Irriducibili e disperati
Come si sa, lillegalismo, inteso
come pratica militante che nasce da alcune estremizzazioni dellanarchismo,
fa parte a pieno titolo della storia, passata e recente, del
nostro movimento. Manifestazione concreta di irriducibile estraneità
alla società esistente, non di rado vede i suoi sostenitori
teorizzarne la necessità, come la sola risposta coerente
con il rifiuto di ogni potere e autorità. Contrapponendosi
a quello che comunemente definiamo anarchismo sociale, e trovando
le proprie radici, o meglio, le proprie conclusioni, nellesaltazione
di un individualismo attento esclusivamente alle specificità
di chi lo afferma, lillegalismo perde però per
strada, e non potrebbe essere diversamente, alcuni dei capisaldi
fondamentali del pensiero anarchico, vale a dire la volontà
di non creare nuovi autoritarismi e laspirazione alluguaglianza.
Meno male, dunque, che di un argomento tanto affascinante quanto
delicato, quale fu lazione illegalista di una componente
significativa dellanarchismo francese (e non solo francese)
nei primi anni del ventesimo secolo, e in particolare della
banda Bonnot, se ne è occupato Pino Cacucci, lunico
narratore, a mio parere, davvero in grado di affrontarne la
complessità, senza concedere nulla a una facile retorica,
a una superficiale esaltazione e ad una altrettanto superficiale
condanna. Buon conoscitore delle tematiche che affronta (e questa
sua conoscenza nasce dalla sedimentata adesione al pensiero
libertario) nel suo bellissimo In ogni caso nessun rimorso
(Longanesi, 1994) Pino Cacucci, con sensibilità attenta
a tutte le coordinate che animarono la dialettica e la pratica
militante del movimento anarchico doltralpe, ricostruisce
le drammatiche vicende che ebbero per protagonisti lanarchico
lionese Jules Bonnot, audace rapinatore ed espropriatore, e
gli altri personaggi di quel milieu libertario, profondamente
individualista e sovversivo, che si affiancarono al primo in
una sorta di lotta privata alla borghesia della Francia di inizio
secolo.
Generoso e folle sogno
Restando volutamente sospeso fra ricostruzione storica e invenzione
letteraria, in questo romanzo Cacucci descrive lesistenza
grama e disperata di un gruppo di anarchici che, fra il 1910
e il 1911, trovarono in un illegalismo fatto di rapine ed espropri
il mezzo per sbattere violentemente la propria rabbia in faccia
a una società che li voleva, altrimenti, relegati ai
suoi margini. Protagonista, nel romanzo e nella cronaca, è
Jules Bonnot, il capo dei banditi in automobile,
il personaggio che più degli altri rappresenta la drammaticità
di una condizione che sembra non poter avere alternative meno
radicali. E, infatti, i motivi che imprimeranno alla sua sorte
il carattere di non ritorno, che lo condanneranno a trasformare
la sensibilità in violenza, ci sono tutti: una
infanzia povera di tutto fuorché di sofferenze, lo sfruttamento
sistematico sui luoghi di lavoro, limpossibilità
di far valere con le buone i propri diritti, i continui
licenziamenti, le persecuzioni poliziesche, gli amori conclusi
con donne incapaci di condividerne il furore, insomma, la preclusione,
per lui anarchico, proletario, ribelle, a costruirsi unesistenza
normale. E attorno a lui, figli dello stesso ambiente
e delle stesse idee, un gruppo di anarchici, irriducibili e
disperati, che butteranno la vita nel generoso e folle sogno
di dare ad essa, con gli strumenti della violenza, un senso
diverso da quello imposto dalla società. I loro nomi
Garnier, Valet, Dieudonné, Callemin, Soudy, Albert Libertad,
André Lorulot, operai, artigiani, sottoproletari gli
uni, intellettuali, giornalisti, conferenzieri incendiari gli
altri. Diversi, ma tutti incapaci di qualsiasi mediazione. E
non solo rispetto alla loro coscienza ma, a volte, anche rispetto
alla loro stessa intelligenza.
Accanto a quanti vedevano nella violenza lunica risposta
alla feroce violenza dello stato e della borghesia, troviamo
però anche quegli anarchici che, negli stessi anni, tentarono
di proporre ben altre ragioni e ben altri metodi nella comune
lotta contro il potere e lo sfruttamento. Ovviamente, infatti,
il movimento anarchico francese di quegli anni non era composto
solo di camarades disposti a interpretare i personaggi delleterno
gioco di guardie e ladri, ma comprendeva, nella sua complessità,
altre straordinarie figure di militanti, consapevoli che la
scelta dellillegalismo, a lungo andare, non avrebbe potuto
portare ad altro che allautodistruzione. Ecco quindi che,
accanto a Bonnot e ai suoi, troviamo le limpide figure di Victor
Serge e Rirette Maitrejean, amici e compagni di molti dei componenti
la banda, sempre umanamente solidali con loro, con le loro sofferenze
e il loro tragico destino, ma lucidamente e drasticamente oppositori
delle loro scelte suicide. E con efficacia Cacucci fa partecipe
il lettore, anche quello meno avvertito, dellaspro scontro
dialettico che contrapponeva chi non vedeva altra strada che
quella con in mano una Browning, e chi, invece, continuava ostinatamente
a pensare che lanarchia fosse possibile solo diffondendone,
nella società, i principi di solidarietà e uguaglianza.
Affresco plurale
Anche questa volta, dunque, non si tratterà di un singolo
ritratto in piedi, ma di un affresco plurale, che
vuole raffigurare quasi tutti i protagonisti di questo affascinante
romanzo. Perché un ritratto, evidentemente, è
dedicato a Bonnot, e ritratti con lui sono Albert Libertad,
Raymond-la-science, Garnier, Valet, Carouy, che hanno
perso tutto ma lunica cosa che sono riusciti a non perdere
è la dignità, ma... soprattutto ritratti
in piedi sono Victor Serge e Rirette Maitrejean, che con
una tenacia mai venuta meno, neppure durante la lunga e ingiusta
carcerazione, con una lucidità e umanità che valse
loro il rispetto anche dei più esaltati, contribuirono
a far sì che, in un paese nel quale quaranta milioni
di persone erano pronte, ormai, a identificare lanarchia
con il crimine e lassassinio, lideale anarchico
potesse continuare a essere, invece, il faro per ogni aspirazione
di libertà ed uguaglianza.
Massimo Ortalli
Bibliografia
Victor
Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze,
La Nuova Italia, 1956
Paolo
Valera, I clamorosi rossi dellautomobile grigia.
Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La
Folla, 1921
Gilbert
Guilleminault e André Mahé, Lépopée
de la Révolte, Paris, Denoel, 1963
Bernard
Thomas, La banda Bonnot, Milano, Forum Editoriale,
1968
Pino
Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Milano,
Longanesi, 1994
Charles
Bentin, La bande Bonnot, Geneve, Cremille, 1971
Maurice
Boisson, Les attentats anarchistes sous la troisieme
République, Paris, Editions de France, 1931
Jean
Maitron, Ravachol et les anarchistes, Paris,
Gallimard, 1992
Jean
Maitron, Le mouvement anarchiste en France, Paris,
Maspero, 1983
Victor
Meric, Les bandits tragiques, Paris, Simo Kra,
1926
André
Nataf, La vie quotidienne des anarchistes en France
1880-1910, Paris, Hachette, 1986
André
Salmon, Le terreur noire, Paris, Pauvert, 1959
Alain
Sergent e Charles Harmel, Histoire de lanarchie,
Paris, Portulan, 1949
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Città
senza
evasione possibile
di Victor Serge
Lanarchismo ci prendeva per intiero perché ci
chiedeva tutto, ci offriva tutto: non cera un solo angolo
della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava.
Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali,
socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria
vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere
il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffè
degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato
in tendenze e sottotendenze, lanarchismo esigeva anzitutto
laccordo tra gli atti e le parole (cosa che in verità
esigono tutti gli idealismi, ma che tutti dimenticano, addormentandosi):
per questa ragione andammo alla tendenza estrema (in quel momento),
quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza
di rivoluzionarismo, a non aver più bisogno di rivoluzione.
Eravamo un po spinti dal disgusto di un certo anarchismo
accademico molto assennato, di cui Jean Grave era il pontefice
ai Temps nouveaux. Lindividualismo era stato appunto allora
affermato da Albert Libertad, che ammiravamo. Non si conosce
il suo vero nome; non si sa nulla di lui prima della predicazione.
Infermo alle due gambe, camminava appoggiandosi alle stampelle,
di cui si serviva con vigore nelle baruffe, da quellattaccabrighe
che era, portava su un torso possente una testa barbuta dalla
fronte armoniosa. Povero, venuto vagabondo dal Mezzogiorno,
cominciò la sua predicazione a Montmartre, nei circoli
libertari e nelle code di poveri diavoli che aspettavano la
distribuzione della minestra non lontano dai cantieri del Sacro
Cuore. Violento e magnetico, divenne lanima di un movimento
di un dinamismo così straordinario che non è ancora
del tutto spento al giorno doggi. Amava la strada, la
folla, il baccano, le idee, le donne: convisse due volte con
due sorelle, le sorelle Mahé e le sorelle Morand; ebbe
figli che rifiutò di iscrivere allo stato civile. «Lo
stato civile? Non lo conosco. Il nome? Me ne infischio, si daranno
quello che vorranno. La legge? Vada al diavolo.» Morì
nel 1908, delle conseguenze di una baruffa, allospedale,
non senza lasciare il suo corpo, «la mia carogna »
diceva, ai preparatori anatomici, per la scienza. La sua dottrina,
che divenne quasi la nostra, era questa: « Non aspettare
la rivoluzione: quelli che promettono la rivoluzione sono buffoni
come gli altri. Fa la tua rivoluzione tu stesso. Essere uomini
liberi, vivere da compagni.» Evidentemente semplifico,
ma era davvero duna bella semplicità. Comandamento
assoluto: regna, «e crepi il vecchio mondo!» Da
qui partirono naturalmente molte deviazioni; «vivere secondo
la ragione e la scienza », conclusero alcuni, e il loro
povero scientismo, che invocava spesso la biologia meccanicistica
di Yves Le Dantec, li condusse a ogni sorta di cose ridicole
come lalimentazione vegetariana senza sale e di sola frutta,
e anche a fini tragiche. Si sarebbero visti dei giovani vegetariani
impegnare lotte senza uscita contro la società intiera.
Altri conclusero: «Dobbiamo essere al di fuori, per noi
non cè posto che in margine alla società
», senza pensare che la società non ha margine,
che ci si è sempre dentro, anche in fondo alle galere,
e che il loro «egoismo cosciente » faceva eco dal
basso, tra i vinti, al più feroce individualismo borghese.
Altri infine, tra cui mi trovavo anchio, tentarono di
condurre di pari passo la trasformazione individuale e lazione
rivoluzionaria, secondo il motto di Elisée Reclus: «
Fino a che durerà liniquità sociale, resteremo
in stato di rivoluzione permanente... » (Cito a memoria).
Lindividualismo libertario ci dava presa sulla realtà
più lancinante, su noi stessi. Sii te stesso. Però,
esso si sviluppava in unaltra città-senza-evasione-possibile,
Parigi, immensa giungla dove un individualismo primordiale,
ben altrimenti pericoloso che il nostro, quello della più
darviniana lotta per la vita, regolava tutti i rapporti. Partiti
dalle servitù della povertà, ce le ritrovavamo
dinanzi: essere se stessi sarebbe stato un prezioso comandamento
e forse un alto adempimento, se però fosse stato possibile;
e non comincia a divenire possibile che quando i bisogni più
imperiosi delluomo, quelli che lo confondono con le bestie
più che con i suoi simili, siano soddisfatti. Il nutrimento,
un ricovero, i vestiti dovevamo conquistarli con una lotta accanita;
e, dopo, lora per leggere e meditare. Il problema dei
giovani senza un soldo che una irresistibile aspirazione sradicava,
« strappava al collare », come noi dicevamo, si
poneva in termini quasi insolubili: molti compagni dovevano
presto scivolare in quella che si chiamò lillegalità,
la vita non più in margine alla società, ma in
margine al codice. « Non vogliamo essere né sfruttatori
né sfruttati», essi affermavano, senza accorgersi
che diventavano, pur restando luna e laltra cosa,
uomini braccati. Quando si sentirono perduti, decisero di farsi
uccidere, non accettando la prigione « La vita non val
questa!», mi diceva uno di essi, che non usciva più
senza la sua browning. «Sei pallottole per i cani da guardia,
la settima per me. Sai, ho il cuore leggero...» È
pesante, un cuore leggero. La dottrina della salvezza che è
in noi metteva capo, nella giungla sociale, alla battaglia di
Uno contro tutti. Una vera esplosione di disperazione maturava
tra noi senza che lo sapessimo.
Tratto da: Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario,
Firenze, La Nuova Italia, 1956.
Ammiravo
i suoi paradossi
di Paolo Valera
Egli diceva che non era nato per essere fra i malcontenti,
fra i miserabili, fra gli ubbidienti. Erano malattie per i bruti,
per gli idioti. La storia era fatta di disubbidienze. Ascoltavo
e ammiravo. Ammiravo i suoi paradossi, senza difendermi, senza
impedire che le stramberie diventassero a poco a poco verità
anche per me. In un mese la mia fantasia si accendeva con le
faville della sua. Mi scaldavo al fuoco del suo cervello. Cerano
momenti in cui mi sentivo illuminato della sua luce. Con il
suo verbalismo alla rovescia le figure storiche assumevano altri
colori, diventavano altre persone, circolavano con altri caratteri.
Annegate nellinchiostro del disgusto o del disprezzo egli
le alzava e le faceva rivivere nella prosa scarlatta della rivolta.
Gli uomini più bistrattati dalle villanie dei contemporanei
apparivano nella discussione uomini integri, con il loro cervello
disambientato in lotta con gli uomini del suo tempo. Plasmati
da lui, circolavano altezzosi, fieri, inconciliabili, come in
una conflagrazione di idee. Se mi lasciavo impallidire dalle
cataste dei cadaveri ammucchiati nelle pagine dei movimenti
incomposti per le imprudenze o le impazienze dei personaggi
o delle masse egli: mi svecchiava. Mi ripeteva che si doveva
pensare alla rovescia. Il bianco doveva diventare nero e il
nero bianco. Per la gente antica le perturbazioni, le violenze,
le sollevazioni erano disperazioni umane. Per lui contenevano
delle consolazioni, delle risurrezioni, delle giuste vendette,
delle scene immortali.
I tumulti mi diceva le insurrezioni, i
complotti, le sedizioni, gli ammutinamenti, le eruzioni popolari
contro le leggi antisociali sono manifestazioni sagge, da gente
equilibrata. Non cè altro. Se si è fatta
della strada è grazie a questi urti, a queste febbri,
a queste convulsioni. Per gli sciocchi sono eccessi di follia,
Per me sono movimenti utili, razionali, indispensabili nella
società del mio e del tuo. Senza di esse saremmo ancora
alla Vandea odiosa della gente che moriva o voleva morire per
i diritti patrizi e bestiali del feudalesimo.
Tratto da: Paolo Valera, I clamorosi rossi dellautomobile
grigia. Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La Folla, 1921.
I porci
stanno per pagare
di Bernard Thomas
Nel primo incontro, si parlò di varie cose. Si videro
di nuovo il giorno dopo, poi ancora il successivo. In meno di
una settimana un piano di battaglia era già elaborato.
Raymond descriveva lobiettivo da raggiungere in termini
entusiasmanti. Bonnot, imperturbabile, riconduceva la conversazione
a dettagli concreti, indispensabili e persino difficili da comprendere
per quegli intellettuali vegetariani. Lo faceva con modestia,
con pazienza, senza alzare la voce, senza mai offendere, dando
loro limpressione di scoprire le idee da soli, a poco
a poco. Le grandi linee di questa audace strategia, non priva
di somiglianze con quella che venticinque anni dopo seguirà
il Kuomintang per la guerriglia urbana a Shanghai, possono essere
descritte in questo modo. Obiettivo: vincere la formidabile
organizzazione sociale. Sorprendere. Stupire. Strategia: quella
della vespa contro lelefante. La puntura in un posto sensibile.
Il colpo di mano rapido; lazione-lampo che semina il terrore
per il dolore imprevisto che provoca; poi, approfittando del
panico, una ritirata rapida come lattacco. Strumenti:
larsenale inventato dalla scienza. Automobili veloci,
armi dal tiro rapido. Arnesi da scasso perfezionati. Tattica:
in periodo di preparazione, nascondersi in luoghi diversi, sotto
falsi nomi, da non confidarsi neppure reciprocamente per ulteriore
prudenza; appuntamenti in luoghi continuamente diversi. Uccidere
soltanto in caso di necessità. Ma, beninteso, ogni resistenza
da parte del nemico sarebbe stata considerata come una ribellione
e avrebbe giustificato, per legittima difesa, limpiego
di armi da fuoco. Organizzazione della banda: nessun capo, coerentemente
ai principi. Unassociazione di liberi individui. Ma comunque,
un ruolo per ciascuno, in funzione della propria personalità.
Un commissario politico, Raymond. Un consigliere militare, Bonnot.
Come luogotenenti: Garnier, per la sua vivacità, laudacia,
lagilità. Carouy, per la sua solidità, il
sangue freddo esemplare; Monnier, detto Simentoff, egualmente
coraggioso, eccellente nel raccogliere le informazioni, valido
soprattutto per il sud della Francia. In seguito, in secondo
piano, Metge, il cuoco, esecutore notevole, ma con la tendenza
a perdere le staffe. Dieudonné, forse, se accetterà.
Valet sarebbe stato un ottimo elemento, se la «riappropriazione
individuale» lo avesse interessato, cosa non corrispondente
alla realtà. Soudy è senza dubbio utilizzabile:
quel povero ragazzo non ha più niente da perdere. Lorulot
in nessun caso: un parolaio confusionario. Kilbatchiche, neanche
parlarne.
(
).
Aveva in balia della sua volontà un gruppo di giovani,
nati in famiglie povere come la sua, e che, come era successo
a lui, lingiustizia mostruosa delle condizioni sociali
aveva reso ribelli. Poiché essi erano più sensibili,
più onesti, più logici e più coraggiosi
del gregge, erano scivolati senza rendersene conto dalla parte
dei ladri di professione. Che bel materiale caldo e corrosivo
da utilizzare per vendicarsi della Società, per vendicare
Judith! Con loro si poteva andare fino in fondo.
Bonnot vedeva giusto. A forza di scioperi finiti nel sangue,
a forza di scandali finanziari, un pugno di ragazzi era sorto
dalla massa dalla schiena curva per le bastonate. Lincomprensione
che li aveva circondati, limpossibilità di vedere
le loro rivendicazioni soddisfatte, qualche buon libro che nessuno
aveva insegnato loro a leggere, limpulsività della
giovinezza, la corruzione allalto della scala sociale,
il sudiciume in basso, li avevano resi pazzi furiosi.
Fornendo armi e un metodo a questi ragazzi paranoici per un
insieme di circostanze troppo complicate per la loro testa,
Bonnot ne farà degli assassini. Essi non si illudono
più sulla possibilità di una rivoluzione mondiale,
in quella fine del 1911. Non ci pensano più. Vedono rosso.
Sono furiosi. Non si rendono conto che limpeccabile strategia
che hanno messo in piedi è al servizio di una ideologia
demente: il trionfo di un io alienato.
Bonnot se ne frega. Possono dire e pensare ciò che vogliono.
I porci stanno per pagare.
Tratto da: Bernard Thomas, La banda Bonnot, Milano,
Forum Editoriale, 1968.
Non chiedevo
granché
di Pino Cacucci
«Ribellione», mormorò Jules adagiandosi
sulla branda.
Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire
un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté,
avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori,
sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva
Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner
lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner « lintelletto
più fertile della sua epoca »... Jules sorrise,
scuotendo la testa, e le labbra gli si piegarono in una smorfia
amara: lintelletto più fertile, certo, che però
era morto in miseria e solitudine, ignorato dai borghesi, disprezzato
e ridicolizzato dai socialisti, abbandonato alla fame che aveva
accompagnato buona parte della sua esistenza... A che era servito
tanto intelletto, se poi nulla era riuscito a cambiare? La società,
lo stato, il mondo intero erano disposti a riconoscergli la
qualifica di filosofo, adesso che Stirner era un mucchietto
di ossa dimenticate in qualche cimitero del paese più
socialista di ogni altro. Già, i socialdemocratici tedeschi,
pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu
distratto dallidea che in quella lurida soffitta ci fossero
le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno
da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio
delle cimici. Riprese il filo dei suoi pensieri. Dunque, i socialdemocratici
erano quel fior di rivoluzionari che, una volta entrati in parlamento,
avevano detto chiaro e tondo: « Loperaio tedesco
è ormai un cittadino rappresentato al Reichstag, e da
adesso ha dei doveri verso la Germania che vanno anteposti a
quelli verso la propria classe»... Jules sospirò
e subito fu preso da un attacco di tosse. Quella maledetta polvere.
Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della
socialdemocrazia, quando lunico scopo era costruire cannoni
per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare
i muscoli ai vicini europei... E quel vecchio rimbambito di
Engels, ricordò Jules, si era persino rimangiato il Manifesto
Comunista, dichiarando che i socialdemocratici tedeschi dovevano
approvare le spese militari, per difendersi da un attacco della
Russia zarista... La solita storia. In quanto alla Russia, poi...
Jules gettò uno sguardo ai vecchi giornali accatastati,
ai fogli anarchici sparsi un po dappertutto nellangusto
spazio della soffitta. Due anni prima, cera stato lammutinamento
dellincrociatore Potëmkin. Una bella cosa, senza
dubbio. Magari li avesse avuti lui, i cannoni a lunga gittata
da puntare su Lione... Be, Lione era un po troppo
distante dal mare. Forse, avrebbe cannoneggiato la Costa Azzurra,
giusto per dare una ripulita... Stavolta si mise a ridere, fermandosi
però in tempo, prima che i bronchi tornassero a tormentarlo.
Lincrociatore Potëmkin, gli ufficiali e i soldati
insorti... Ma che accidente di rivoluzione sarebbe mai stata,
se a cominciarla erano i militari? Conosceva bene il mondo chiuso
e miope dei militari: qualsiasi idea avessero, qualunque fosse
il motivo che li spingeva ad ammutinarsi, si sarebbero portati
dietro le tare tipiche della mentalità da caserma. No,
non cera speranza. Non nella rivoluzione, almeno. La ribellione
era unaltra cosa. Certo, Stirner non aveva mutato nulla.
Ma, neppure ci era riuscito quel calzolaio parigino, anarchico
pure lui, tale Léon Léauthier, che era entrato
in un lussuoso ristorante dellavenue de lOpéra
e aveva piantato il suo trincetto nella pancia del primo simbolo
che gli era capitato a tiro, cioè la faccia da carogna
più carogna che aveva visto: casualmente, apparteneva
al signor Georgewitch, ministro della Serbia. Roba da incidente
internazionale. E a che cosa era servito? Il calzolaio, addio.
Il ministro, sostituito da unaltra carogna suo pari. «Se
avessi avuto della dinamite, avrei fatto di meglio», era
stata la dichiarazione del calzolaio, prima che lo portassero
via e cominciassero a massacrarlo di botte. Sì, come
no, la dinamite...
Lultimo barlume si spense, e la candela spirò.
Jules accese un fiammifero, in cerca delle sigarette. Ne era
rimasta una. La prima boccata lo fece tossire, ma già
alla seconda avvertì una piacevole sensazione di stordimento
nei polmoni.
(
).
Jouin laveva lasciato sfogare. E a quel punto riprese
con voce sommessa:
«La conosco troppo bene, per chiederle una cosa simile.
Io volevo soltanto metterla in guardia. Tentare di spiegarle
che lillegalismo porterà tutti alla rovina, anche
quelli come lei che non lo condividono, o addirittura lo avversano.
E che personaggi come Platano possono raccontare in giro di
essere anarchici, ma sono soltanto delinquenti. Come ormai lo
sono Raymond Callemin e Edouard Carouy, per la giustizia. Non
si possono svaligiare case e uffici postali e pretendere di
sbandierare ideali di amore e fratellanza...
O forse non è daccordo con me, lei che dedica
ogni giorno della sua vita a unutopia che sta sprofondando
nel fango? »
Le mani di Victor, posando la tazza del caffè, tradirono
il nervosismo.
« I delinquenti servono a mantenere i poliziotti. Senza
i delinquenti, nessuno vi pagherebbe uno stipendio »,
sibilò con le labbra bianche per la tensione.
« Lei tende a semplificare troppo le cose, signor Kibalcic.
»
« Commissario Jouin, il vero motivo per cui non trovo
pace, in questa mia vita, è che non riesco mai a vedere
le cose semplicemente. Magari potessi accontentarmi di certe
facili parole dordine, di ragionamenti elementari... Tutto
è così maledettamente complesso, da aggiungere
costantemente dubbi ai dubbi. Cè una sola cosa
semplice, in questa realtà che ci hanno costretto a vivere:
lei e io siamo nemici naturali. »
Il volto di Jouin riassunse quellespressione dolente che
aveva allinizio del colloquio.
« È libero di non credermi, ma io non mi sento
suo nemico. »
« Il mestiere che si è scelto la obbliga a esserlo,
commissario. »
(
).
Jouin assunse unespressione rassegnata. Guardò
Rirette, che era rimasta in piedi, appoggiata al ripiano di
marmo del lavandino, e distolse quasi subito gli occhi da quelli
di lei. Aveva letto una sfumatura di pietà che si mescolava
al disprezzo manifestato fino a quel momento. E non riuscì
a sopportarlo. Preferì rivolgersi a Victor, che aspettava
la sua risposta.
«Perché... perché non esiste una società
che possa fare a meno dei poliziotti. Anche dopo una rivoluzione,
la prima cosa da fare è riorganizzare la polizia. Lei
questo lo sa, signor Kibalcic. È la sua intelligenza
che le impedisce di essere del tutto utopista.»
«Ma è la mia sensibilità che mi farà
vivere sempre e comunque contro una società che ha bisogno
dei poliziotti per conservare il potere. Anche a dispetto dellintelligenza,
commissario. A dispetto di tutto e di tutti. Se il mio destino
è di restare eternamente un eretico... tanto peggio.
Vorrà dire che morirò senza rimpianti, con tutti
i miei dubbi, ma con una sola certezza: di non essere mai stato
complice dellorrore, del sopruso, degli oppressori dogni
sorta, qualunque sia il colore e lideologia che li anima.»
(
).
Jules se ne stava seduto sul pavimento in fondo alla stanza.
Si era messo a scrivere su un foglio a quadretti, con là
matita che aveva trovato nel cassetto del tavolo.
Non chiedevo granché. Camminavo con lei al chiaro di
luna nel cimitero di Lione, illudendomi che non vi fosse bisogno
daltro per vivere...
Una pioggia di colpi staccò pezzi di intonaco e schegge
di legno. Jules chinò il capo e attese pazientemente
che si sfogassero. Tornato il silenzio, riprese a scrivere.
Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita,
senza esser capace neppure di sognarla. Lavevo trovata,
e scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era stata
sempre negata...
Uno squillo di tromba annunciò lennesima bordata
di proiettili. Jules imprecò, mentre una nube di calcinacci
e polvere ricopriva il foglio a quadretti. Appena cessarono
gli spari, afferrò le due Browning e andò a scaricarle
fuori della finestra.
Gli assedianti risposero, e passarono altri 17 minuti dinferno.
Alla fine, Jules, nel suo angolo, scrisse le ultime righe.
Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me
lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio
per voi, peggio per tutti... Dovrei rimpiangere ciò che
ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma
in ogni caso nessun rimorso.
Tratto da: Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso,
Milano, Longanesi, 1994.
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