rendere, così, non solo il dovuto omaggio
allautrice, alla figlia del Manzini, e alla
sua capacità di tracciare, sulla base dei ricordi emersi
da una sofferta rimozione, una sorta di biografia collettiva
di tutto un movimento, ma anche, e soprattutto, a Giuseppe Manzini
ed alla sua vita esemplare, esemplare non solo per la limpidezza
del percorso e delle vicende, ma anche perché in essa
si ritrovano i caratteri essenziali degli altri ritratti
che ho sottoposto allattenzione dei lettori di A-rivista
anarchica. Sono convinto, infatti, che nella figura di Manzini
siano concentrati i tratti caratteristici delle biografie di
tantissimi anarchici, vissuti non importa dove e non importa
quando: e mi riferisco alla loro modestia, al lasciare di sè
il ricordo delle idee oltre a quello delle azioni, alleroismo
quotidiano, incompreso o sottovalutato, eppure così importante
per il civile progredire della società, al rifiuto di
imporre, e subire, il principio dautorità.
Ma non è solo la figura pubblica del militante anarchico
quella che descrive Gianna Manzini, è anche, e con uguale
intensità, la figura privata, del padre così vicino
e così lontano, delluomo ammirato per la coerenza
ma anche incompreso per le impossibili scelte di vita, di colui
che dapprima fu fonte di orgoglio per la bambina rispettata
come unadulta e poi una imbarazzante presenza per la giovinetta
che si affaccia alla vita. Purtuttavia questo passato, tanto
difficile da accettare, è alfine riemerso, evocato dallamore
di una figlia che ne ha riscoperto, felicemente, la nascosta
grandezza, la originale unicità, la delicatezza affettuosa
fatta di piccole complicità e di grande rispetto.
Nato e vissuto a Pistoia, fra il 1865 e il 1925, giovanissimo
aderente, pur se di estrazione borghese, allInternazionale
dei Lavoratori, amico di Malatesta, dei coniugi Pezzi, di Gori
e dei più cari compagni toscani, Manzini partecipò
con ardore e impegno costante alla vita del movimento anarchico.
Disposto anchegli, come i tanti cavalieri dellideale
che affollavano allora le sezioni dellInternazionale,
a sacrificare ogni interesse personale sul terreno dei principi,
ebbe ripetute occasioni per pagare di persona, negli affetti
e nelle sostanze, la coerenza coi suoi ideali di emancipazione
e di libertà. Osteggiato dalla famiglia della moglie
e dal cognato industriale, calunniato, costretto a vedere, solo
in modo saltuario e rubato alla sorveglianza della bambinaia,
lamatissima figlia, il suo fermo carattere non solo gli
impedì di piegarsi ai soprusi del potere e alle ristrettezze
della sua modesta attività di orologiaio, ma gli fece
trovare, nella fratellanza coi compagni e con le idee che li
animavano, intensi momenti di gioiosa passione. Le amarezze
della vita dovevano ben cedere il passo allentusiasmo
dellideale. E anche i suoi ultimi anni, trascorsi al confino
nel piccolo paese di Cutigliano, lo vedono sempre, nonostante
le avversità e le persecuzioni fasciste che lo porteranno
alla morte, diritto nel portamento e nella condotta di vita.
Quando Gianna Manzini ricorda i momenti che animavano il padre
allorché ritrovava nella presenza dei compagni il senso
profondo del proprio impegno, nascono, a mio parere, le pagine
più belle del racconto. Famosa rimane la descrizione
(qui proposta) della visita clandestina che il latitante Errico
Malatesta compie al negozio di Giuseppe, la gioia emozionata,
la felicità di ritrovare accanto a sé lamico
più caro e il compagno più vicino ai suoi forti
ideali dellanarchismo sociale. Parlare di Malatesta e
della sua indefessa opera di propaganda richiederebbe ben più
delle pagine della rivista, per cui mi limito a citare un brano
di Adriana Dadà (Adriana Dadà, Lanarchismo
in Italia: fra movimento e partito, Milano, Teti, 1984)
nel quale viene efficacemente sintetizzata la figura del grande
anarchico campano. Meno famosa, ma non meno bella, è
la descrizione, sospesa tra il ricordo e limmaginazione,
del passaggio degli anarchici, fieri e invincibili,
per le vie di Pistoia : Passavano. Quanti? Pochi. Trenta,
quaranta. Ma lardimento li moltiplicava; e moltiplicava
lo sventolio delle bandiere. E nel loro canto una
malinconia gagliarda. La gagliardia che nasceva dalla consapevolezza
delle proprie ragioni, la malinconia che dava lo struggimento
per le quotidiane ingiustizie di cui erano testimoni.
Tutta lopera della Manzini risuona del canto degli anarchici,
del canto vissuto come lafflato condiviso in cui si esprime
la prefigurazione di una società di liberi ed uguali.
Lautrice ricorda un 1° maggio passato col padre, una
meravigliosa giornata di festa non solo a coronamento di una
stagione di lotte, ma anche momento fondamentale per ritrovarsi,
e riconoscersi, come fratelli e compagni. E le strofe di Addio
Lugano bella si prestano a commentare lenergia che
unisce le avanguardie dellemancipazione sociale, in un
giorno, finalmente, di festa. Partendo, naturalmente, da unaltra
angolazione, ma facendo considerazioni pienamente coincidenti,
Maurizio Antonioli (Maurizio Antonioli, Vieni o Maggio,
Milano, Angeli, 1988) illustra limportanza che la giornata
del 1° maggio aveva come occasione di socializzazione e
di incontro collettivo.
È raro che un racconto costruito solo sulla memoria riesca
a penetrare così efficacemente lo spirito di una generazione,
tanto più quando a ricordare è chi, da quella
generazione di cavalieri dellideale se ne
distaccò volontariamente. Eppure da queste pagine emerge
non solo la straordinaria figura dellanarchico e internazionalista
Giuseppe Manzini ma il comune sentire di tutta una schiera di
militanti, ripetutamente colpita dalla più dura repressione,
ripetutamente sconfitta dalla crudeltà dellesistenza,
eppure, nonostante tutto, né china né curva sotto
il fardello del potere e dellautorità.
Massimo Ortalli
Nella sommaria bibliografia sul ruolo dellanarchismo
nella rivoluzione messicana, apparsa nella rubrica Ritratti
in piedi del numero precedente della rivista, ho purtroppo
dimenticato di citare il recente e interessantissimo saggio
di Salvador Hernandez Padilla apparso sul n. 2 del 1998 della
Rivista Storica dellAnarchismo (Salvador Hernandez
Padilla, Ricardo Flores Magon: una vita in rivolta).
Provvedo ora, scusandomene con i lettori.
Una linea
decisa
di Gianna Manzini
E in questo tran-tran, in questa noia organizzata, lo scossone
degli anarchici. Passavano, cantando.
Passavano. Quanti? Pochi. Trenta, quaranta. Ma lardimento
li moltiplicava; e moltiplicava lo sventolino delle bandiere.
La decisione del passo poi sbalordiva. E nel loro canto una
melanconia gagliarda. Sissignori. Malinconia gagliarda; impeto
e struggimento insieme. Scaturiva da una bruma antica; e avvampava.
(Il notaio Bellizoni stava facendosi la barba. Si riscosse,
e, buttato il rasoio nel lavabo, con mezza faccia insaponata
e lasciugamano intorno al collo si precipitò in
salotto, a strappare le donne dalle finestre. A starli
a guardare gli diamo importanza, non lo capite? Che cè
da vedere in quattro scalmanati? Via! e chiudeva i vetri.
Per scancellarli, basta non guardarli.
Ma quel canto triste e veemente saliva fino a lui. Fermo, a
occhi sbarrati e con i ginocchi rigidi, aspettava, senzammetterlo,
una nota falsa, uno strappo: no; sentiva soltanto come un respiro,
pieno, concorde. Sapeva bene che si trattava di gente per lo
più povera, di petti per lo più gracili; eppure,
insieme, che compattezza, che sicurezza, che onda come di mare.
Non avete proprio nulla da fare, voi donne?
In verità chi non si muoveva era lui, il notaio. A un
metro dalla finestra, rimaneva in ascolto di quel canto che
allontanandosi si affievoliva, senza pur disperdersi, anzi diventando
più penetrante; e gli filtrava dentro una tristezza mortale;
un risucchio che lo portava fuori dalla sua povera vita, puntellata
da problemi di guadagno, spalleggiata da conti in banca. Un
lampo di veridica follia lo aveva attraversato. Abominevole
tristezza.
Colpa di quegli ossessi se lacqua nel lavandino si fosse
raffreddata! Loffendeva sentirli planare al di sopra di
tutto con la bellezza trascinante del loro sragionare.
Che non si debba essere lasciati in pace!
E del pari al notaio Bellinzoni, innumerevoli altri.
Mentre venivano giù da piazza Mazzini, occupando tutta
la strada, a passo scandito, chi poteva non accorgersi che una
ribadita intransigenza li spingeva ad amare vertiginosamente,
magari distruggendo?
Pochi? Che conta? Appartengono alla storia; hanno questa fatale
importanza. A dispetto di quelli che osano trovare il nostro
mondo senza ragione, trottola che gira su se stessa, loro, gli
anarchici, tracciano una linea decisa. Anni, secoli avanzano;
e, nel presente, è già lincandescente domani
che palpita.
Passavano, irradiando paura ed ebbrezza. Poi, lordine
che succedeva sembrava rimarginare frettolosamente una ferita
che non aveva sanguinato.
Un curioso tipo,
agilissimo
di Gianna Manzini
Quandecco, entra un uomo piuttosto piccolo, togliendosi
il cappello. Ha i capelli, la barba e i baffi rossi.
Quasi grida:
«Beppino!»
E mio padre, raggiante:
«Errico! Subito, di qua, vieni».
Lo portò dietro una tenda che divideva la bottega: un
vano dove teneva lattaccapanni, un tavolino, con pochi
libri, insieme ad un candeliere e due sedie. Tenendomi per mano,
mi trascinò con loro due. Accese la candela.
Di colpo, con gesto fulmineo, quelluomo si tolse parrucca,
barba e baffi. Ero trasecolata.
Invece della figura piccola, ma imponente, dun momento
fa, avevo davanti un curioso tipo, agilissimo, dal viso smunto,
con gli occhi brillanti e fanciulleschi.
Finalmente le favole avevano libero corso nella vita, anzi lautenticavano.
Un riccio spinoso si apre; e la castagna dentro è dolce,
bianca. Emanava da lui una sorta di eccezionale prestigio: una
dignità, uninvestitura che gli veniva da lontano;
e che egli sembrava volere ignorare. Un raggio, simile a un
secondo sguardo, raggiungendoci, invitandoci, riportava subito
lo scambio umano alla più semplice e infallibile comunicazione.
Era una presa di possesso superbamente autonoma che tuttavia
autorizzava unaffettuosa parità e uninfinita
confidenza.
E così limportanza di questo avvenimento che era
la sua presenza in quella bottega, questa eccezionalità,
che poteva essere unapoteosi o una catastrofe, prendeva
laria appena di unimpertinenza, di una scappata,
duna affabile, sorridente circostanza. Infatti, subito
si buttò su una sedia; parrucca, barba e baffi a
suoi piedi; e mi fece balzare sulle sue ginocchia.
«Giannina, è Malatesta, è Malatesta»
E lamico, tenendomi le mani e facendomi saltare:
«Cavallino giò, giò, giò / prendi
la biada che ti do».
E poi:
«Di che colore hai gli occhi, Giannina?»
«Neri.»
«Invece, no; sono marrone. Vedi che non hanno saputo neppure
vedere di che colore hai gli occhi? Neri, è più
sbrigativo, ma non è vero. Sono marrone un pochino punteggiati
diciamo doro.»
Ridevo, beata. Tutto sembrava scompigliato, sovvertito; ma si
trattava di un sovvertimento ritmato, modellato., orientato,
trasferito in musica. Una musica fatta con lautentico
brusìo della vita.
Il ginocchio sbucciato «Lo sapevi di non dover saltare
il muretto. Guai a te; guai a te...») diventava un merito;
e di non aver voluto dire la poesia, sebbene la sapessi, perché
non mi piaceva, potevo vantarmi; e quando mi misero in castigo
con la faccia al muro, il torto era di chi mi ci aveva, messo,
perché non si fa così con una bambina, anche se
sbaglia.
Proprio tutto si scopriva vero ed acceso, di una difficoltà-facile,
duna novità brillante, dun azzardo impunibile
che inebriava. Era bastato un momento per trovarci tanto avanti
a noi stessi. Si capisce che dovesse essere bello stargli accanto,
anche per poco. Altro che un blasone, la sua amicizia; altro
che una ricompensa.
«Ma hai tempo, Errico, hai tempo?»
«Il tempo per far festa alla tua figliola devo averlo.
E poi, lo sai, io corro al momento giusto, e mi soffermo al
momento giusto. Quasi sempre ho saputo lanno il mese e
lora di ciò che sarebbe accaduto.»
Quando voglio ricordarmi mio padre felice, ripenso a quel momento.
Ogni tratto del viso sottoscriveva le parole dellamico,
raggiando. E forse Malatesta era un uomo che lo si ascoltava
anche se non parlava.
Addio
Lugano bella
di Gianna Manzini
Dalla tavolata si levò un canto «Addio
Lugano bella/o dolce terra mia...». Oh, se lo conoscevo.
Anche la mamma, facendo scorrere sotto la macchina da cucire
la striscia bianca di cambrì, accennava spesso «Addio
Lugano bella»; ma non pareva lo stesso motivo. «Addio...»:
si struggeva. Che avrà mai visto, su quella striscia
bianca, tempestata furiosamente dallago a macchina, che
correva a dirotto per conto suo, mentre lei, frattanto, più
sommessa, strascicava quelladdio, piegando la testa con
mollezza? Nemmeno lombra, in lei, di questimpeto:
«Cacciàti senza colpa / gli anarchici van via».
Gli anarchici. Cercai la ragazzina impaurita. Ma ora aveva gli
occhi sfavillanti e pareva più alta, tenendo le mani
intrecciate dietro la schiena. Gli anarchici. Anche a dirlo
fa effetto.
Ascoltava. Capiva più di me.
(«E partono cantando / con la speranza in cuore.»
Teresa, perché non sorridi? Con la speranza in cuore
hanno detto. Sembra un racconto, un racconto lungo. «Eppur
la nostra idea / è solo idea d amor.»
Bello, vero? Ti rendi conto, Teresa? Amore.»)
Il cane sera tirato su, come se tenesse il respiro. Non
vecchio: saggio. Nella sua calma traspariva la vittoria del
vinto. Per quanto potesse parergli insolito lo spettacolo di
uomini che, a tavola, invece di mangiare, stavano in piedi e
cantavano, non si agitava, non smaniava. Era soltanto attento,
dunattenzione senza impazienza; calmamente esente
da ogni speranza.
Alla ripresa: «Anonimi compagni / amici che restate»
(ma non fa un po piangere?) lui, lassù, il testimone
che sovrastava, si trovò con la testa un poco di lato.
Si vide così, nello spazio libero, qualcosa di giallo,
pannocchie di granoturco, forse, e di bianco, trecce daglio,
senza dubbio. Il cane incatenato al par dei
malfattori faceva quadro.
Tratto da: Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano,
Mondadori, 1971.
Vieni
o Maggio
di Maurizio Antonioli
Le cronache del Primo Maggio di quegli anni (fine Ottocento-inizi
Novecento) dimostrano che, se da un lato limmagine della
giornata di lotta, di sciopero, di protesta, di intesa rivoluzionaria
era per gli anarchici ma anche per i sindacalisti e i
socialisti rivoluzionari quanto mai nitida e continuamente
rafforzata, sul piano politico, da una viva carica polemica
nei confronti della «festa» rituale, dallaltro
gli stessi erano spesso legati, nel linguaggio e nei comportamenti,
a codici tipicamente festivi. Nei brevi resoconti che i corrispondenti,
per lo più anonimi, inviavano, soprattutto dalle città
di provincia e dai paesi, ai periodici libertari di diffusione
nazionale ricorrevano espressioni «tipo» che denotavano
indubbiamente povertà e conformismo lessicale, ma erano
il sintomo di una adesione spontanea a determinati modelli.
Il Primo Maggio, laddove cera mobilitazione, fervore,
animazione, veniva «solennemente» o «degnamente»
o «splendidamente festeggiato» (talvolta «solennizzato»)
a Cagliari come a Siena, a Senigallia come a Scapezzano, a Viareggio
come a Monterotondo, a Loreto, a Camerino, a Foggia, a S. Giovanni
Valdarno, a Macerata, ad Imola, a Venezia, allAquila,
ecc. Certo, il dato più spesso posto in rilievo era la
maggiore o minore astensione dal lavoro «Laffermazione
del 1° maggio è riuscita qui [a Terni] solenne per
lastensione dal lavoro anche di operai che negli anni
scorsi hanno lavorato»), ma a parte alcune voci di dissenso
«le feste le fanno i preti», «il 1° Maggio
organizzato dai socialisti è stato festeggiato in quasi
tutta la Versilia come venti o trenta anni fa si festeggiava
la madonna del sale. Nella mattina una lunga processione ordinata
religiosamente con stendardi, musiche e nuovi sacerdoti»),
nella maggior parte dei casi la «bicchierata», «la
passeggiata campestre», «la refezione popolare»
veniva riferita senza animosità polemica, anzi con partecipazione.
Nel 1901, a Messina, nel giardino di un operaio, Michele Mancuso,
un comizio terminato con un ordine del giorno sul lavoro delle
donne e dei fanciulli era accompagnato da canti, mandolini e
fanfara. A Roma, nella medesima circostanza, in un «locale
preso in affitto per loccasione» «presso la
storica piramide di Caio Castio», i circa 500 anarchici
intervenuti (famiglie «anarchiche» con bambini)
avevano «bevuto, mangiato, cantato e ballato [...] fino
a notte», sparato «bengala rossi» ed erano
stati distribuiti, insieme con i giornali e gli opuscoli di
propaganda anarchica, libri e giocattoli ai bambini. Sempre
a Roma, nel 1903, in un «locale campestre» fuori
Porta Pia, Pietro Calcagno, ex coatto, teneva una conferenza
sullo sciopero generale, insistendo sullidea di «una
maggiore coscienza necessaria fra gli operai organizzati, di
un maggior spirito di sacrificio e di solidarietà»,
con contorno di inni anarchici e di lotteria. Alcuni anni dopo,
questa volta in un locale allarco di Costantino, i «soliti»
500 anarchici romani, oltre alla consueta «refezione»,
festeggiavano la nascita di tre bambini, Caserio Luzzi, Ribelle
Picchi e Furio Mengasini. «Durante la festa il Concerto
di Porta Pia suonò inni rivoluzionari. Fu anche estratta
una lotteria con vari premi tra cui una rivoltella. Il simpatico
ritrovo famigliare...».
Tratto da: Maurizio Antonioli, Vieni o Maggio,
Milano, Angeli, 1988.
Andiamo
fra il popolo
di Adriana Dadà
Nonostante che con la divisione definitiva dai socialisti nel
1892 il superamento dellorganizzazione pluralista fosse
ormai di fatto avvenuto, e malgrado laffermarsi dellesigenza
di una organizzazione anarchica più decisivamente orientata
grazie allazione di Malatesta e Merlino negli anni seguenti,
il movimento anarchico negli anni novanta non è ancora
in grado di offrire al proletariato unorganizzazione incisiva,
capace di indirizzarne e stimolarne le lotte.
Malatesta aveva precisato nel 1894 le forme che avrebbe dovuto
assumere tale organizzazione con lo scritto Andiamo fra il
popolo; «Andiamo tra il popolo, questa è lunica
via della salvezza [...]. Entriamo in tutte le associazioni
dei lavoratori, fondiamone più che possiamo, provochiamo
federazioni sempre più vaste, sosteniamo e organizziamo
scioperi, propagandiamo dappertutto e con tutti i mezzi lo spirito
di resistenza e di lotta. [...]. Come anarchici noi dobbiamo
organizzarci tra noi, tra gente perfettamente convinta e concorde:
ed intorno a noi dobbiamo organizzare, in associazioni larghe,
aperte quanti più lavoratori è possibile, accettandoli
quali essi sono e sforzandoci di farli progredire il più
possibile. Come lavoratori noi dobbiamo essere sempre e dappertutto
coi nostri compagni di fatica e di miseria».
Malatesta approfondisce in seguIto nell esperienza sindacale
fatta in Argentina le basi della propria teoria anarchica, che
lo portano alla riaffermazione della necessità di lavorare
nelle organizzazioni operaie e contadine, e a propagandare lidea
di unorganizzazione anarchica orientata, il bakuniniano
«motore rivoluzionario a cui egli ora
attribuisce il compito di provocare la rivoluzione e poi
di impedire il sorgere di altri governi, e, se ne sorgessero
suo malgrado di tenerli in scacco e di mantenerli nella situazione
di maggiore debolezza».
Tratto da: Adriana Dadà, Lanarchismo in Italia:
fra movimento e partito, Milano, Teti, 1984.
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