Rivista Anarchica Online


dibattito nuovi movimenti/2

Caro Social Forum, addio!
di Andrea Papi

 

Un anarchico esce dal Forlì Social Forum. Con questa lettera pubblica spiega perché.

Vi chiedo di ascoltare questa lettera fino in fondo. Sarà l’ultima cortesia che mi concedete, perché questa è una lettera di commiato, di distacco dalla partecipazione al F.S.F., non ho idea ora se definitivo, ma comunque senz’altro per un tempo molto lungo.
Vi chiedo formalmente scusa per aver anteposto un mio bisogno personale a quelli che sono poi risultati i bisogni collettivi interni più diffusi. Ma vi garantisco che questo mio errore di valutazione è stato fatto in perfetta buona fede. Spero che non venga messa in discussione la mia buona fede.
Dopo un’assenza dalla militanza politica di più di dieci anni, ero stato attratto da questo nuovo movimento di respiro internazionale che sta sorgendo ed ho tentato di entrarvi attraverso il tipo di aggregazione che si è costituita nella città in cui abito e lavoro: il Forlì Social Forum. Mi ero costruito la convinzione, arbitraria come tutte le convinzioni, che potesse essere il luogo che da diverso tempo attendevo, corrispondente appunto al bisogno personale cui ho accennato sopra. Un luogo, nella mia costruzione immaginaria, dove, finalmente, si discutessero seriamente i problemi e le tematiche di ampio raggio inerenti all’emancipazione e alla costruzione di un mondo capace di soppiantare il sistema di rapine, sfruttamento e oppressione che continua ad abbuiarci l’esistenza come una sadica cappa plumbea che irrimediabilmente ci sovrasta.
Sempre nella mia costruzione immaginaria, un simile luogo, se vuole veramente realizzarsi, non può che essere del tutto aperto, libero da idee preconcette, atteggiamenti assiomatici, adesioni dogmatiche e, soprattutto, scevro da scelte e comportamenti censori. Una simile visione nasce da una lunga riflessione sulla crisi storica della sinistra (intesa non come apparato politico istituzionale, ma come tensione politica, sociale, culturale, etica per il superamento dello stato di cose presente, caratterizzato dal persistere dell’oppressione delle oligarchie economiche, politiche e militari dominanti, come dal rinnovarsi e perpetuarsi dello sfruttamento economico sulla maggioranza degli esseri umani). Storicamente, la sinistra sorse e si attestò, in tutte le sue variatissime sfaccettature e componenti, come pensiero, azione e tensione etica rivoluzionaria, per sovvertire il sistema dominante e mettere in piedi una sperimentazione sociale del tutto nuova, fondata sulla libertà e il rispetto reciproco. Quindi la sinistra si qualificò da subito come capacità progettuale rivoluzionaria.

Sganciato da schemi precostituiti

Secondo la mia riflessione, che non è e non può essere compiuta, ma procede e si arricchisce nel tempo, sono storicamente fallite più o meno tutte le ipotesi progettuali che sono state messe in campo e non tanto, che è la cosa più importante, perché sia stata sconfitta militarmente, come successe per la Commune parigina del 1871, bensì per non essere stata lungimirante e non aver avuto la capacità di essere effettivamente innovativa ed efficace, in altre parole conseguente con se stessa e con i presupposti per cui era sorta. Ciò che è rimasto attuale, a mio avviso con sempre maggiore forza, sono invece le ragioni e le tensioni che hanno fatto sì che prendesse piede e forme di azione. Paradossalmente oggi ci sono più ragioni di ieri per continuare a cercare la strada che, finalmente, porti ad una vera emancipazione dal sistema economico e politico vigenti. Non sto qui ovviamente a motivare, come richiederebbe, questi miei assunti riflessivi, perché per farlo ci sarebbe bisogno perlomeno di qualche piccolo saggio. È evidente che non è il caso. Ecco allora che ritengo fondamentale, se non addirittura indispensabile, non tanto ripartire da capo, che l’esperienza vissuta rappresenta comunque un patrimonio sostanziale di cui far saggezza e virtù, ma tentare di riprogettare seriamente le modalità, gli strumenti, il pensiero e la qualità dell’operare per proseguire nella lotta per la realizzazione di una società libera non in senso formale e avulsa da ogni forma e tipo di sfruttamento ed oppressione. Ma per approfondire, problematizzare, formarsi opinioni che abbiano senso e formulare ipotesi operative coerenti ed efficaci, è indispensabile un luogo dove tutto ciò possa avvenire senza restrizioni, preconcetti e superficialità. Luogo che, prima di essere spaziale è innanzitutto mentale e di predisposizione psicologica, supportato dalla consapevolezza che agire senza avere compreso bene il senso dell’agire non solo non è utile, ma può comportare danni, a volte anche irreversibili.
Questo è il senso del luogo di cui, arbitrariamente e in perfetta buona fede, avevo investito la mia partecipazione al F.S.F. e in particolare nel centro sociale. Ribadisco in particolare nel centro sociale, perché questo, a differenza del F.S.F., che per la sua natura richiede un’adesione con una consapevolezza politica più specifica, per il tipo di amplissima operatività soprattutto creativa che ha intenzione di mettere in campo, a maggior ragione dev’essere sganciato da schemi precostituiti.
Supportato da queste considerazioni, avevo perciò proposto al centro sociale che si stava costituendo un’ipotesi di identità che permettesse di riconoscerne il senso e le finalità, sulla base della quale fosse ben chiaro a chi voleva farne parte a che cosa andasse incontro, senza al contempo costringerlo in lacci teorico ideologici che ne avrebbero limitato inevitabilmente il campo d’azione. Così proposi prima la Carta d’intenti, che ne definiva i principi universali su cui si fondava, poi la carta dei Presupposti organizzativi e principi di metodo, indispensabile per gettare un metodo utile e funzionale alla realizzazione di un percorso emancipativo fondato sulla libertà non formale e sulla sperimentazione avulsa da precostituzioni ideologiche e dogmatiche. Nei miei intenti erano e sono strumenti operativi, sottolineo operativi, capaci di definire il senso e la qualità di ciò che si sta intraprendendo. Mi sono anche raccomandato di leggere i due documenti e di discuterli insieme, consapevole che non è e non può essere materia da trattare né con superficialità né con supponenza. Speravo soprattutto che potessero rappresentare un’occasione ghiotta per cominciare a mettere in piedi quel dibattito cui aspirava la mia costruzione immaginaria.
Con mia grande sorpresa mi sono trovato di fronte al silenzio e ad un’apparente consenso, che i fatti successivi hanno poi dimostrato essere inesistente. Ma ciò che è grave, non è tanto che ci sia o no il consenso, ma che non si discuta, anzi si sia evitato di voler discutere, come se non ce ne fosse bisogno. Accanto a quest’assenza di confronto, si sono poi manifestati una serie di atteggiamenti e di comportamenti tutti improntati all’insofferenza e al rifiuto verso battute e posizioni critiche e punti di vista diversi. In verità ho sentito poche dichiarazioni, fra l’altro molto tempo dopo che li avevo proposti, che dicessero chiaro e tondo che non si riconoscevano nei due documenti d’identità del centro sociale. Purtroppo accanto alle dichiarazioni di non riconoscersi non ho sentito una motivazione del perché non ci si riconoscesse, che sarebbe stata la cosa più interessante e importante, da me ampiamente auspicata. L’unica critica, molto importante, purtroppo fatta a me personalmente in privato e non in pubblico, in modo da rappresentare un momento dell’auspicato dibattito, mi è stata rivolta da Sabrina, ma relativa solo all’uso della parola uomo, di cui sottolineava l’effettiva ambiguità. Le ho chiesto di portare la questione all’attenzione generale, ma, ahimè!, non è successo.

Insofferenza verso la diversità

In tutta sincerità, dentro di me ho vissuto un piccolo dramma. Mentre avevo proposto queste cose per incentivare e dare avvio ad un dibattito, anche con toni forti, ma approfondito, mi sono trovato di fronte ad un vero e proprio muro, per cui non si accettavano punti di vista diversi e critiche, né per esempio sul F.S.F. né sul convegno. Ma dove sta scritto che non si può esprimere un’opinione di critica al modo come si concepisce l’organizzazione di un convegno o sul senso e la natura di un forum? Anzi, dovrebbero essere accolti come contributi all’approfondimento e al dibattito. Invece chi esponeva opinioni diverse da quelle che, suppongo, vengono ritenute ortodosse e non possono essere messe in discussione, è stato praticamente trattato come un nemico e un sabotatore. Fino ad arrivare alle accuse, che, guarda caso, al di là che chi le ha fatte ne sia consapevole o no (non faccio processi alle intenzioni), hanno il loro retroterra storicamente consolidato nei metodi di staliniana memoria, che era stato ordito da parte mia e di altri compagni con cui è sorta un’affinità, più che di pensiero di bisogni di approfondimento, una specie di complotto, fra l’altro non ho capito bene per fare che cosa. Ciò che è affiorato, almeno mi sembra, è che ci volevamo impadronire del centro sociale, che questo è una specie di proprietà del F.S.F. e che agivamo contro di esso. Tutto ciò lo trovo ridicolo e, permettetemi, un po’ kafkiano.
La sostanza è che di fronte ad una visione fondata sulla libertà, sull’autonomia, e sull’indipendenza dei singoli organismi, coordinati tra di loro, che è un’ipotesi politica coerente, si è opposto il rifiuto del confronto, atteggiamenti dogmatici, insofferenza verso la diversità e la libertà di pensiero. Discorsi come Queste cose non le voglio più sentire – oppure – Si è permesso di criticare il convegno, ed altre consimili che ora non ricordo, denotano un’impronta dogmatica, perché stabiliscono a priori ciò che dev’essere detto o non detto ed un atteggiamento censorio, perché tendono ad impedire che vengano espresse. Accompagnate alle accuse di ordire trame per… impossessarsi di non si sa bene che cosa, e al rifiuto di confrontarsi su posizioni anche contrastanti, denotano un clima che a tutti gli effetti è antitetico a ciò che speravo.
Ora mi permetto di esprimere un giudizio di valore sul senso di tutto questo baillame. In seguito all’esperienza che ho cercato di descrivere, anche se senz’altro avrò omesso molte cose pur avendone espressa la sostanza, mi sono creato la convinzione che dietro tutto questo agiscano, più o meno consciamente, paure e insicurezze. Paura che l’organismo di riferimento, il F.S.F., venga delegittimato e che non si voglia in realtà sperimentare l’autogestione, come invece continuamente da più parti si declama. Si vuole una forma autogestionaria, sì, forse anche perché coi centri sociali è venuta un po’ di moda, ma la si vuole sotto tutela. Rispunta la logica dell’egemonia politica del partito. Ma se lo si affermasse sarebbe una posizione con una sua dignità sulla quale discuteremmo parecchio, anche con passione, e ci farebbe bene a tutti. Invece no, si afferma che si vuole a tutti gli effetti l’autogestione, ma però controllata dall’organismo centrale che dev’essere un’Entità Superiore (espressione effettivamente usata nell’ambito dell’accaloramento della discussione). Insicurezze dovute al fatto che se la famosa Entità Superiore non rappresenta più una specie di guida indiscussa ci si senta inconsciamente deprivati del papà che stabilisca il nostro cammino. È senza dubbio molto più difficile agire in vera autonomia. Ma qui entriamo nel regno dell’irrazionale ed è un cammino minato, per cui mi fermo.
Ora io penso, e ne sono fermamente convinto, che un’autogestione, per esser veramente tale, non possa avere tutele di sorta. Se ciò avvenisse, sarebbe a tutti gli effetti una finzione e prima o poi crollerebbe ignominiosamente come tutte le finzioni. Penso che invece sia molto più interessante sperimentare forme reali di autonomia e autogestione in una logica di coordinamento tra le varie componenti e i diversi organismi, ognuno autonomo e autogestito, sulla base di un confronto paritario e, soprattutto, al di fuori di ogni tutela politica di chicchessia o di qualsivoglia organo centrale che ha il compito e la facoltà di scegliere per tutti i suoi dipendenti cosa debbano o non debbano fare e pensare.

Confronto paritario e reciproco

Ma veniamo al dunque. Personalmente sono stanco di questo clima e di questo rifiuto censorio di dibattere e di confrontarsi. Non c’è nulla di sacro né di prestabilito, né ci dev’essere preminenza di alcun individuo né di alcuna entità od organismo. Il confronto dev’essere paritario e fondato sulla reciprocità. Involontariamente anch’io ho senz’altro contribuito a che questo avvenisse e ve ne chiedo scusa. Però non me la sento più di partecipare a qualcosa in cui quelli con cui dovrei fare cose assieme pensano od hanno il sospetto che io possa tramare nell’ombra (ripeto, non ho ancora capito bene per che cosa).
Mi faccio perciò da parte e non parteciperò più agli incontri né del F.S.F. né del Niño. Mi sono convinto che il rapporto sia ormai troppo inquinato e che ci voglia un tempo abbastanza lungo prima di ritentare l’incontro. Spero che questo non significhi che non possa partecipare da “esterno” ad iniziative che organizzerete, se mi interessano. La mia uscita, per coerenza, comporta alcune conseguenze.
1) Comunicherò all’assessore Fabbri che non sono più un referente per il centro sociale.
2) Mi riprendo la paternità dei due documenti: la Carta d’intenti e la carta dei Presupposti organizzativi e principi di metodo. Essi contraddicono a un’autogestione sotto tutela. Del resto è vostro diritto ridefinirvi e stabilire un’identità consona all’integrità della preminenza politica dell’ organismo centrale F.S.F. su tutti gli organismi di sua proprietà. Ma per favore non dichiarate il falso, perché chi aderisce ha diritto di sapere dove va e che cosa lo aspetta. I due documenti perciò non rappresentano più l’identità del centro sociale, ma ritornano ad essere quello che sono: una proposta teorica che farò in altre sedi, a mia discrezione.
Vi saluto! Non ve ne voglio e, spero, non me ne vogliate.

Andrea Papi