A un anno dal G8, il ricordo delle giornate
di Genova è diventato un genere letterario come
un altro (basta sfogliare Alias oppure Diario)
e mentre la sinistra ufficiale va a Canossa il Movimento dei
Movimenti coltiva la tentazione di entrare in politica
e si perde in diatribe senza costrutto su tattiche e strategie,
questioni di rappresentanza e di linea politica, altre quisquilie.
Il ricatto dellattualità costringe a seguire una
falsa pista. Ci si prepara allEuro Social Forum di Firenze
con la stessa cautela isterica ma dialettica con cui il vecchio
Pci organizzava i suoi mastodontici congressi. Cattolici e disobbedienti,
glosocial e newglobal, nonviolenti
e non-nonviolenti, amici di Casarini o di Agnoletto.
Li conosciamo già a memoria questi schemini tanto carini
e precisi, ripuliti. Le anime del Movimento
oggi si chiamano anime, anni fa le avremmo chiamate correnti
e buonanotte si confrontano in una grande schermaglia
rituale e dopo la primavera dei movimenti e di Cofferati
forse la preoccupazione maggiore per i no-global made in Italy
è davvero quella indicata sul Manifesto dal
sempre più onnipresente Vittorio Agnoletto: abbiamo perso
lesclusiva dellopposizione, non siamo più
soli
che facciamo da grandi?
Credo che siano questioni oziose e sintomi di un fallimento
imbarazzante. Il motivo di fondo è anche abbastanza semplice.
Lalternativa tra unostinata e improbabile ricerca
di compagni di strada e di alleanze e la tentazione dellautosufficienza
lascia il tempo che trova, come sempre. Non è dal gioco
della politica che si può costruire un altro mondo.
Impantanato nella palude della tattica il movimento sta paradossalmente
riabilitando quelle pratiche della vecchia politica e di un
agire pubblico stereotipato che proprio la sua presenza sporca
e irriverente, aveva contribuito definitivamente a screditare.
Listinto di Seattle è stato messo sotto
conserva, sterilizzato. È un peccato e un errore su cui
non vale neanche la pena di perdere troppo tempo a ragionare.
Personalmente sono stanco di ripetere le solite critiche e non
ho tempo né voglia di lamentarmi. Il ricatto dellattualità,
come tutti i ricatti, uno può sempre semplicemente rifiutarsi
di accettarlo.
Fuori da quel ricatto ci sono due cose che colpiscono e a proposito
del Movimento e dellatmosfera cupa ma insolitamente vitale
del presente. La prima riguarda alcuni eventi clamorosi che
sono successi nel campo del nemico e che clamorosamente
il Movimento non sembra aver visto né capito. La seconda
ha invece a che fare con lo scarto tra le idee e le teorie (grandi
e ambiziose, magniloquenti) con cui il movimento spiega le sue
scelte e la mediocre piattezza di una pratica che gira a vuoto
o si avvia mestamente lungo la china del politicismo più
asfittico e tedioso. Penso a quelli che con un eufemismo interessato
tutti chiamano gli scandali nel mondo delle corporations
e del capitalismo e a quelle parole dordine molto astratte
e solenni, pretenziose, che rappresentano il lessico
scontato dei movimenti globali: Impero, Moltitudine,
Esodo, Guerra costituente, Biopolitica ecc. ecc.
Camicia di forza dorata
Da un po di tempo a questa parte sono cambiate un mucchio
di cose e non cè neanche bisogno di citare linevitabile
11 settembre. Un anno fa chi osava criticare i capisaldi della
globalizzazione liberista si vedeva costretto a indossare i
panni dellidealista utopico o del fesso. Quel fenomeno,
quel modello di vita e di sviluppo, erano semplicemente inevitabili.
Fuori dalla camicia di forza dorata (lespressione
è di T.L. Friedmann) della globalizzazione trovavi solo
miseria e ipocrisia, arretratezza ideologica, superstizione.
Metterla in discussione, opporsi e protestare, provare soltanto
a criticare quella versione fast-food della modernità
e il suo marchio di fabbrica il capitalismo più
che violento o sbagliato era semplicemente irrilevante. Meno
di un anno dopo anche il più sfacciato e indecente degli
editorialisti certe cose non potrebbe ripeterle neanche sotto
minaccia di tortura. Dopo la Enron e WorldCom, dopo la Fiat
e dopo lArgentina viene da chiedersi una cosa banale:
chi sono i realisti? Da che parte si schierano quelli che preferiscono
restare coi piedi per terra? Forse non è un motivo di
consolazione per nessuno ma sembra opportuno prendere atto di
una cesura storica e politica radicale. Linevitabile,
fulgido presente della globalizzazione ha finito per rivelarsi
un mito consolatorio non meno fumoso dellinternazionalismo
facile e idealista di troppe parole dordine retoricamente
ribelli e molto scontate. Per il capitalismo delle corporation
è cominciata la tempesta perfetta. Accorgersene
significa anche registrare un paradosso. La protesta di ieri
si è trasformata nella mediocre diagnosi di oggi e se
gli utopisti hanno sbagliato forse è stato soltanto per
difetto. La camicia della globalizzazione resta una camiciadi
forza, almeno per ora, ma quasi nessuno continua a illudersi
che sia pure dorata, vantaggiosa.
La sorpresa è che il movimento si comporta
come se tutta questa faccenda non lo riguardasse. Quella che
anni fa sarebbe stata definita con molto ottimismo e
troppa ideologia una situazione rivoluzionaria
adesso sembra andare in scena in un universo parallelo e strascinarsi
un mondo a parte. Listinto della rivolta, il desiderio
e la voglia di essere contro sembrano aver favorito
una strana tendenza alla cecità selettiva e dato campo
libero a impulsi elementari e un po irritanti: un senso
arrogante di autosufficienza, una grande pigrizia mentale, il
narcisismo. Non che di certe cose non si parli. Il movimento
ha anche troppi esperti di economia e terzo settore, sociologia,
filosofia politica o agriturismo. Si discute, si parla, si tengono
seminari e convegni, si fanno riunioni. Ma è teoria,
sono esercitazioni dotte, divagazioni (o è il compiaciutissimo
carnival di Porto Alegre). Politicamente quelle vicende
e la stessa battuta darresto della globalizzazione
restano storie che vengono da un altro universo (parallelo),
vaghi motivi di soddisfazione che non modificano priorità
e obbiettivi di un movimento ormai invischiato nei riti della
politica-politica, perso nei giochi di piazza o di corridoio.
Maestri, teorici, ricette, formule, ecc.
Il movimento non si muove. Stasi, abulia, pigrizia dominano
la scena mentre politica e tattiche ritornano in auge. Ma mentre
combatte piccole scaramucce di scarso rilievo e di nessun peso
mai come oggi il movimento sembra riconoscersi in
parole dordine pretenziose, schemi teorici arditissimi
e complicati. Colpisce lo scarto tra le parole e le cose, la
distanza abissale tra una pratica ferma o rituale e la liturgia
supponente di una teoria già introiettata come senso
comune, onnipresente. Colpisce ma in fondo si capisce. La partita
sospesa o persa sulla terra prosegue nel cielo delle idee. Ci
si consola come si può e ci si illude sempre come capita.
A volte non saper dire e non saper vedere
le cose è molto più grave di non saperle (o poterle)
fare. A volte, la voce con cui ci esprimiamo non
è un dettaglio ma è lunica risorsa
e la più seria per affermare quello che siamo
senza indossare maschere ridicole e senza concedere spazio a
forme più o meno pesanti di autoinganno. Oggi troppi
discorsi girano su se stessi con presuntuosa inconcludenza.
In politica questi momenti di loquace afasia sono gli indizi
decisivi di unincapacità mentale che può
pregiudicare anche i nostri gesti migliori e più sinceri.
Non è un fatto di stile. Se un altro mondo
è possibile non può esserlo senza la nostra voce
e il nostro giudizio, la nostra sensibilità, lintelligenza.
La voce con cui il Movimento esprime i suoi desideri
e le sue rabbie oggi è una voce impostata e teorizzante.
Cieca agli eventi perché si ostina a gonfiarli
e a trasfigurarli , monotona, pretenziosamente teorica,
priva di fantasia e coraggio, questa voce suona anche dannatamente
falsa e petulante. Non sa raccontare il mondo perché
non è autentica e riesce ad essere reticente e disonesta
persino quando prova a dire che genere di persone siamo e in
che tipo di società vorremmo o non vorremo vivere.
Credo che oggi il movimento sia sorprendentemente
privo di istinti e passioni, sentimenti morali e
spontaneità ma al tempo stesso gravato da un vocabolario
teorico consolatorio e paralizzante. Non ha una voce.
In compenso ha maestri e teorici, ricette, formule allusive
e presuntuose, modi di dire. La nuova-nuova sinistra no-global
aveva fretta di ridarsi unideologia e veramente non ci
ha messo poi tanto a trovare i suoi guru fast-food e i suoi
vangeli tascabili a presa rapida. Lo strombazzato ritorno sulla
scena di Toni Negri mi sembra a suo modo esemplare anche se
resta indecente e un po ridicolo. Ma il punto chiave era
e resta un altro. La massiccia dose di cliché pretenziosi
con cui Negri (e i suoi allievi più zelanti) trasfigurano
lo stato delle cose è anche uno degli elementi
chiave che spiega la compiaciuta paralisi del movimento e ne
giustifica la pratica mediocre, il tatticismo, lopportunismo
corrivo, i compromessi.
La forza, il coraggio, lamore, lerotismo e la gloria,
lavventura. Nei trailer di guerre stellari
(uno, due, tre
ad libitum), una voce impostata stile Metro
Goldwyn Mayer o circo Togni annunciava magnetica i temi ricorrenti
ed eterni della saga. Impero e i suoi sottoprodotti
(imperdibile lagile Controimpero. Per un lessico
dei movimenti globali, Manifestolibri) hanno la stessa
funzione e seguono, tutto sommato, la stessa logica: barare
giocando al rialzo e vendere bene. Trasfigurare
lesperienza e abbindolare i gonzi. Leffetto finale
è da manuale (ma di psichiatria): le parole che dovrebbero
spiegare il reale sono i mantra che lo fanno sparire
sino a renderlo invisibile. Impero (in versione
bizantina o romana, si può scegliere),
nomadismo, guerra ordinativa, moltitudine
(sempre più forte, forse anche più bella
intona lirico Toni Negri pensando di essere Giorgia
o una Spice Girl), esodo costituente, biopolitica.
In questa proliferazione di diagrammi e schemini teorici cè
tutto il dramma di una sinistra (nuova o nuovissima) fatta di
parole ma senza parole capaci di graffiare o commuovere, persuadere.
La grande carenza
Quando prende a prestito le formulette di Toni Negri o scimmiotta
gli scimmiottatori di Foucault il movimento sceglie di parlare
con la voce di uno che non sa chi è e che non ha ancora
scelto il suo nemico. Non cè niente di peggio.
Non cè niente di più deprimente e paralizzante.
Non sapere chi siamo, non riuscire a trovarsi o a definirsi
magari anche soltanto in forma polemica, per mezzo di una negazione,
di un rifiuto. Non riuscire ad avere una voce autentica e un
nemico. Nello spirito di Seattle cera questa
promessa che sembrava riprendere i sogni e gli istinti migliori
degli anni sessanta: trovare prima della politica e tramite
la politica il senso della propria identità come avventura
e sfida mobile e inquieta, irriverente. Cercare (anche nella
politica, ma in unaltra politica) un modo per costruire
se stessi e costruire se stessi nel mondo: tra le cose, tra
gli altri, nella solitudine curiosa e attenta del giudizio e
della coscienza. Questa aspirazione a dare vita a una politica
dellautenticità, questo bisogno di diventare
se stessi cercandosi nel mondo e ribellandosi alla società
mi sembra che ce li siamo persi per strada e proprio questa
è la grande carenza che rende goffo e un po ipocrita
e falso il movimento.
Da troppo tempo la sinistra (una nuova sinistra) non riesce
a parlare con una voce sincera e non sa inventarsi un linguaggio
della protesta forte e spontaneo, libertario e veramente autentico.
E visto che parliamo tanto di date e ricorrenze (un anno da
Genova, un anno dall11 settembre, ecc. ecc.), è
abbastanza curioso e significativo constatare che proprio in
questi giorni ricorrono i quarantanni di uno degli ultimi
testi in cui la sinistra la nuova sinistra era
riuscita a trovarsi e a definire il programma libero e fantasioso,
coraggioso (che poi sarebbe stato dimenticato e tradito, sacrificato)
di una generazione di ribelli. Nel 1962 la dichiarazione
di Port Huron si apriva con queste parole semplici e dirette:
siamo persone di questa generazione cresciute tutte
per quanto modestamente nel benessere... e guardiamo
con preoccupazione al mondo di cui siamo gli eredi. Non
era il tono del manifesto supponente o uno squillo di tromba.
Ma quei ragazzi usavano il tono giusto e sapevano dire una cosa
grande e molto importante: chi siamo, contro
cosa lottiamo, cosa ci preoccupa. Parlare
nel modo giusto. Avere una voce, una visione. Ho il sospetto
che oggi, quaranta anni dopo, di una voce e di uno sguardo del
genere avremmo un dannato bisogno pure noi.
Vittorio Giacopini
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