Rivista Anarchica Online


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

Tra feuilleton e pregiudizi

Per rendersi conto di come l’anarchismo e il movimento anarchico venissero percepiti a livello popolare, nei loro primi anni di vita, può risultare utile, a volte passare anche attraverso la chiave di lettura del romanzo d’appendice, un genere letterario che, sul finire dell’ottocento, ebbe straordinaria fortuna editoriale.
Spesso infatti il feuilleton, una sorta di vero e proprio strumento educativo di massa, era efficacemente in grado di prestare attenzione, pur sotto i panni della narrazione di fantasia, alle tematiche sociali del momento. E pertanto non raramente ci si poteva imbattere in storie tenebrose e a forti tinte che, per eccitare l’immaginazione del lettore, trovavano il proprio soggetto in fatti e personaggi legati alle attività della «setta» anarchica di cui parlavano.
Maestra riconosciuta di questo genere fu la celeberrima Carolina Invernizio, piemontese di nascita e di formazione (Voghera 1858 – Cuneo 1916), che durante la propria prolifica e fortunatissima carriera giunse a scrivere oltre cento romanzi d’appendice, fra cui gli «immortali» Il bacio di una morta e La vendetta di una pazza. Non poteva mancare, in tanta abbondanza, anche un volume sul movimento anarchico, e infatti fra i numerosi titoli brilla quello, estremamente promettente, de Il figlio dell’anarchico. Scritto sicuramente nell’ultimo scorcio dell’ottocento (l’edizione in mio possesso è una ristampa del 1931 e non ho trovato quella originale, ma sono sicuro di escludere che Umberto I fosse già stato ucciso da Bresci), questo romanzone di quattrocento pagine ci permette di comprendere quali e quanti fossero i pregiudizi (e i giudizi) che circondavano l’anarchismo dell’epoca, e come, soprattutto, se ne combattessero le pericolosissime idee di trasformazione sociale, violenta e risolutrice, contrastandone non tanto i postulati di redenzione sociale (comuni anche al socialismo e in un certo senso fatti propri dalla stessa Invernizio), bensì i mezzi violenti, rozzi e «sanguinari» con i quali si identificava la sua attività.
La letteratura dell’ottocento è stata definita come una letteratura «tutta legata al processo dell’affermarsi della borghesia», e in effetti anche nell’Invernizio ritroviamo per intero i capisaldi teorici di quella classe. Consapevole della propria funzione educatrice, l’autrice è molto attenta a presentare tali postulati non solo nel loro aspetto funzionale al processo di accumulazione capitalista in atto (quindi profitto, creazione di ricchezza, legittimità dello sfruttamento del lavoro salariato, ecc.) ma anche nella veste di valori «altri», moralmente nobili ed apparentemente estranei all’egoismo borghese.
Ed ecco allora il problema di una maggiore giustizia sociale che attenui le tensioni esistenti, ecco il rifiuto delle vecchie pratiche filantropiche della nobiltà, ecco la necessità di fornire ai «poveri» non la solita carità, ma l’opportunità di vendere la propria forza lavoro al buon capitalista. In poche parole, il processo di formazione del proletariato moderno, in una commovente comunità di intenti fra datori di lavoro e prestatori d’opera. In questa logica di compromesso sociale (non a caso lettrici e lettori dell’Invernizio non sono solo le buone dame e le signorine della nascente borghesia, ma anche, e soprattutto, sartine, lavandaie, fantesche, portinaie, operaie e marmittoni) il nemico da combattere e neutralizzare è chi si oppone a questo riformistico patto di pacificazione fra sfruttati e sfruttatori e combatte il capitale sul terreno rivoluzionario ed espropriatore.

Valdengo, poi Godenval

Per comprendere meglio, credo sia necessario fornire una succinta trama (per quanto possibile in un racconto pieno di colpi di scena) de Il figlio dell’anarchico.
Roberto, legittimo figlio primogenito del marchese di Valdengo ma osteggiato dal padre per essere nato da una misera contadina (sposata dal marchese non si sa perché) emigra in America dove, in odio alle umiliazioni subite e sotto l’influenza dei fratelli della madre, si associa alla «setta» anarchica. Operaio tessile a Paterson (ove svolge segretamente la sua terribile e misteriosa propaganda) sposa Floriana, la figlia del proprietario della fabbrica, alla quale nasconderà la sua appartenenza alla setta.
Durante il viaggio di nozze in Italia Roberto comincia a pentirsi e si confessa a Floriana, la quale, terrorizzata dall’avere un anarchico per marito (anarchico e assassino sono pressoché sinonimi), minaccia di denunciarlo. In un provvidenziale disastro ferroviario viene creduto morto e Floriana, in stato di vedovanza, diventa marchesa di Valdengo. Accolta dai fratelli del marito, Bice e Paolo, benvoluti e ricchi figli di secondo letto del defunto marchese, dà alla luce Ruggero. Viene allora assunta come governante l’inglese Berta (che altri non è che Roberto travestito) che resterà in casa Valdengo per vari motivi: la gelosia e l’amore per Floriana, l’affetto per l’innocente «figlio dell’anarchico» Ruggero, il desiderio di riprendersi misteriosissime carte che, se scoperte, decreterebbero la fine della setta. Tali carte furono infatti raccolte da Floriana dopo l’incidente ferroviario e ora, per rispetto della memoria del marito e per paura del loro contenuto, le custodisce senza chiedersi cosa nascondano (del resto nessuno, per tutto il racconto, saprà mai che diabolico complotto queste benedette carte celassero mai). Al tempo stesso Roberto è ricercato dai feroci e sanguinari ex compagni che lo accusano di aver tradito la causa e, in un susseguirsi di minacce e colpi di scena, ritrova a Torino una ex amante di Paterson, la volgare e malvagia Tamira, e il tremendo Gildo, abominevole e pericolosissimo anarchico disposto a tutto.
Per sbarazzarsi dei loro ricatti, e anche del suo passato, senza ombra di rimorso li denuncia alla polizia. Finalmente, poi, in casa di Floriana e alla presenza del fratello Paolo, avviene il riconoscimento. Roberto, confessata la colpa di essere stato anarchico e rinnegando il proprio feroce (?) passato (essendo lui il protagonista, non gli viene comunque addebitato alcun delitto specifico), decide di abbandonare Floriana per liberarla della sua presenza. Ma Tamira, quella notte stessa, aggredisce alle spalle la marchesa per rapire, senza riuscirvi, il piccolo Ruggero; e di questo sarà incolpato l’innocente Roberto che si rifugia da Anselmo, un ex anarchico che è impazzito dopo aver perso la famiglia e che ora vive come un eremita. Anselmo, nella sua follia, non trovando altro modo per farlo, ha deciso di raggiungere i suoi cari facendosi saltare in aria e Roberto approfitta della tremenda esplosione della casa per farsi credere morto e scomparire.
Floriana, vedova una seconda volta dello stesso marito, sposa Paolo. Ruggero, conscio di essere «il figlio dell’anarchico», espia le colpe del padre, ma anche ne sublima gli ideali, diventando il nobilissimo medico dei poveri, un vero e proprio apostolo. In ciò affiancato dal misterioso scienziato tedesco Godenval e dalla di lui figlia Fede. Fidanzatosi alla cugina Lalà, ma vedendone l’aristocratica incapacità di comprendere la nobiltà della sua missione, rompe il fidanzamento, e in più si innamora di Fede. Al tempo stesso salva dalla morte per fame e miseria la bella Daniela e relativa, numerosa famiglia, gente onesta buttata sul lastrico dalla malvagità del caporeparto (mai che la colpa sia del padrone, sono sempre i colleghi o i superiori a fare i prepotenti!).
Ovviamente Daniela si innamora di Ruggero, ma poi, compresa l’impossibilità del proprio amore, ripiega sul suo assistente dottor Jacopo, in fin dei conti altrettanto generoso ed onesto anche se non altrettanto bello e ricco e soprattutto non «figlio dell’anarchico». Daniela, casualmente, viene a conoscenza di un complotto di Gildo, vero mostro di malvagità ed abiezione e pervicace nel suo odio contro i ricchi, il quale, pur essendo stato beneficato da Ruggero, vuole ucciderlo per vendicarsi del tradimento del padre. Daniela informa Godenval, che si reca all’appuntamento mortale al posto di Ruggero. Si fa riconoscere da Gildo come Roberto di Valdengo e, dopo un drammatico colloquio, nel corso del quale giustifica il proprio antico tradimento come atto riparatore della propria passata malvagità, si ha uno scambio di colpi. Gildo muore e Godenval è gravemente ferito. In punto di morte fa promettere a Ruggero che sposerà Fede e gli rivela la vera storia della ragazza.
Fede è sua figlia adottiva, perché in realtà anch’essa è figlia di un anarchico redento, che in Francia ha ucciso il capofficina che gli insidiava la bellissima moglie Leni; avendo mantenuto il segreto del vero motivo della sua aggressione per salvaguardare l’onore della moglie, al processo non gode di nessuna attenuante, e viene così mandato alla ghigliottina come feroce anarchico. Poi lo scienziato consegna a Ruggero un diario nel quale rivela la sua storia, di come lui sia in realtà Roberto marchese di Val-den-go e non Go-den-val, e di come si sia purificato dal proprio anarchismo soccorrendo i poveri e rifugiandosi nella fede. Immancabile il lieto fine con Ruggero che non partecipa a nessuno il tremendo segreto di cui è depositario, e sposa, in perfetta letizia, la perfetta Fede. I figli degli anarchici possono così, metaforicamente, iniziare una nuova vita dopo la tragica espiazione dei padri.

Quelli “buoni” e quelli “cattivi”

Il ritratto in piedi contenuto in questo romanzo? Non vedo un singolo ritratto, non trovo un personaggio la cui biografia possa richiamare la fantasiosa figura del protagonista. Anche se, indubbiamente, l’Invernizio, con tutta l’abilità del suo mestiere, ha descritto un tipo di anarchico quale veniva effettivamente percepito da un certo sentire, comune a larghi strati della società dell’epoca, pur tuttavia risalta troppo la strumentalità delle sue intenzioni, per accettare una plausibile identificazione con una figura reale. Piuttosto, a mo’ di «riparazione», vedo un ritratto collettivo, un ritratto degli anarchici, di tutti gli anarchici italiani dell’epoca. Di quelli «buoni» e di quelli «cattivi», degli espropriatori e degli umanitari, degli organizzatori e degli individualisti, degli irregolari ai margini di una società che li respinge e degli associati nelle organizzazioni dei lavoratori, degli anarchici coatti alle isole e di quelli rimasti nelle fabbriche e nelle officine artigiane, degli anarchici costretti a portare la loro miseria oltreoceano e di quanti ancora la soffrono nelle cittadine del centro Italia, degli anarchici col cuore «pieno di fiele» per le persecuzioni subite e degli anarchici il cui primo sentimento resta l’amore per l’umanità, degli anarchici che danno la vita nell’estremo gesto riparatore e degli anarchici che resistono nel fuoco della repressione.

Massimo Ortalli

Uno dei capi
del partito anarchico

di Carolina Invernizio

(…) Quindi proseguì:
– Mia madre è morta quando compivo i sette anni e mi ricordo che le sue ultime parole furono: “Vendicami di tutti questi nobili e ricchi che ci hanno calpestati, che ci disprezzano: vendica te stesso.” Allora ero troppo piccino per comprendere il significato di quelle parole; ma più tardi risonarono sinistramente nel mio cervello, ebbero un’eco nel mio cuore. E mi sono vendicato! –
Roberto si tacque, come affranto.
Il treno si era fermato in quel momento a Finalmarina, ed era subito ripartito.
Floriana guardava suo marito con una specie di ansia, aveva indietreggiato alquanto.
– Hai commesso qualche delitto? – domandò.
– No; – rispose Roberto divenendo ancora più pallido, ma con accento forte, risoluto, alzando fieramente la testa – però appartengo ad una società che vuole la distruzione, la morte di tutti i ricchi, i potenti: sono uno dei capi del partito anarchico…
Floriana gettò un grido di spavento, ebbe un gesto disperato.
– Tu? Tu? – gridò.
– Sì, io, io! Ecco ciò che ti ho nascosto e che ora ti rivelo. Floriana, mia Floriana, vorrai tu respingermi per questo? Ah! Tu non sai le lotte che ho dovuto sostenere nella prima giovinezza contro il babbo, che mi aveva rinnegato oltraggiando la memoria di mia madre; mi aveva respinto come un appestato da quella società in cui pure avevo diritto di entrare e mi considerava come un intruso, un ribelle. Tu non puoi immaginare ciò che ho sofferto, allorché mio padre, passato a seconde nozze con una giovane nobile e ricca, mi scacciò di casa come un bastardo, sebbene portassi il suo nome e fossi il suo erede. E quando, lui morto, mi presentai per avere la parte che mi spettava, trovai che egli aveva disposto delle sue sostanze in modo da non lasciarmene che una piccolissima parte, alla quale rinunziai, maledicendo colui che non aveva saputo perdonarmi di essere nato da una povera contadina, ch’egli stesso si era compiaciuto di sedurre. Da quel momento presi in odio i ricchi e i potenti: divenni anarchico. –
– Ed io fui pure uno strumento delle tue vili vendette, io che appartengo alla società ricca che tu odii? – esclamò Floriana col volto animato da un’energia sublime, da una grande esaltazione.
– No, Floriana, no; quando mi incontrai in te, non pensai che ad amarti, come ti amo sempre.
– Basta, – interruppe con un gesto di disprezzo e quasi di sfida Floriana – basta; ogni tua parola d’amore sarebbe adesso una ingiuria per me. Ti avrei perdonato se tu avessi commesso un delitto per difendere l’onore di tua madre e il tuo, ma non posso perdonarti d’avermi fatta la compagna di…un vile assassino!

 

Con profonda
venerazione
di Carolina Invernizio

I fratelli di sua madre erano due operai rozzi, energici, esaltati, che non potevano perdonare al marchese l’umiliazione loro fatta subire, la morte della povera sorella.
Essi si erano impiegati in una conceria a Nuova York, ma conducevano una vita assai meschina, dovendo mantenere il vecchio padre, ormai impotente al lavoro.
Non pertanto accolsero il nipote con amorevolezza, né volevano accettare da lui il biglietto da mille franchi, che Roberto aveva creduto bene di offrir loro.
È denaro di quell’assassino di tuo padre – dissero con aria feroce in un terribile accesso d’odio e di diffidenza.
– No, rassicuratevi; – rispose Roberto – nulla di quanto ho indosso appartiene a mio padre. Questo denaro mi venne lasciato dallo Stregone, il solo amico che io abbia avuto fin qui.
E parlò di lui con profonda venerazione.
Roberto avrebbe voluto entrare egli pure come lavorante nella fabbrica degli zii, ma essi non acconsentirono.
– Tu sei troppo istruito per diventare un conciatore; continua a studiare; fra due anni, finiti i nostri primi impegni, noi ci recheremo a Paterson, in un’altra grandiosa fabbrica, che stanno impiantando, di prodotti chimici: noi siamo già fra gli operai inscritti, ed allora potrai metterti con noi; ma ad un patto.
– Qualunque sia, io l’accetto.
– Tu non sarai più qui l’erede del marchese Valdengo: sputerai sul nome di tuo padre e porterai il nostro, che è pur quello della tua povera mamma.
– Accetto volentieri. –
Ed infatti egli andò a Paterson, inscritto sotto il nome di Roverto Cavalero, ma finirono col chiamarlo tutti il Biondino, perché aveva i capelli color dell’oro ed era bianco e gentile come una fanciulla.
Gli zii di Roberto erano ascritti al partito anarchico ed essi istruirono per i primi il nipote, e cercarono di radicare in lui l’odio contro i ricchi ed i potenti.
– Vedi come ci trattano noi poveri diavoli, – dicevano – e non vuoi che abbiamo a prenderci una rivincita su loro? Vedrai, vedrai… un giorno, tutti questi potenti, questi tiranni spariranno dal mondo; per essi ci vuole il ferro, il piombo, la dinamite, e un giorno saremo noi che prenderemo il loro posto; noi che regneremo, e la povera plebe starà meglio d’ora, non avrà da emigrare fuori d’Italia per trovarsi un pane.
Quei due contadini erano due poveri esaltati, che vedevano solo nella distruzione il mezzo di conquistare i loro diritti, il loro posto nel mondo.
Non pensavano che colla violenza non si giunge mai a nulla, e tutto ricade a proprio danno; non comprendevano che la prima sorgente della rigenerazione di un popolo è l’onestà ed il lavoro! Non sapevano che coloro i quali giungono alla mèta coi raggiri, con la disonestà o con i delitti, sono i primi ad essere detestati e maledetti da tutti, e il loro potere presto s’infrange e non rimane di essi che una memoria esecrata!

 

Quella povera gente
di Carolina Invernizio

Il Biondo aveva viaggiato molto per la sua propaganda; ma egli aveva un aspetto così nobile e gentile, sapeva così affascinare che nessuno sospettava di lui; gli operai che lo conoscevano, e appartenevano allo stesso partito, si sarebbero guardati bene dal dimostrarlo. Quando passava fra loro visitando una fabbrica, discorrendo coi capi, gli bastava uno sguardo di quei suoi occhi luminosi od una parola per farsi intendere.
Al ritorno a Paterson da uno dei suoi viaggi, trovò che gli era morto il nonno ed uno degli zii, e che la sua compagna Tamira aveva abbandonata la sua casa, il partito, del quale era stata affiliata ardente e pericolosa, per fuggire col clown di una Compagnia equestre, lasciando una lettera in cui minacciava di denunziar tutti se l’avessero seguita o perseguitata.
Sebbene Roberto non l’amasse, quel tradimento lo colpì più crudelmente della morte dei suoi, e mostrò in quell’occasione maggior forza d’animo, che si poteva supporre, e che molti scambiarono per indifferenza.
Egli diede freddamente degli ordini perché Tamira venisse ricercata, e punita in modo da servire d’esempio alle altre compagne degli anarchici. Roberto si sarebbe incaricato egli stesso di quell’esecuzione, se non avesse avuto in quel momento da occuparsi di ben più gravi incarichi.
Nessuno ebbe il minimo dubbio che egli fosse tormentato da un gran dolore: i suoi occhi rimasero asciutti: nessuna parola amara gli uscì dalle labbra.
Tamira non venne ritrovata.
Il clown col quale era fuggita non faceva più parte di quella Compagnia equestre: nessuno seppe dare contezza di lei.
La misteriosa scomparsa mise il partito in grande agitazione. Tamira conosceva molti segreti del biondo, e poteva riuscire pericolosa a lui ed ad altri affiliati.
Era certo, che se avessero potuto trovarla, non sarebbe uscita viva dalle loro mani.
Trascorse un anno. Siccome nulla era avvenuto di nuovo, finirono per dimenticare la traditrice o almeno attesero con pazienza l’istante di poterne trarre vendetta.
Il biondo era stato incaricato di un’importantissima e delicata missione per l‘Italia; egli portava seco la trama di un complotto che doveva scoppiare al momento opportuno.
Ma prima d’imbarcarsi per l’Italia doveva passare da Nuova York per intendersi con diversi capi del partito operaio, dove voleva fare nuovi proseliti.
Tutta quella povera gente che dal lavoro ritraeva appena il mezzo per vivere si abbandonava con ardore alle nuove teorie, che promettevano loro un intiero rivolgimento della società, il trionfo del povero sul ricco ed il potente.
Essi non avevano forse neppure coscienza di ciò che volesse esprimere la parola “anarchia”, molti erano tuttavia bravi operai, onesti padri di famiglia, ma la speranza di un avvenire migliore, in cui essi sarebbero divenuti padroni, li inebbriava.

 

Gildo batté gli occhi
di Carolina Invernizio

Gildo batté gli occhi, e sogghignò:
Perché allora – rispose con voce sibilante, beffarda – ha abbandonata la nostra giusta causa, è fuggito portando seco valori e carte compromettenti, carte che gli servirono per tradire i suoi compagni, fra i quali c’ero anch’io? – Un subito pallore coperse il volto di Ruggero, ma il suo sguardo si fissò tranquillo sul miserabile, che gli stava dinanzi.
– Te lo dirò io il perché; – rispose freddamente senza alcuna violenza – mio padre era in fondo, un uomo onesto, che le sventure avevano traviato. Mentre inneggiava al comunismo, incitava agli scioperi, alle sommosse, alle rivoluzioni, la sua coscienza si ribellava contro di lui e gli mostrava che per voler redimere i popoli, non v’è alcun bisogno di adoperare la violenza, né di fomentare nelle masse delle idee sovversive. Le parole di una donna, di una santa, finirono per aprirgli gli occhi e convincerlo: egli ritrovò la fede perduta, comprese gli errori, le infamie di coloro che gli avevano per i primi assassinata l’anima, il suo delitto nell’aver cercato d’infondere le stesse malvage passioni in uomini innocenti. Mio padre era ricco del suo e non ebbe bisogno di toccare alcun valore a lui affidato. I valori che egli aveva indosso, quando fu creduto morto e che rimasero a mia madre, erano proprio suoi, erano il frutto del suo ingegno; e nessuno di quei valori furono toccati da me né da mia madre, ma furono intieramente destinati a scopo di beneficenza. La famiglia Valdengo è abbastanza ricca da parte sua, e mia madre possiede una sostanza personale così rilevante, che non vi era bisogno di appropriarsi dei valori appartenenti alla vostra sètta. Non dovrei dare questi ragguagli ad un furfante tuo pari, ma voglio farti sapere che hai mentito, e mentito infamemente, accusando un uomo che ha espiato con una morte orribile una colpa non sua, e le sue mani rimassero nette dalle macchie che adesso tu vorresti imprimervi. –

 

Accidenti all’Italia!
di Carolina Invernizio

Capisci ora che fra te e il mio povero padre non vi può essere nulla di comune, e che io difenderò sempre dinanzi a chiunque il suo onore, la sua memoria? I suoi compagni stessi, quelli in cui le massime perverse non hanno soffocato in cuore ogni pietà, ebbero parole di compianto per la fine spaventosa da mio padre stesso cercata. Solo due gli hanno fatto del malo, l’hanno spinto a quell’orribile fine: tu e Tamira. Di lei ho perdute le tracce, ma può darsi che un giorno la ritrovi, ed abbia occasione di salvarle la vita, come l’ho salvata a te. –
Gildo alzò le spalle.
– Non vi ringrazio – disse con voce sibilante. – bella vita tirare innanzi sino alla vecchia con le tasche vuote, senza camicia indosso, e vedendosi sempre girare intorno quelle cagne di guardie: accidenti all’Italia!
– Ma la tua sètta non ti soccorre? I tuoi compagni non ti vengono in aiuto? Eppure devono avertene date, delle speranze…E sei stanco di aspettare? E maledici il tuo paese, del quale, secondo voi, un giorno ne diverrete i padroni, e tutti potranno avere, senza fatica, senza lavoro, ciò che più a loro talenta? –
Gildo si morse le labbra aride, comprendendo l’ironia di quelle parole. E rispose debolmente, ma verde dalla collera:
– Quando la torta sarà fatta, io non ci sarò più a mangiarla! La mia sètta non è ricca, perché non ruba il denaro di nessuno; una parte dei miei compagni campa la vita come me, maledicendo ai ricchi, aspettando…e liberi, per ora, di crepare di freddo e di fame.
– E perché non cercasti nel lavoro un pane onesto e sicuro? L’ozio rende cattivi e fa parer cattivi gli altri. Vedi, io sono ricchissimo, potrei godere la vita senza far niente… ed invece, lavoro giorno e notte per rendermi utile all’umanità, per onorare la memoria di mio padre.– I maligni occhi di Gildo ebbero uno sfolgorio.
– Voi siete suo figlio…seguirete le sue teorie. – Il volto di Ruggero si animò di nuovo di quella sublime espressione, che si trova nei dipinti dei santi ispirati.
– Sì, le seguirò; – rispose con forza – ma soltanto in quello che hanno di nobile ed elevato. Io non inneggio al comunismo, non predico la distruzione, la morte, ma vorrei che tutti gli uomini seguissero il socialismo secondo il Vangelo, si amassero e si aiutassero come fratelli. Vorrei che il ricco, invece di far pompa delle proprie ricchezze, che sembrano un insulto alla miseria, si accostasse un po’ al popolo, si occupasse con più affetto della classe operaia, non l’illudesse con promesse, che non saranno mai mantenute, si facesse da essa amare, non invidiare o temere! Vorrei che tutti lavorassero, poveri e ricchi, perché il lavoro è il rigeneratore dei popoli, come la fede è il preservativo delle rivoluzioni e dei delitti.

I brani sono tratti da: Carolina Invernizio, Il figlio dell’anarchico, Firenze, Adriano Salani, 1930.