Levento
Ancora una volta la Fondazione Fabrizio De André
si è impegnata in un progetto di carattere sociale patrocinando
un concorso di poesia e racconti indetto tra detenuti dellistituto
penale di Parma che reclude circa seicento elementi tra cui
i famigerati 41bis collegati alla mafia. Questo aspetto specifico
codifica il carcere tra quelli di massima sicurezza. Per il
resto degli internati è una prigione come unaltra.
Cè una sezione denominata Alfa dove
sono premiati i buoni con giochi ricreativi e strumenti
di comunicazione che vanno dal biliardo ai computer. Pare che
prossimamente potranno usufruire di Internet. Navigheranno fuori,
nel mondo, in chiave virtuale ma nellistante del presente.
Tra le manifestazioni cui la Fondazione, nel corso del tempo,
ha dato il suo decisivo e concreto contributo ricordando diversi
concerti a favore di Emergency di Gino Strada, per la comunità
di Don Gallo, prete certamente scomodo ai vertici clericali,
e due concerti a San Vittore a Milano per la sezione femminile
e per quella maschile. Il premio che ha avuto come presidente
la scrittrice Fernanda Pivano da sempre antiaccademica e pacifista,
colei che ci ha fatto scoprire il pianeta beat e una nuova armonia
universale, ha posto in palio per i tre finalisti delle due
sezioni una somma di denaro così ripartita: euro 310
(per il primo) euro 155 (per il secondo) euro 51 (per il terzo).
Lidea è nata dalla professoressa Maria Spora che
ha curato lorganizzazione e il coordinamento di questa
iniziativa dedicata a Fabrizio De André e intitolata
Ricordare
ripensare. Maria Spora che insegna
allinterno del carcere ha coinvolto per il finanziamento
lassessore alle politiche sociali Tiziana Mozzoni eletta
in una lista di sinistra denominata Libera la libertà
e guidata da un ex comunista, Mario Tommasini, amico di Basaglia
e noto a Parma per aver contribuito a chiudere il manicomio
di Colorno. Altro sostegno fondamentale è stato quello
dellassessorato ai servizi sociali del Comune nella persona
di Marta Teresa Guarnieri.
La scuola Bodoni ha dato un apporto importantissimo
partecipando attivamente alla struttura del concorso ma, soprattutto,
realizzando con i detenuti uno spettacolo tratto da Spoon
River Anthology di E. Lee Masters e reinventato da Fabrizio
in Non al denaro non allamore né al cielo.
La regia di Pietro Soncini ha dato vita a una rappresentazione
omogenea, articolata e colorita grazie anche allimpegno
dei detenuti che hanno animato quei personaggi con passione
e convinzione delineando con ironia e malinconia le caratteristiche
esistenziali.
Il giovane direttore del carcere Silvio Di Gregorio che avalla
volentieri iniziative culturali e dincontro, a proposito
di Fabrizio De André ha dichiarato: Lo abbiamo
scelto perché da sempre è il cantore degli ultimi
che non per questo devono essere dimenticati.
Fernanda Pivano ha ricordato il lavoro di riscrittura operato
da Fabrizio sullantologia di Masters: Fabrizio,
queste poesie, le ha rese più umane. Pensate a La
collina, dove nella strofa dedicata ai soldati che tornavano
morti nelle bandiere, ha aggiunto: legate strette perché
sembrassero intere. Lui incarnava tutti i valori della vita.
Se fosse qui, sarebbe molto contento di voi e vi trasmetterebbe
il suo amore.
Dori Ghezzi rincalza: Fabrizio, le sue conquiste, le ha
ottenute attraverso la cultura. Altrimenti, forse, sarebbe diventato
come il suo bombarolo (rif. a Storia di un impiegato).
Tra le sue carte di recente, ho trovato una frase che è
diventata lemblema della nostra fondazione: E poi lamore
scoppiò dappertutto. Erano presenti oltre Dori
e Fernanda, il compositore Piero Milesi, Sergio Cusani e il
sottoscritto.
Il clima
Dormono, dormono sulla collina
così
inizia il primo brano di Fabrizio e così inizia anche
lo spettacolo Burla in collina (in Via Burla è
situato il carcere) ma alcuni interpreti, la notte precedente
non hanno dormito preoccupati o emozionati per levento
del giorno successivo però, a prescindere da quella circostanza
davvero speciale, ci si chiede quanti di loro generalmente riescono
a fare sonni tranquilli? Più duna volta, leggendo
articoli sul tema della detenzione ho notato il disegno che
ritualmente accompagnava il testo: una teoria di sbarre attraverso
le quali volavano via uccelli dalle grandi ali, grandi come
il sogno di libertà. Anche il Miché
di Fabrizio volava così, ma nel modo più tragico:
attraverso un nodo scorsoio strozzando così, ancora prima
del corpo, proprio quel sogno alato di libertà.
Ho visto dunque la voliera fortificata e i suoi abitatori, un
tempo uccelli migratori e ora stanziali in attesa della stagione
della trasmigrazione. Uccelli con il becco spuntato forse ma
con locchio vigile rivolto a quel cielo a due passi che
quasi si può toccare con le mani. Uccelli azzoppati,
uccelli feriti ma con le ali integre pronte a spiccare il volo.
E la prova generale del volo è stata proprio in quel
5 giugno sulla pista della poesia dove lanima rulla e
il muso del sogno, come un lupo predatore, punta verso lazzurro.
La poesia è da sempre luscita di soccorso dei sommersi,
degli obliati, dei diseredati dalla sorte. Antonin Artaud, nel
suo saggio Il mito di Van Gogh definiva certi artisti
perseguitati dallincomprensione sociale i suicidati
della società proprio per come finivano sotto silenzio
o per come distruggevano la loro esistenza. Ma gli artisti,
per sfortunati che siano, camminano in linea retta, allaria
aperta e in uno spazio atemporale da loro inventato.
I detenuti, in uno spazio temporale deciso da altri e matematicamente
definito, procedono nel loro cammino in cerchio.
Gli indiani dAmerica massacrati dai bianchi
ritenevano il senso di cerchio sacro, per i detenuti
il senso di cerchio è maledetto ma sono un
po indiani anche loro relegati nella riserva. Eppure deve
esserci una soluzione alternativa, parallela, costruita che
almeno salvi gli affetti privati di questa tribù slegata
dai propri congiunti. Ancora di più: lutopia
forse possibile di creare una società priva di quei presupposti
che inducono a determinate azioni.
Ho visto volti fraterni non dissimili dal mio e che certamente
hanno elaborato il senso e il dissenso del proprio e altrui
agire. Eccoli dunque sul palco gli abitatori della voliera,
pronti a interpretare le individualità umiliate dalla
società civile, dalla morale comune, dalla mediocrità
piccolo-borghese della provincia americana. Personaggi che raccontano
in che modo e perché loltraggio è stato
subito in vita ora che sono morti lo possono testimoniare senza
timore di rappresaglia. Così i detenuti ma vorrei dire
semplicemente le persone che sono lì sul ramo, si liberano
dagli oltraggi inferti e ricevuti attraverso questa mascheratura
sostitutiva della propria personalità che è la
finzione teatrale dietro la quale trincerarsi e al contempo
rivelarsi in un gioco di luci e ombre, di connessione e ritorsione
addossandosi altrui identità in qualche misura simili
a loro e ai loro passati gesti nati in un mondo dove la regola
è il possesso invece di essere.
Ecco sfilare il malato di cuore, il matto del villaggio, il
chimico, lottico, il blasfemo e tanti altri, ciascuno
con la sua pena segreta, la sua colpa sociale, la
sua assoluzione morale. Quale contiguità
celata tra quei personaggi che parlano dallal di là
e quelli che ci parlano dallal di qua, a pochi metri di
distanza!? Difficile determinarne i contorni così sfocati
e così amalgamati. Forse la prova è proprio nei
testi qui pubblicati: una poesia e un racconto che svelano,
insieme ad altri testi meritevoli, una sensibilità sempre
esistita e ancora dura a morire.
Dori Ghezzi ha sottolineato acutamente come la poesia Dallinferno
contenga in sé un clima squisitamente deandreiano mentre
il racconto La casa sul lago ha, poco dopo, coinvolto
emotivamente tutti i presenti, autore compreso. Parole di un
comune linguaggio e di un identico sentire, schegge di fraternità
in volo per il mondo.
Mauro Macario
(i brani delle interviste sono di Roberto Longoni pubblicate
sulla Gazzetta di Parma)
Dallinferno
Il
giovin, buono e timido Giocondo
Ancora, non ha trovato lamore
E si sente triste e solo a sto mondo.
A cagion del suo natural candore,
le donzelle rimira con tremore;
poi, vede LEI, e si infiama in un secondo.
Si
infatua di questa leggiadra donna
Proveniente dalla Romania. Bella,
dallo sguardo limpido da madonna.
Bionda con gli occhi verdini alta e snella
Che batte il marciapiede di via Biella,
fredda come una marmorea colonna.
È
nota col nome di Mariarosa;
cuore grande e cervello da bambina.
Volea esser, solo, una buona sposa,
ma adescata dal vil ceffo, cammina
su vergognosa pista a testa china,
con passi corti, felpati e dogliosa.
Giocondo
diventa, di colpo, audace
Sospinto da quel vital sentimento
Che s aderge dal cuore come face.
Il suo sbocciare non ha impedimento
E tutto travolge con ardimento.
Ha scoperto la favella e non tace.
Le sussurra ciò che lamor gli detta,
con trasporto, talmente coinvolgente
che ella, animata e sorpresa, si getta
nelle di lui braccia, teneramente.
Al tepore di quel foco emergente,
felice, torna sulla strada retta.
Convivono
beati per pochi mesi
Poi, il Magna se la riprende con la forza.
Giocondo non si arrende e i sensi offesi,
lo rendono nuovo, di dura scorza.
Lodio per sto furfante non si smorza
E così lammazza a nervi distesi.
Subito
arrestato viene tradotto
In prigione, indi, processo e condanna;
la sua vita si è fermata di botto.
Ora è qui in miseri siti e si affanna
Pel infausto amore che non si appanna;
si gloria, anche, di pagare lo scotto.
Nel
tempo il distacco coatto distrugge
Ogni slancio e Mariarosa, ormai sola
Non sa come reagir; langue e si strugge.
Dalla casa al carcere fa la spola,
e sposa, per tal andazzo, si invola
sulla vecchia via e da Giocondo fugge.
Ei
si tramuta in lupo solitario,
ravvisa il grave peso del delitto.
La fuga dellamata è il suo calvario;
si sente tradito, pronto e sconfitto
amareggiato, deriso e afflitto.
Svanisce il sorriso leale e bonario.
Pensieri
atroci, funesti, affliggono
Sua mente e medita Lezion maligna
Da darLe, altro che il richiesto perdono.
Il tarlo, nel cuor lacerato, alligna
E tutti assale con maniera arcigna.
Ella non si merita alcun perdono.
A
distanza di parecchi anni, apprende
Dalla stampa che il corpo martoriato
Di Lei è stato scorto, avvinto con bende,
coperto di rami secchi, in prato.
Il suo bimbo, da solo, ha lasciato
E Giocondo il proprio dover comprende.
Commosso,
ripiglia tra le mani
Tremolanti, la fotografia e piange
Per Mariarosa, orbata del domani.
Lintima speme, cullata, si infrange
Sul crudel destino e si compiange
Di aver osato, bei sogni, ma invani.
Lira,
da nera e tralignante dama,
si trasforma, dincanto in tenerezza
e capisce che quel piccino, già ama.
Col cuor leso, trasudante dolcezza,
spronando da rigenerante ebbrezza
ora, un motivo per vivere, brama.
Spinto
da amor puro e nella fede
Il piacere di esistere riprova.
A tal metamorfosi, ancor, non crede,
ma colla preghiera, accorata e nova,
nel porgersi contrito, si ritrova.
Sua vera indole, alla fine, intravede.
Dopo
molti e diversi sacrifici
Realizza il desiderio di adottare
Il bimbo. Sono diventati amici!
Man nella mano, vano a visitare
La stele della madre per orare.
Sfidan la ria sorte, uniti e felici.
Lepitaffio
scolpito sulla tomba
Di bianco marmo, adornata con fiori,
dice: A Lei, che di vita non romba,
poiché smarrita tra i sogni incolori,
si inchinan, memori, i suoi due tesori.
La pace su costei, per sempre, incomba.
Mario
Piccirillo
|
La
casa sul lago
Accettare
senza capire è possibile?
Quando cominciammo a passare i fine settimana sul lago,
eravamo molto giovani e con pochi soldi. I parenti di
lei ci concedevano luso di una villetta in una conca
boscosa, a circa un chilometro dallo specchio dacqua.
Io avevo orari di lavoro strani, perciò spesso
non arrivavamo che dopo la mezzanotte del venerdì.
Ma se non cerano troppe zanzare, facevamo una nuotata
sotto la luna e poi ci riposavamo con la schiena contro
un albero, bevendo del vino bianco gelato e parlando del
nostro futuro.
Unestate comprai un barca a motore doccasione,
con cui costeggiavamo la riva, ammirando le ville affacciate
e chiedendoci come ci si doveva sentire a possederne una
così. Lei era pessimista: erano cose tropo care,
che non avremmo potuto mai permetterci.
Passarono gli anni. Nacquero due bambini e non andammo
più nella villetta: i suoi parenti lavevano
venduta.
Poi ebbi fortuna nel lavoro e guadagnai molto denaro:
più di quanto avrei mai sognato di possedere, e
ricordando quei fini di settimana, tornammo sul lago e
comprammo una casa di legno di cedro.
Era bellissima, circondata da grandi alberi secolari e
il terreno scendeva dolcemente fino ad una piccola spiaggia.
Era tutto perfetto e non immaginavo che le estati fossero
così belle.
A me piaceva andare a pescare il mattino presto e lei
dormiva finché la svegliavano gli uccelli: allora
chiamava i bambini, preparava la colazione e mangiava
con loro.
Facemmo amicizia con gli animali del bosco e con un picchio,
ospite del nostro albero più grande; con i contadini
del luogo che ci rifornivano di tante cose buone.
Il momento più bello della giornata era il crepuscolo.
Lei amava i tramonti. Si fermava sempre quando arrivavano
e cercava la mia mano per guardare insieme il sole che
calava, cambiando il colore del lago: da blu a porpora,
da argento a nero.
Una
sera le scrissi una poesia:
Il sole scivola giù
come una lacrima doro
un altro giorno
un altro giorno
se ne è andato
Mi disse che era triste, ma che le piaceva.
Quello che non le piaceva era il vento che annunciava
larrivo dellautunno, nonostante i suoi bei
colori e le serate davanti al caminetto. Lei era una persona
estiva: adorava il sole.
In novembre riponevamo la barca, toglievamo lamaca,
chiudevamo tutto e tornavamo in città.
Lei sospirava sempre quando partivamo da quel lago; poi,
quando finalmente arrivava la primavera, appena avuta
notizia che il lago non era più ghiacciato, tornavamo
lì, di nuovo felici.
Ogni estate sembrava più bella delle precedenti
e i tramonti più spettacolari: più preziosi.
Poi un fine di settimana andai da solo a chiudere la casa
per linverno. Lavorai in fretta, cercando di non
pensare che una certa sedia era la sua preferita,
che lamaca era stata il suo regalo di
Natale, che la casa sul lago era stata il mio regalo per
lei. Ma non lavorai abbastanza in fretta, perché
al tramonto ero ancora lì. Quel tramonto sembrava
una grande esplosione di arancione, proprio quello che
lei amava di più.
Ci provai, ma non potei guardarlo da solo: non attraverso
le lacrime.
Allora gli voltai le spalle, andai dentro casa, tirai
le tende, chiusi la porta e corsi via.
In seguito esposi sul davanti il cartello Vendesi:
forse la casa sarebbe piaciuta ad una coppia che amava
i tramonti in silenzio.
Ci speravo proprio.
Lei
morì nellinverno del 1969: aveva 29 anni:
io 31. I bambini vennero allevati dai parenti di lei che
si stabilirono allestero, oltre loceano. Non
ne ho saputo più nulla. Finii presto in disgrazia
alla fortuna e agli occhi degli uomini. Sono in
prigione dal 1992: piaccia a Colui che forse è,
di non permettere che io muoia qui dentro
Giorgio
Cogliati
|
|