Rivista Anarchica Online


scienza & violenza

A chi giova la violenza?
di Francesco Robustelli

 

La violenza non fa parte del nostro Dna. È funzionale al potere, che infatti…
Le tesi originali di uno scienziato anarchico, rappresentante per l’Italia della “Dichiarazione di Siviglia”.

Non credo che abbia molto senso stupirsi di quella che molti considerano un’impressionante escalation di violenza che si sta verificando in tutto il mondo. L’umanità attuale ha alle sue spalle una storia che non giustifica nessuno stupore. Non dimentichiamo l’Olocausto degli ebrei nella seconda guerra mondiale e le bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Non dimentichiamo i secoli della spietata espansione coloniale europea. E se poi vogliamo prendere in considerazione gli esempi più spirituali della nostra storia non dimentichiamo le persecuzioni, le torture e i roghi della Santa Inquisizione. Tutto sommato, oggi siamo semplicemente all’altezza del nostro passato.

Interpretazioni biologiche della violenza

La nostra storia è così intrisa di violenza che certi studiosi hanno ritenuto opportuno arrivare alla conclusione che la violenza l’abbiamo nel sangue o, come si dice oggi, l’abbiamo nel nostro patrimonio genetico. La psicologia è stata dominata per molto tempo da questa idea, che si è basata, oltre che sulla comune osservazione dei fatti, su due concetti fondamentali: quello di istinto e quello, in un certo senso complementare, di energia psichica.
Come è noto, per istinto si intende tradizionalmente un comportamento fisso, rigido, non modificabile da parte dell’esperienza, geneticamente determinato e quindi ereditario, caratteristico di una determinata specie. All’istinto viene tradizionalmente contrapposto l’apprendimento, cioè quel processo per cui il comportamento viene modificato dall’esperienza. In realtà, oggi il concetto di istinto è in crisi per quel che riguarda gli esseri umani e gli animali superiori ed è soprattutto in crisi la contrapposizione netta fra istinto e apprendimento. Da un lato viene sempre più messa in evidenza la dipendenza di tutti i comportamenti dalle condizioni ambientali, in particolare durante lo sviluppo dell’individuo (Hinde, 1959). Dall’altro si analizzano sempre più i condizionamenti biologici dei processi di apprendimento (Hinde e Stevenson-Hinde, 1973; Seligman e Hager, 1972). Oggi, cioè, la tendenza fondamentale è quella di negare il dualismo “istinto-apprendimento” e di considerare istinto e apprendimento come i due estremi di un continuum. Nel considerare il significato concreto di questo continuum per quel che riguarda la specie umana, inoltre, non bisogna dimenticare che nel corso dell’evoluzione biologica si ha una progressiva diminuzione dei meccanismi tradizionalmente definiti istintivi e un progressivo aumento delle capacità di apprendimento. Nel corso dell’evoluzione biologica, quindi, cambia il tipo di rapporto che l’animale ha col suo ambiente. Da comportamenti più o meno fissi, rigidi, geneticamente determinati, si passa a comportamenti sempre più plastici, acquisiti con l’apprendimento.
Molto importanti, nella psicologia, sono state anche le concezioni energetiche dell’istinto, che ipotizzano l’esistenza di un’energia psichica di produzione endogena senza di cui nessun comportamento istintivo sarebbe possibile. Si tratta di concezioni sorte sul terreno positivistico della fine dell’ottocento, che hanno chiaramente mutuato i loro elementi fondamentali dalla fisica. Da vari decenni queste concezioni sono state invalidate dalla ricerca psicologica, etologica e neurobiologica e sono state sostituite da concezioni di tipo informazionale (cfr.: Hinde, 1960; 1982; Robustelli, 1986).
Bisogna rendersi chiaramente conto di quello che hanno significato, e continuano a significare, nella nostra cultura sia il concetto di istinto sia le concezioni energetiche dell’istinto.
L’innatismo implicito nel concetto tradizionale di istinto ha favorito in politica le posizioni conservatrici, con la tesi secondo la quale la struttura delle società umane è fondamentalmente determinata da meccanismi istintivi e scarse sono le possibilità di trasformazione di questa struttura, in quanto appunto essa corrisponde ad un programma biologico della specie umana. L’innatismo, cioè, tende ad analizzare lo sviluppo culturale delle società umane con categorie biologistiche che snaturano tale sviluppo destoricizzandolo (Robustelli, 1982).
I modelli energetici, d’altronde, hanno contribuito pesantemente a far considerare l’uomo come un meccanismo che continuamente si carica e, di conseguenza, continuamente si deve scaricare. La potenza dell’istinto è stata metafisicizzata. L’accumulo di energia psichica è stato presentato come un fenomeno apocalittico. Ma oggi, come ho già detto, i risultati di molte ricerche indicano che non esiste negli esseri umani un’aggressività istintiva che deve assolutamente essere in qualche modo scaricata.

“E le nostre misere townships?”

La tradizionale concezione istintivistica dell’aggressività umana è molto pericolosa, perché ciò che la gente pensa di sé stessa è uno dei principali fattori che determinano il suo comportamento. E se la gente pensa che l’aggressività sia inevitabile è improbabile che si sforzi concretamente di ottenere un mondo meno aggressivo. Per questo un gruppo internazionale di specialisti (psicologi, etologi, neurobiologi, psichiatri, sociologi e antropologi) si è riunito nel maggio del 1986 all’Università di Siviglia ed ha stilato un documento “per eliminare il mito secondo cui la guerra e la violenza fanno parte della natura umana e perciò sono inevitabili” (Adams, 1991). Il documento, che ha preso il nome di “Dichiarazione di Siviglia sulla Violenza”, sostiene che la violenza umana è prodotta fondamentalmente da fattori socioculturali ed è stato sottoscritto da molte associazioni scientifiche, fra cui l’American Psychological Association, l’American Sociological Association, l’American Anthropological Association e l’International Society for Research on Aggression. Nel 1989 la “Dichiarazione di Siviglia” è stata patrocinata dall’Unesco, che ha creato una rete internazionale per la sua diffusione; io sono il rappresentante italiano di questa rete (1).
Nel 1993 ho partecipato al congresso internazionale “Violence and its Alternatives”, tenutosi a Città del Capo. Nei dieci giorni trascorsi in Sud Africa ho avuto incontri con docenti e studenti di varie università come pure con membri di parecchie associazioni di Città del Capo e di Johannesburg che si battono per i diritti umani. A Città del Capo, in una interessante riunione pubblica a cui hanno partecipato alcune centinaia di persone, dopo che ho parlato della “Dichiarazione di Siviglia” un uomo mi ha chiesto:
A che ci serve la “Dichiarazione di Siviglia” se vogliamo affrontare il problema della violenza che ha prodotto le nostre miserabili townships (2) negre?
Gli ho risposto che capivo benissimo il suo tono polemico e che di fatto la critica delle posizioni biologistiche ha un significato solo se costituisce un punto di partenza per una discussione globale sull’aggressività e sulla violenza e soprattutto se costituisce un punto di partenza per un concreto programma di educazione contro la violenza per le giovani generazioni.

Cause socioculturali della violenza

Dunque la violenza umana è prodotta fondamentalmente da fattori socioculturali e credo che questi possano riassumersi in quella tendenza alla sopraffazione che si è venuta strutturando nel corso della storia e che ha portato alla disuguaglianza, all’ingiustizia, all’oppressione, allo sfruttamento. Queste condizioni sociali esprimono l’essenza della violenza che da millenni l’uomo esercita sull’uomo. Un’analisi della tendenza alla sopraffazione porta poi, secondo me, ad individuare facilmente ciò che determina questa tendenza: l’irrazionalità. È razionale cooperare con gli altri per raggiungere uno scopo comune, invece di sfruttarli. È razionale instaurare con gli altri un rapporto di libertà reciproca, invece di dominarli. Il periodo storico in cui viviamo mostra molto chiaramente, e molto brutalmente, l’irrazionalità della violenza. La violenza contro gli esseri umani, come pure la violenza contro la natura, ci sta portando progressivamente ed inesorabilmente verso l’autodistruzione totale.
In questa prospettiva la lotta contro la violenza si presenta come un tentativo di superare certi schemi negativi di pensiero e di comportamento che hanno profonde radici nelle culture umane. Il problema da affrontare è quindi: come ottenere questo superamento? La risposta è semplice: aumentando il livello di razionalità degli esseri umani. Mi rendo perfettamente conto che una proposta formulata in questi termini ha il sapore della banalità. Educare gli esseri umani alla razionalità: che idea originale! Ma, in realtà, quando mai si è cercato veramente di farlo?
Oggi abbiamo delle scadenze che non abbiamo mai avuto nel corso della nostra storia. Non ho nessuna intenzione di idealizzare il passato. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi ininterrotto di errori ed orrori. Ma ora ci troviamo in una fase cruciale. Come specie biologica ci stiamo disintegrando. Ora può accadere da un momento all’altro qualcosa che non è mai potuto accadere prima nel corso della nostra storia. Da un momento all’altro possiamo scomparire. Si, né più né meno che scomparire. Forse la cosa in sé e per sé non è così tragica per l’universo. Ma come esseri umani non vogliamo cercare di impedirlo? La passività è intollerabile. È intollerabile l’idea che dobbiamo scomparire così, con disinvoltura, mentre siamo ottusamente immersi nella palude dei nostri stupidi miti consumistici, mentre stiamo al volante della nostra automobile, per esempio, o davanti al televisore, magari godendoci l’eccitante spettacolo dei nostri simili che muoiono di fame o si scannano in qualche regione del globo.

L’educazione contro la violenza

Non dobbiamo stupirci dell’irrazionalità dell’essere umano medio in ogni parte del mondo. In questo senso le differenze culturali sono spesso, essenzialmente, differenze di irrazionalità. Ogni cultura umana ha il suo proprio modello di irrazionalità, elaborato accuratamente ed ostinatamente in tutto il corso della sua storia.
Noi cerchiamo di educare i bambini e gli adolescenti in modo da farne degli esseri fondamentalmente irrazionali. E le nostre tecniche pedagogiche sono così efficaci che quasi sempre i nostri sforzi sono coronati da successo. Non dobbiamo stupirci, poi, che la maggioranza degli esseri umani rimanga fondamentalmente irrazionale per il resto della vita, mentre alcuni, i più intelligenti, passano buona parte della vita a liberarsi dall’irrazionalità che gli è stata ficcata in testa nell’infanzia e nell’adolescenza, in modo da essere capaci di usare bene, o almeno abbastanza bene, il proprio cervello (Robustelli e Pagani, 1996).
Noi ci preoccupiamo di costruire bene le automobili, le autostrade, i calcolatori, i missili, i satelliti artificiali, ma non ci preoccupiamo di costruire bene gli esseri umani. L’educazione contro la violenza è, dunque, un’educazione alla razionalità, un impegno concreto e responsabile a costruire esseri umani di buona qualità. La scienza ci fornisce innumerevoli indicazioni su come raggiungere questo scopo, ma esse vengono quasi sempre ignorate nella realtà.
E a questo punto occorre aprire una parentesi sulla scienza, o meglio sugli scienziati.
Chi sono esattamente gli scienziati? Nell’ambito dell’attuale divisione del lavoro dell’umanità li si potrebbe forse definire i professionisti della razionalità. Essi cercano di capire la realtà, usando la logica ed una metodologia che gli permette di verificare le ipotesi esplicative che formulano. Fanno in fondo quello che dovrebbe fare ogni essere umano in una società più matura di quella in cui viviamo, più costruttiva, più consapevole della propria condizione esistenziale.
Con questo non voglio sostenere che gli scienziati siano dei superuomini, selezionati fra i rappresentanti migliori della specie umana. No, niente del genere. Si diventa scienziati, come si diventa agricoltori, operai, artigiani, impiegati o poeti, per un concorso di circostanze che si verificano nella vita, soprattutto nella prima parte della vita, di certi individui. In molti casi queste circostanze possono riassumersi nel fatto che le loro famiglie avevano un reddito sufficiente per farli studiare all’università.
Non voglio neanche sostenere che, comunque ci siano diventati, una volta scienziati essi costituiscano la parte migliore della società. Molti scienziati si preoccupano solamente, o quasi solamente, della loro carriera, cioè del loro prestigio o del denaro o di entrambi. Sono professionisti dell’arrivismo, quindi, piuttosto che della razionalità. La ricerca scientifica è per loro solo un pretesto per cercare di emergere, di prevalere, di dominare, come succede in qualsiasi altra categoria di lavoratori in questa società basata sulle regole della competizione. Altri scienziati sono affetti da un attaccamento troppo individualistico, egocentrico, introverso, al loro lavoro. Si chiudono nelle loro stanze o nei loro laboratori, ignorando quello che succede al di fuori. Osservano al microscopio con estremo interesse l’ala di una farfalla del tutto insensibili al fatto che fuori, nella strada, un gruppo di nazisti sta pestando un ebreo. In termini scientifici si potrebbe dire che cercano di capire una realtà troppo piccola, troppo circoscritta, troppo limitata, e questo di fatto significa, sempre in termini scientifici, che non possono capire niente perché la realtà è tutta la realtà. Le inevitabili specializzazioni, per essere proficue, devono in qualche modo conservare i contatti con la realtà globale. Altrimenti si hanno scienziati mutilati, ed esseri umani mutilati, spesso molto dannosi nonostante la loro infantile e nevrotica buona fede. Ma, infine, ci sono anche gli scienziati che cercano di influire col loro lavoro sulla qualità della vita di tutta l’umanità, scienziati per cui capire la realtà significa combattere la sofferenza, migliorare i rapporti fra gli individui, realizzare tutti quei valori che, a mio parere, sono inscindibilmente legati alla razionalità, e cioè: la giustizia, la tolleranza, la solidarietà, la libertà. Quanti siano questi scienziati non saprei dire, ma senza dubbio esistono.
Questa categoria di scienziati è costantemente frustrata dal senso della propria impotenza. Lo scandalo della scienza contemporanea, o forse si dovrebbe dire la farsa della scienza contemporanea, sta proprio in questo: la si considera ufficialmente la massima espressione della razionalità umana, ma di fatto, sistematicamente e accuratamente, non si tiene conto di una parte considerevole di ciò che essa sostiene. La nostra epoca si distingue da altre epoche per l’assai maggiore patrimonio di conoscenze scientifiche e per la conseguente assai maggiore tecnologia. Ma è proprio questo che rende più assurda la nostra situazione. Noi abbiamo tante più conoscenze delle generazioni precedenti e, spesso, facciamo di tutto per non applicarle. Noi siamo capaci di andare sulla luna e tanti esseri umani muoiono ancora di fame esattamente come nel medioevo.
Questo, appunto, fa sentire alcuni scienziati impotenti ed inutili. Essi si chiedono perfino, a volte, a che possono servire ulteriori ricerche. Sappiamo già molte cose, abbiamo già molte conoscenze, ma spesso non le traduciamo in azione. In tale situazione l’unico argomento di ricerca opportuno sarebbe questo: perché non traduciamo in azione quello che già sappiamo?

Violenza e potere

Il pensiero politico ha dato varie risposte a questa domanda. Personalmente ritengo che si possa riassumere il meglio di queste risposte nel modo seguente. Nel corso della storia si sono venuti costituendo a poco a poco complessi di idee che avrebbero potuto trasformare radicalmente la condizione umana, per esempio mettendo fine alle guerre, all’ingiustizia sociale, all’ignoranza, alla miseria, ma nello stesso tempo nel corso della storia si sono venuti costituendo a poco a poco anche gruppi di potere politico ed economico che hanno avuto interesse a che queste trasformazioni non avvenissero, che hanno avuto interesse a che le varie forme della distruttività umana non venissero superate ed eliminate, e che quindi si sono sistematicamente opposti a questi complessi di idee. In tale prospettiva l’educazione alla razionalità e contro la violenza va vista come un processo liberatorio. Essa deve spazzare via tutte le proposte di modelli di vita antisociali, funzionali solo agli interessi di chi detiene il potere politico ed economico.
Se si vuole veramente educare la gente, di qualsiasi età, alla razionalità e contro la violenza bisogna eliminare dall’ambiente tutti gli agenti d’inquinamento mentale, così come, se si vuole che la gente cresca e viva sana fisicamente, bisogna eliminare dall’ambiente tutti gli agenti d’inquinamento fisico. Chi ha il potere ha spesso interesse a convincere la gente che la violenza è il solo modo di risolvere i conflitti tra gli individui, come pure tra gli stati. L’alternativa alla violenza, difatti, è in genere la discussione, cioè il confronto delle diverse opinioni, la riflessione, il ragionamento. Ma la discussione, la riflessione, il ragionamento, sono abitudini pericolose per chi detiene il potere. Se gli esseri umani imparassero a ragionare ogni sistema di potere crollerebbe. La razionalità porta inevitabilmente alla libertà.
Mi si potrebbe obiettare che i gruppi che detengono il potere non hanno alcun interesse a predicare la violenza perché questa potrebbe ritorcersi contro di loro. Ma in generale l’individuo medio non è in grado di usare la violenza contro il potere. Difatti, sapendo ragionare poco, non è in grado di individuare le vere fonti del potere. E poi, soprattutto, per eliminare i gruppi di potere che dominano una società occorre una ribellione collettiva, che presuppone la solidarietà fra gli oppressi, solidarietà molto difficile da ottenere se la mentalità degli oppressi è stata abilmente manipolata dai gruppi che detengono il potere con l’imposizione di modelli antisociali di rapporti interpersonali.
I sistemi di potere vanno sostituiti da comunità veramente democratiche e questo si può ottenere solo costruendo esseri umani che sappiano usare bene il proprio cervello, maturi, responsabili, capaci di partecipare concretamente alla cosa pubblica e capaci di difendere i propri diritti e la propria libertà contro tutti e contro tutto, se necessario anche con la violenza. Perché questo deve essere ben chiaro: l’educazione contro la violenza non deve in nessun caso essere castrazione degli oppressi, rinuncia alle giuste ribellioni. Cioè, non deve esserci un uso ideologico dell’educazione contro la violenza, ciò che è già avvenuto nel corso della storia umana. A volte, infatti, indubbiamente il modello della non violenza, se utilizzato adeguatamente, può essere altrettanto utile per chi detiene il potere quanto il modello della violenza. Questo, come ho già detto, impedisce la solidarietà fra gli oppressi. Il modello della non violenza, nella sua versione che potremmo definire dogmatica, cioè tale da favorire un’accettazione passiva del modello stesso senza le implicazioni che riguardano lo sviluppo della razionalità, impedisce comunque la ribellione contro il potere, nei casi appunto in cui questa ribellione può essere attuata solo con la violenza.
Un programma di educazione contro la violenza deve basarsi su un confronto sistematico fra la razionalità scientifica e il potere politico ed economico. Sulla carta sembrerebbe inevitabile la sconfitta della razionalità scientifica. Ma se un numero sufficiente di scienziati in tutto il mondo si unisse e si mobilitasse, forse questa sconfitta potrebbe non essere così scontata.
La situazione mondiale sta peggiorando rapidamente di giorno in giorno. Guerre, massacri, terrorismo, miseria, razzismo, disoccupazione, degrado ambientale: queste sono le strutture portanti delle attuali società umane. Non aspettiamo passivamente che accada qualcosa di irreparabile. Non aspettiamo che gli storici del futuro dicano della nostra epoca che c’erano innumerevoli segni chiari ed evidenti di ciò che stava per succedere e che noi siamo stati così miopi da non vederli. D’altronde credo che, se continueremo ad essere miopi, non ci saranno storici del futuro...

Violenza, razionalità, libertà ed educazione

La situazione generale dell’umanità potrà essere veramente cambiata solo con un intervento radicale, che non può che essere un intervento educativo nel senso più profondo del termine. Bisogna tentare di sradicare alla base tutte le tendenze irrazionali e distruttive che le attuali società umane alimentano copiosamente negli esseri umani fin dai primi anni di vita.
Dobbiamo renderci conto che, attualmente, lo sviluppo mentale dell’essere umano medio non viene plasmato che in piccola parte dalla scienza, dalla filosofia, dall’arte, non viene plasmato che in piccola parte dagli individui che hanno dato in passato e danno tuttora un contributo costruttivo alla civiltà umana. Lo sviluppo mentale dell’essere umano medio è plasmato fondamentalmente dall’ideologia del consumismo e dall’indottrinamento politico e religioso (che è in fondo una forma di indottrinamento politico) e il risultato è, in generale, un essere umano che lavora (quando ha un lavoro), consuma, cerca spesso di calpestare il prossimo e soprattutto pensa entro limiti assai ristretti, in modo appena abbozzato e in ogni caso estremamente ridotto rispetto alle sue reali possibilità. La civiltà nel senso più alto è un’eredità presente solo in una irrilevante minoranza di individui. È così da millenni. All’essere umano medio viene trasmesso, di generazione in generazione, solo un piccolo quantitativo di civiltà, il cui effetto è in buona parte annullato dall’enorme diluizione con il liquido del conformismo, della passività, dell’evasione, della deresponsabilizzazione. La trasmissione della civiltà umana di generazione in generazione, cioè, è un mito, o meglio un imbroglio. La maggior parte degli esseri umani non ha mai letto Dante o Shakespeare, Dostoyevskiy o Kafka, Omar Kayyàm o Lu-Hsün, non ha mai sentito la musica di Mozart o di Monteverdi, non ha mai visto un quadro di Van Gogh o di Leonardo, non sa nulla del pensiero filosofico e della scienza conosce solo gli aspetti più banali. La maggior parte degli esseri umani è costituita da individui incompleti, da aborti che non sono mai riusciti a svilupparsi. Avrebbero potuto essere querce e, invece, non sono altro che bonsai.
Il giovane essere umano medio è il protagonista di una tragedia in un contesto sociale che non è altro che la fabbrica della stupidità. Nella nostra società occidentale, per esempio, egli impara a due anni a credere alle fate e agli orchi. A quattro anni impara ad accendere il televisore. Quindi, in una società ancora fondamentalmente maschilista come la nostra, è soprattutto l’esemplare di sesso maschile a percorrere alcune tappe tipiche. A sette anni impara a giocare a calcio o a baseball. A quattordici anni è pronto a vendersi l’anima per un motorino. A diciotto anni è pronto a vendersi l’anima per un’automobile. E a questo punto, più o meno, il sacrificio è consumato, l’imbecille è completo. Per il resto della vita potrà solo arricchire la sua imbecillità. Farà un lavoro da imbecille (3) (anche lei, cioè l’esemplare di sesso femminile). Si sposerà (anche lei) e metterà al mondo altri futuri imbecilli come lui (come lei). Farà la guerra (lui di solito), ammazzando gli altri e facendosi ammazzare, pensando di difendere la patria, la libertà e soprattutto la pace.
Quando penso ai bambini penso ai “Prigioni” di Michelangelo. Forme stupende che stanno per liberarsi dal marmo. Purtroppo i bambini sono scolpiti non da Michelangelo ma dalla società. Invece delle forme stupende che potrebbero uscir fuori dalla materia amorfa la società produce miserabili aborti infarciti di stupidità. Sempre più spesso mi chiedo che cosa potrebbe diventare un essere umano in condizioni diverse, e soprattutto che cosa potrebbe diventare l’umanità.
E questi aborti, naturalmente, sono spesso violenti perché il complesso macchinario che li ha prodotti è programmato per produrre violenza. Abbiamo già visto a chi giova la violenza.
Dobbiamo realisticamente renderci conto che ciò che caratterizza una società non è mai casuale. Soprattutto i fenomeni sociali più importanti sono l’espressione di bisogni, di interessi, di volontà ben definiti, spesso invisibili o mascherati per l’individuo medio, ma sempre operanti in modo sistematico e inesorabile. Se la violenza è il contrario della cooperazione e se la cooperazione è un modo razionale, costruttivo, utile, di regolare i rapporti umani, allora vuol dire che deve esserci qualcosa nelle società umane che non vuole che gli individui cooperino fra di loro, che non vuole che i loro rapporti siano regolati in modo razionale, costruttivo, utile (utile per tutti, naturalmente), qualcosa che ha bisogno del disaccordo degli individui, della loro ostilità reciproca, della loro divisione, per conservarsi, per sopravvivere. Divide et impera. Questo qualcosa, l’ho già detto, è evidentemente il potere, in tutte le sue forme, il vertice marcio di tutte le marce piramidi sociali, il fiore venefico che prospera sul letamaio della disuguaglianza, dell’ingiustizia, dell’ignoranza, dell’oppressione, dello sfruttamento.
Il millenario conflitto che, in forme più o meno indirette e più o meno manifeste, caratterizza buona parte della storia umana, è fra un tipo di società strutturata secondo rapporti di potere, in cui chi detiene il potere pensa prevalentemente ai propri interessi, e un tipo di società composta da individui liberi, maturi, responsabili, che si organizzano secondo criteri che essi stessi scelgono e che sono utili per tutti. In questa prospettiva le democrazie storiche non sono altro che abili tentativi di perpetuare il primo tipo di società dando l’impressione che si tratti del secondo tipo.
Solo individui liberi, maturi, responsabili, possono costruire una società senza rapporti di potere. Il problema naturalmente è: come formare individui liberi, maturi, responsabili, in una società in cui il potere condiziona inesorabilmente tutto il processo di formazione dell’individuo? Nessuna concezione politica, finora, ha saputo risolvere questo problema.
Il condizionamento sociale impone schemi culturali che influenzano i processi di socializzazione e lo sviluppo della personalità. Il condizionamento sociale abitua gli individui a seguire certe strade ed essi spesso le percorrono senza spirito critico, senza chiedersi chi le ha tracciate e perché, e dove portano. Le percorrono passivamente come treni sulle rotaie.
Il condizionamento sociale è pesante con gli adulti. Con i bambini, per ovvie ragioni, è pesantissimo, quasi senza possibilità di salvezza. I sentieri che vengono percorsi sistematicamente fin dalla prima infanzia si scavano profondamente nel terreno, diventano col tempo fossati con pareti sempre più alte dai quali è sempre più difficile uscire.
Bisogna affermare fino in fondo il principio che i bambini non sono una proprietà di nessuno (né dei loro genitori, né degli stati, né delle chiese, né dei gruppi industriali e commerciali) ma esseri umani che fin dalla loro nascita hanno certi diritti di cui nessuno può privarli. E il loro primo diritto è quello di ricevere un’educazione che sviluppi al massimo la loro razionalità. Niente precoci indottrinamenti politici o religiosi, quindi, che creino nei loro cervelli schemi rigidi che non potranno in seguito non condizionare l’elaborazione cognitiva della maggior parte dei loro rapporti con la realtà. I dogmatismi politici e religiosi sono agenti fortemente patogeni per lo sviluppo della razionalità. E, naturalmente, niente precoci indottrinamenti commerciali tesi solo ad ottenere meschini, ottusi, disumani, consumatori ideali. Ad ogni bambino, insomma, deve assolutamente essere garantita la libertà di imparare a pensare. Tutto il resto viene di conseguenza.

La responsabilità degli scienziati

E, per concludere, torniamo a quello che ho prima definito lo scandalo, o la farsa, della scienza contemporanea. La scienza continua ad accumulare risultati che non vengono utilizzati. Per esempio, è stato dimostrato che i gas di scarico delle automobili nuocciono alla salute ed è stata spiegata la dinamica dell’induzione dei bisogni da parte della pubblicità commerciale. Ma a che è servito? L’aria delle città continua ad essere inquinata e la gente continua ad essere in balìa dei bisogni indotti dalla pubblicità commerciale. L’industria deve vendere i suoi prodotti e gli esseri umani vengono allevati in modo da sentire prima che sia possibile e con la massima intensità possibile il bisogno di questi prodotti.
C’è qualche psicologo nel mondo che pensi che l’esposizione quotidiana di un bambino ad ore di stupidi spot pubblicitari televisivi possa facilitare il suo sviluppo intellettuale? C’è qualche psicologo nel mondo che pensi che l’esposizione quotidiana di un bambino ai pugni, ai calci, agli spari, al sangue, alla prepotenza, al sadismo di tanti film possa facilitare lo sviluppo della sua tendenza alla cooperazione, alla solidarietà, alla comprensione, alla tolleranza? Eppure i bambini dei paesi industrializzati continuano a passare molte ore ogni giorno davanti al televisore nutrendosi di stupidità e di violenza. A che sono servite tante ricerche, tanti risultati? Viene sistematicamente neutralizzato quasi tutto il potenziale di trasformazione sociale che è implicito in ogni aumento delle conoscenze.
Se vogliamo che la razionalità scientifica possa efficacemente svolgere la sua funzione nella società dobbiamo come scienziati cercare di superare la nostra tradizionale astrattezza, la nostra tradizionale inconcludenza. Dobbiamo fare in modo che le nostre proposte non rimangano limitate alle situazioni accademiche, cioè ai congressi, alle riviste specializzate, alle conferenze e ai seminari nelle università. Dobbiamo mettere al centro della nostra attività un impegno politico concreto, realistico, deciso. Dobbiamo renderci conto che l’analisi scientifica deve compenetrarsi con l’analisi politica o meglio che il momento politico dell’analisi deve costituire un nucleo centrale di aggregazione di vari tipi di analisi scientifica, di volta in volta individuabili sulla base delle caratteristiche dello specifico problema che si intende affrontare.
Credo che andrebbe promosso un movimento internazionale di mobilitazione di tutti gli scienziati che siano disposti a mettere le loro conoscenze e la loro esperienza al servizio di un tipo di intervento che potrebbe dare un contributo determinante alla soluzione di molti fondamentali problemi delle attuali società umane. Questo intervento deve consistere, come ho già detto, in un sistematico confronto fra il potere e la razionalità scientifica. Bisogna trovare il modo di istituzionalizzare il trasferimento delle conoscenze scientifiche nella realtà sociale, soprattutto nel campo dell’educazione.
Non pretendo che questa sia un’idea rivoluzionaria. Non pretendo, naturalmente, che in questo modo si possano radicalmente cambiare le società umane. Ma, nella situazione tragica in cui ci troviamo, dobbiamo tentare di utilizzare tutti gli spazi disponibili. E questo è uno degli spazi disponibili. In questa direzione si possono forse fare dei passi avanti.
L’irrazionalità del potere lo condanna inesorabilmente a porre le sue radici su un terreno di contraddizioni. Su queste contraddizioni si può fare leva per tentare di trasformare le strutture sociali.
D’altronde gli scienziati non sono soli. Possono contare sulla collaborazione di una parte dell’umanità che è certamente minoritaria ma che altrettanto certamente è la parte migliore. La fabbrica della stupidità non è infallibile. Di tanto in tanto la catena di montaggio non funziona e il prodotto finale è fornito di una mente libera che non era assolutamente prevista nel piano di produzione. Lo sviluppo della personalità umana è il processo più complesso che conosciamo e il condizionamento sociale, per quanto preciso, rigoroso, spietato, non riesce sempre a controllare tutti gli elementi di questo processo. Nel mondo ci sono anche esseri umani ben riusciti, che in qualche modo si sono sottratti alle pressioni fondamentali del condizionamento sociale. Di solito vagano come ombre in un mondo che sentono estraneo ma che è comunque il loro mondo ed essi saranno ben lieti di mobilitarsi per salvarlo dalla catastrofe e per viverci senza sentirsi alienati. Inoltre, per quanto scarse siano le capacità cognitive dell’essere umano medio c’è spesso in lui un qualche elemento positivo, negli strati profondi della sua personalità, su cui si può intervenire per cercare di dare l’avvio ad un processo, inevitabilmente lento e faticoso, che in alcuni casi porta ad un superamento, almeno parziale, della sua stupidità. Qualche volta si può persino verificare un miracolo. Per quanto negativo sia il punto di partenza, a qualsiasi età, un essere umano può trasformarsi in qualcosa di diverso da quello che era, se riceve le stimolazioni adatte.

Educazione e politica

Non dobbiamo, quindi, dimenticare che il processo educativo non si svolge nel vuoto. Esso si svolge all’interno della trama concreta di tutti i rapporti sociali e politici che caratterizzano la vita delle società umane. Non possiamo parlare di educazione se non nel contesto più vasto di tutti questi rapporti.
L’educazione contro la violenza non deve essere considerata un compito isolato nell’ambito di organizzazioni sociali che di fatto la ignorano. Per questo non ci si può limitare ad interventi di tipo psicoterapeutico, soprattutto quando si tratta di violenza giovanile. Degli interventi di tipo psicoterapeutico può beneficiare solo un numero ristretto di soggetti che peraltro, qualunque sia il risultato di questi interventi, continuano a vivere in un ambiente sociale immutato, lo stesso che ha prodotto la loro violenza e che presumibilmente ha buone possibilità di riprodurla. Non si può per l’eternità intervenire su una percentuale minima dei soggetti violenti che l’ambiente sociale sistematicamente produce. È una battaglia persa in partenza. Bisogna cambiare le basi dell’ambiente sociale, adottando quindi soluzioni politiche e non psicoterapeutiche.
Insomma, l’educazione contro la violenza può essere efficace solo se si esplica all’interno di una situazione sociale generale dinamica che si muova tutta intera nella direzione di una socialità che si basi su rapporti umani non violenti. Il circoscrivere in qualsiasi modo l’educazione contro la violenza, facendone un’attività isolata e lasciando tutto il resto intatto, è un ottimo sistema per neutralizzarne l’efficacia.
La violenza, e la violenza giovanile in particolare, non è una malattia. È la logica conseguenza, la conseguenza più probabile, dell’ambiente culturale in cui la gente vive e cresce. O, se proprio in ogni caso la si vuole considerare una malattia, è l’ambiente culturale che ininterrottamente produce i germi patogeni di questa malattia. Questa tesi è tutt’altro che nuova. Anzi, è tanto vecchia ed è stata riproposta tante volte che è diventata una specie di ossessione. Rimane il fatto che l’umanità continua a non muoversi nella direzione suggerita da questa tesi.
Ci piacciano o meno le ossessioni, quindi, dobbiamo avere ben chiaro questo punto: un processo educativo concreto implica la modificazione del contesto sociale in cui gli individui vivono e sono educati. In questa prospettiva l’educazione è indissolubilmente legata all’azione politica intesa nel senso più vasto e più profondo.

Francesco Robustelli

Bibliografia
Adams, D. (ed.) (1991). The Seville Statement on Violence. Paris: UNESCO.
Hinde, R.A. (1959). Behaviour and speciation in birds and lower vertebrates. Biological Review, 34, 85-128.
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Note
1. Ho anche realizzato con alcuni collaboratori un sito web per illustrare un progetto di ricerca e di formazione, di cui sono il responsabile, sull’educazione contro la violenza secondo gli orientamenti della “Dichiarazione di Siviglia”. L’indirizzo del sito è: http://wwwistc.ip.rm.cnr.it/seville.
2. Le townships sono agglomerati urbani dove vive una parte della popolazione negra sudafricana, spesso in condizioni di miseria difficilmente immaginabili.
3. Con l’attuale divisione del lavoro quasi tutti i lavori sono alienanti.

 

Francesco Robustelli è Incaricato di Ricerca presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR. È Libero Docente in Psicologia. È stato Research Associate presso l’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York, docente di Psicologia comparata presso l’Università “La Sapienza” di Roma e Dirigente di Ricerca presso l’Istituto di Psicologia del CNR. Ha condotto ricerche nel campo della psicologia comparata, della memoria, dell’apprendimento, dei rapporti fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, degli atteggiamenti nei riguardi della morte, del disagio psicologico dei pazienti nel servizio sanitario pubblico e dell’aggressività. È il rappresentante per l’Italia di una rete internazionale dell’UNESCO per l’educazione contro la violenza.