La poesia è unarma carica
di futuro
Paco Ibañez, trovatore delle voci di Spagna
La voce innanzi tutto.
Attenzione, non solo un canto, proprio una voce.
Una voce bellissima, sempre più bella man mano che lopaca
polvere del tempo ci si deposita sopra... forse più oscura,
come lamore delle poesie segrete di Lorca, senzaltro
più vissuta; perduto, con letà, largentino
brivido degli anni dei primi trionfi allOlympia di Parigi;
quel brivido che senza alcuna forzatura stringeva pubblico ed
esecutore in una catena dacciaio, è oggi la voce
di una roccia millenaria, di una radica dulivo. È
la voce del silenzio.
Una voce che sussurra e canta. Una voce che parla e canta. Una
voce che tace e canta.
La voce di Paco Ibañez è la voce stessa della
poesia: la prima volta che lascoltai era il gennaio del
1991, lui era fra gli artisti invitati a una grande concerto/tributo
(teatro Lirico di Milano) a Georges Brassens, che io avevo lopportunità
e la fortuna di vedere da dietro le quinte. Quando Paco si fece
avanti sul palco, dopo qualche parola di presentazione, cominciò
a cantare... Ora, da dietro le quinte si sente sempre pochino,
ma in quel frangente non sentivo assolutamente nulla, e così
pensai «Ma... Canta troppo piano, non arriverà
niente neppure in platea...» Ed ecco invece, come
per magia, un piccolo raschio, un brivido musicale mi percorse,
non dalle orecchie al cuore come succede di solito
bensì al contrario. Era Paco che cantava.
La sua voce ha una caratteristica soprannaturale: ti si materializza
dentro prima ancora di arrivare da fuori. Io avevo 19 anni e
mi trovai a pensare che quello era il modo di cantare la poesia.
Ho 29 anni, ho avuto occasione di sentire Paco Ibañez
altre due volte dal vivo, conosco a memoria ogni suo disco e
non faccio che confermarmi nella mia idea.
La poesia in musica è una nobile arte, in genere un piccolo
diversivo della canzone dautore; vi si sono dedicati più
o meno sporadicamente alcuni autori, pochi con buoni risultati:
Brassens e Beaucarne con uno spirito piuttosto simile
a vari poeti, Serrat soprattutto a Machado e Hernandez,
Teodorakis soprattutto a Ritsos e Elitys, Ferrat solo a Aragon;
Ferré ha fatto del rapporto coi poeti maledetti uno dei
suoi molti poli creativi; Paco ha cantato solo poesia. A fronte
delle nobili eccezioni di un disco dedicato alle versioni castigliane
delle canzoni di Brassens, doveroso omaggio a colui che considera
il suo maestro darte e di vita sopra ogni altro, e un
recente disco che rintraccia le sue radici materne nella canzone
popolare e dautore di lingua basca, la sua avara discografia
conta ben sette dischi (e mezzo) dedicati alla lirica spagnola
con una spiccata preferenza per i suoi periodi più fecondi:
il siglo de oro (Gongora, Lope de Vega, De Quevedo, Manrique...)
e il sanguinoso novecento della generazione del 26 (Lorca,
Alberti, Hernandez...) soffocata ma non messa a tacere
nel sangue, nella prigione e nellesilio, e di quella
del 60 (Goytisolo, Celaya...). Di questi ultimi Ibañez
ha colto soprattutto il grande valore di passione civile, di
rivolta permanente, di inconciliabilità con una situazione
politica data talmente per scontata da essere considerata inappellabile.
Sono poeti che hanno dovuto subire un lungo ostracismo di silenzio
e di ostilità, qualche volta anche di carcere... così
come la voce di Paco ha dovuto cantare in esilio anche
se in qualche rarissimo caso era riuscito a prodursi in Spagna,
tentando, anche se per breve tempo di vivere a Barcellona
fino alla caduta del franchismo.
Suo padre
e Durruti
Paco Ibañez è un compagno anarchico, aperto alla
collaborazione artistica con i grandi artisti della sinistra
è testimoniato su disco un meraviglioso recital
in compagnia del già vecchissimo Rafael Alberti
ma così come alla domanda «perché non hai
mai musicato tuoi testi» risponde semplicemente «esistono
troppe meravigliose poesie ancora da musicare!», egli
non è uomo da proclami roboanti, tutta la sua rivolta
si legge nel calmo calore umano con cui si rapporta a un pubblico
non blandito né dominato, ma conquistato con un filo
di voce, qualche accordo di chitarra e una scarna schiettezza
che lascia parlare la straordinaria coerenza fra ciò
che canta e colui che canta.
Ciò non toglie che lui stesso mi raccontò con
un certo orgoglio che Durruti aveva lavorato nella stessa officina
di suo padre. Ciò non toglie la cocciuta convinzione
di voler continuare a fare il suo lavoro debanista, a
rischio di compromettere la sua meravigliosa voce con linalazione
delle polveri di legno, pur essendo da moltissimi anni una riconosciuta
star dello spettacolo... «Se non ho a che fare con
qualcosa di materiale non mi sento vivo!».
E Paco è senzaltro un uomo vivo che, dalla nascita
(a Valencia nel 1934), ha dovuto attraversare molti difficili
cammini, a partire da quello dellesilio a cui i suoi genitori
furono costretti dopo la guerra civile, il padre internato in
un campo di lavoro francese, la madre, col resto della famiglia,
rifugiatisi in un villaggio presso San Sebastian (sul filo della
memoria di questo periodo si fonda il disco in lingua basca
«Oroitzen»: ricordo).
Celebrato come un «santino» da Spagnoli in esilio
e studenti francesi, tanto da dare nel 1969 un famoso spettacolo
nella Sorbona per il primo anniversario delloccupazione,
voce riconosciuta anche dai docenti di lingua castigliana, che
utilizzano i suoi dischi come materiale didattico, lartista
è riuscito a sfuggire anche allinsidioso veleno
delle celebrazioni in vita, rifiutando tutti i premi con cui
i politici avrebbero voluto insignirlo, compresa la prestigiosissima
«medaglia delle arti delle lettere» che il socialista
francese Jack Lang ha tentato di conferirgli ben due volte (1983
e 1987).
La coerenza del personaggio non è però in vendita.
La sua opera ne è la più alta testimonianza: unopera
in cui il talento resta sempre al servizio di qualcosa di più
alto.
Siderale
distanza
La sua tecnica di canto, molto precisa nellintonazione
e con una musicalità particolarissima ed eccezionale,
pur strepitosa non fa mai passare in secondo piano il peso dogni
singola parola, così come, chitarrista virtuoso, si accompagna
in maniera avara, e giusto il tocco da maestro fa assumere a
ogni singola nota un peso specifico di grande pregnanza.
Paco non è però solo un interprete, egli è
il meraviglioso autore delle canzoni che canta, dal momento
che è siderale la distanza fra quei versi imprigionati
nel cemento bianco della pagina tipografica, e le ali su cui
li fa correre la sua musica. In tutta semplicità ovviamente,
eppure, se ci fermiamo ad analizzare quei testi, ci accorgiamo
che si tratta di poesie non sempre in rima, raramente isosillabiche;
a volte veri e propri manifesti politici, quasi prose poetiche
come «La poesia es un arma cargada de futuro»,
che pure è uno degli esiti più alti della sua
discografia...e incredibile pensare a come Ibañez abbia
potuto trasformare in canzone una poesia come quella o come
«Me queda las palabra» di Blas de Otero.
Il rispetto e lamore sono con tutta probabilità
la molla, ma anche la perfetta conoscenza dei meccanismi della
musica popolare, e una coscienza antiaccademica della poesia,
come voce dellinconscio di massa, permettono a questuomo
semplice e sensibilissimo di essere il potente medium che fa
scendere la poesia nella strada. Arma carica di futuro.
Lultima volta che ho avuto occasione di vedere Paco in
concerto, presentando la stupenda «Palabras para Julia»
(su testo di Goytisolo) ha detto «Gli ex prigionieri
politici del franchismo mi hanno raccontato che in carcere ascoltavano
questa canzone per vincere la malinconia...».
«Altro che Nobel!» Ho pensato.
Alessio Lega
Paco
Ibañez nel 1968
Con
Rafael Alberti
Con
Georges Brassens
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