Senza che i critici diano la
sensazione di essersene accorti, è nato e va rigogliosamente
diffondendosi per il mondo un nuovo genere letterario. Per il
momento gli editori non vi dedicano ancora antologie, ma è
soltanto questione di tempo.
Si tratta dellarte epistolare, fiorita di botto nei carnefici,
per vittime o per parenti dolorosamente rimasti a patire.
Sarà per alchimie difensive o sarà per acquietare
linsopprimibile esigenza della comunicazione, ma fatto
è che sempre più spesso chi fa una
strage, chi stupra e fa scempio del corpo ambito, chi assassina,
chi si arroga tutti i diritti della vita altrui, poi, a cose
fatte che capo hanno, prende la penna in mano e scrive una bella
lettera a vittime, mariti, figli, padri e madri della vittima
e a chiunque altro sia in posizione sociale tale da essere utilizzato
come pubblico destinatario. Se il reo non ne è uscito
vivo, nel compito, lo sostituisce chi gli era vicino
che, in qualche modo, riceve o crede di ricevere su di sé
brandelli di responsabilità dellaccaduto.
Il fatto che questa letteratura sia resa pubblica, poi, obbliga
ad esercizi ulteriormente impietosi gli sgomenti destinatari:
che verranno raggiunti da giornalisti curiosi circa le loro
reazioni, pronti a misurarne il borsino dei sentimenti ed a
giudicare in nome e per conto di un giudizio formalmente universale.
I disposti al perdono, quelli che dicono «passate più
tardi. Vedremo
», quelli che dicono «nemmeno
per sogno», quelli che stanno zitti davvero perché
consapevoli di quanto poco da dire ci sia e quelli che
stanno zitti perché hanno già venduto lesclusiva
del loro dolore alla concorrenza.
Caso recente, caso di strage in parte mirata e in parte
a casaccio con suicidio conclusivo. Restano i genitori
e qualche vittima sopravvissuta, i primi che sentono il bisogno
di scrivere e i secondi che non possono sottrarsi al leggere.
Diceva una delle vittime più colpite: tutto bene in questa
lettera, capisco il loro dolore, ma, ad un certo punto della
lettera, salta fuori la parola «imprevedibile» e,
allora, non capisco più.
Il prevedibile è una categoria apparentemente complicata,
ma, a ben guardare, più semplice di quel che appaia.
Lessere umano si affida al ripetibile, la scienza stessa
che tante garanzie sembra dare allo svolgersi dellesistenza
sorge dallapplicazione di questo schema. Quel che
ha successo una volta, molto probabilmente lo si ripete. Vengono
fissati dei rapporti fra i nostri singoli costituiti e, perlopiù,
questi rapporti vengono mantenuti a lungo: lacqua bolle
ad una certa temperatura, bolle dopo se cè il sale,
lacqua spegne il fuoco, il fuoco brucia, e così
via connettendo. Più rapporti si istituiscono e più
il mondo sembra rimanere sotto il nostro controllo più
eventi risultano prevedibili, per lappunto. Quando qualcosa
va per il verso storto, ovviamente, occorre trovare una spiegazione
e, quando la si trova in termini di nuovi rapporti
al vecchio schema bisogna rinunciare.
Se qualcuno, alla disperata ricerca di lenire dolori propri
o altrui, qualifica da sé levento fonte dei dolori
stessi come «imprevedibile» significa, ahinoi, che,
da un lato, sta scaricandosi della sua parte di responsabilità,
mentre, dallaltro, ahilui, sa dolersi soltanto a determinate
condizioni come è il dolersi delle conseguenze
di un atto che, in quanto tale, è categorizzato come
non soggiacente sotto il proprio controllo. È il caso
in cui questa letteratura ottiene giustamente
il risultato contrario di quello che si prefigge. Alla cassa
dello strazio non si chiedono sconti.
Più o meno negli stessi giorni, leggo le reazioni varie
alle sparate neofasciste sulle leggi razziali del 1938. Il clima
culturale sembra favorevole a far fermentare «revisioni»
storiche secondo le quali gli ebrei italiani, con leggi simili
(che perfino Alleanza Nazionale, oggi, chiama «famigerate»)
se la sarebbero spassata. Ma, fra i tanti altri, parla lo storico
Giorgio Rumi e mette le cose a posto: lantisemitismo viene
da lontano ed è un «virus» che «periodicamente»
si ripresenta a destra. Concludendo, tuttavia, nel modo seguente:
«Temo che dietro allodio per Israele, dietro allanticapitalismo
e al rifiuto del cosmopolitismo ci sia ancora antisemitismo.
Anche a sinistra». Lasciando a parte le considerazioni
sullo strano modo con cui lo storico svolge il proprio mestiere
(a parte cosa centra il giudizio sulla politica di Israele
con lantisemitismo, a parte cosa centri lanticapitalismo,
a parte cosa centri lanticosmopolitismo alias antiglobalizzazione),
anche qui, anche in questo genere letterario, non sfuggirà
la tecnica retorica usata. Dolore e perdono, daccordo,
ma senza dimenticare i propri interessi.
Felice Accame
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