Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

«Être un anar n’est pas si mal»

Qualche cenno su Maurice Fanon (1930-1991)

Fu un cantautore dolcissimo e rabbioso, un grumo di nervi al sole. Un uomo, non solo privo di qualsivoglia capacità diplomatica, ma anche fiero di esserlo:
[...] Forse a colpi di canzoni senza concessioni
si fa la propria piccola rivoluzione. [...]
.
Un uomo con dei grandi problemi anche, che finì per vivere a volte male la sua vita e i suoi rapporti; si spinse molto in là sulla strada dell’alcolismo... e ciò non facilitò né carriera né esistenza.
Alla fine rimase, volente o nolente, ben lontano dal successo commerciale di alcuni suoi grandi colleghi e così, anche oggi, in Francia è pressoché uno sconosciuto, la cui opera è in gran parte irreperibile, se non sul mercato del più «esclusivo» collezionismo; invece, chi scaverà in quei vecchi dischi sarà illuminato da canzoni fatte per brillare al sole come un cristallo scuro; la voce catramosa è portata da una forza soprannaturale, da una specie di grazia interna che non può lasciare indifferenti.
È la vecchia storia dell’albatro baudeleriano, delle sue ali troppo grandi che impediscono di camminare.
[...] Ci son giorni che mi dico c’è un aria da «strana la vita»
ci son giorni derisori da piangere dal ridere nel fazzoletto [...]

Maurice Fanon finì per salire sul palco senza mai averci pensato troppo: appassionato e scrittore di canzoni, quando era ancora un insegnante d’inglese, iniziò a frequentare l’ambiente bohemien parigino della metà degli anni ’50, quello in cui si formò, ad esempio, anche Georges Moustaki, che era suo amico.
Visse un grande amore e sposò Pia Colombo, interprete straordinaria di canzoni difficili – Georges Brassens la considerava senza mezzi termini la «nuova Piaf» –, apprezzatissima dalla critica e, anche se in modo discontinuo, dal pubblico; per lei Fanon cominciò una vera carriera di autore che lo avrebbe portato a snocciolare una serie di successi come L’écharpe, Jean-Marie de Pantin, e, negli ultimi anni, a comporre un capolavoro quale Requiem autour du temp present.
A furia di scrivere e di frequentare gli scalcinati palcoscenici dei cabaret parigini, Fanon vi prese gusto e cominciò ad abitarli da protagonista, senza possedere doti vocali memorabili, ma portandovi in compenso una carica umana e interpretativa senza eguali.
Per qualche tempo sembrò quasi toccare il successo popolare: per dieci anni fu sotto contratto con la Barclay (etichetta discografica notissima, la stessa, in quegli anni, di Aznavour e Ferré); fu la spalla della superstar Brel nella sua ultima tournée... Ma a «rovinare la festa» c’erano, sin dalle origini, i suoi temi, man mano sempre più «difficili», inquietanti e affrontati con coraggio sempre più sfrontato: fra le più violente requisitorie contro la guerra del Vietnam troviamo Les orgues de monsieur Jonhson; per non parlare poi della mancanza di ogni piaggeria nei confronti della recente storia del proprio paese espressa nella Petite juive, dove si arriva, non solo ad accusare la Francia di Petain di essere stata, con la silente complicità della maggior parte dei suoi abitanti, carnefice degli ebrei francesi,
[...] avevamo dieci anni e nella nostra cartella
una storia di Francia che cadeva in polvere
[...] ci fecero cantare per un ordine nuovo
strane «Marsigliesi» piuttosto puttanesche
che usavano la Francia per pulircisi il culo
e si facevano fottere alle porte del ghetto.
Ed io mi ricordo una piccola ebrea, le dissero vieni, com’era carina
fece la valigia, mi mandò un bacio con la mano,
si chiamava Lisa
non ne resta niente.

Ma in questa canzone si accusa anche la Francia repubblicana del dopoguerra di essersi adoperata, in perfetta continuità con le sue macchie passate, a disseminare morte ai «quattro angoli della terra» (Indocina, Algeria):
[...] in questo mondo lercio di avan-chissà-che-altra-guerra
in cui il Giappone ferito lecca ancora il proprio cancro
in questo mondo scettico in cui chi ha la fede
non sa se più se Dio sta davanti o di dietro
in questo mondo di denaro in cui la banca galleggia
come un pesce sventrato che aspetta il naufragio
avevamo trent’anni, santo orrore della guerra
e però non abbiamo mai smesso di farla [...].

Oltre a questa irriducibilità polemica, l’inaffidabilità personale che lo portava ad essere talvolta così ubriaco da non poter salire sul palco e la fine dell’interesse dei media per la canzone «esistenzialista», sostituita nelle Hit Parade della prima metà degli anni ’60 dalla ben più tranquillizzante ondata yé-yé, lo spinsero ai bordi più remoti dello show business.
Fu entusiasta sostenitore all’arrivo del maggio 68:
[...] è nel millenovecento sessantotto al mese di maggio
che un uccellino nella mia testa si mise a cantare [...]

che però lo trovò ormai personalmente sfiduciato e psicologicamente compromesso... Peccato, perché tutte le canzoni scritte negli anni ’70 e ’80 denotano un autore straordinariamente capace e consapevole dei propri mezzi, in grado di giocare costantemente con le parole senza perdere un’oncia della forza che caratterizza la sua opera. La sua è una canzone che potremmo definire «classica», costruita su una sovrana attenzione architettonica; le idee vengono espresse in maniera originale proprio dall’ancoraggio di suono e significato... e in questo Fanon è vero poeta: capace come nessun altro di giocare con un linguaggio talvolta perfettamente piano, poi improvvisamente animato da allitterazioni e calembours, di innalzarsi e pescare profondo, di alternare tensione e preziosismo in un chiaroscuro letterario che è uno dei più maturi esiti di compenetrazione fra forma e contenuto nel genere. È Fanon uno dei pochissimi autori in cui l’urgenza d’intervenire sulla realtà che via via lo circonda si sposa con una perfezione incantata, con la creazione di neologismi e con l’invenzione di strutture degne di un vero funambolo della parola.
[...] Morte allo stronzo mio capitano!
Pinochet è al balcone che ti guarda carezzare
i tuoi galloni disonorati: tu hai ucciso Allende.
Capitone, kepì-tano, capitano e capo-di-cazzo.
Morte ai coglioni mio capitano
io ero uno di quei ragazzi di cui l’armata repubblicana
fa carne da cannone: io mi chiamo sempre Fanon. [...]

Non sfugga inoltre che la musica di queste canzoni, spesso scritta a quattro mani con grandissimi artigiani quali Gerard Juannest, il compositore di Brel, è tutt’altro che scontata o di servizio.
Altro punto a favore del nostro è la grande umiltà che lo porta a omaggiare spesso i colleghi degni d’ammirazione, anzi a comporre due canzoni interamente concepite come dediche a poeti e cantanti vivi o scomparsi, Le petit bout de rêve e soprattutto la meravigliosa Un oiseau bleu, un oiseau vert, come a sentirsi parte di un canto che ha radici antiche e ali che lo spingeranno lontano, ben oltre la nostra provvisoria coscienza:
Un uccello blu, un uccello verde, una canzone di Prevert
toh il signor Kosma passò da lì [...]
Un uccello, come un libro aperto: Eluard, Aragon o Baudelaire
toh, il signor Ferré, ci canta Apollinaire [...]
Un uccello, una tromba per aria,
ah, signor Boris Vian, sputaci pure in testa.
Un uccello volato via da un quadro di Picasso, di Pablo
solo nero e blu, solo rosso e verde [...]
Un uccello blu un uccello verde, sul ramo di un libraio
toh, non è mai morto l’albero comunardo [...]
Uccellini, cinciallegre, usignoli e tu merlo fischiettante
ricordati che si nasconde a Parigi la carogna
che fucilò vigne e fiori per avere la pelle del poeta degli uccelli.

Su tutti gli altri Fanon tributò più volte attestati di una ammirazione sconfinata soprattutto per Léo Ferré, a cui indirizzò una canzone che, come ogni opera riuscita, è in sostanza una canzone d’amore:
Tu mi piaci signor Léo di Hurlevent quando canti come un demonio
[...] amo quelle lacrime d’argento sul tuo viso d’acciaio.
[...] Tu mi piaci signor Léo di Hurlevent quando incanti i serpenti
come un bouquet di fiori del tempo
al tempo in cui Baudelaire ha avuto il tempo
di respirare i fiori del male, forse sarà un po’ anormale
un po’ anarchico e però, essere un anarchico non è mica male!
Tu mi piaci signor Léo di Hurlevent, ancor di più quando ti sbagli
ti succede ogni tanto, né Dio né Padrone[...]
nel tuo silenzioso straniamento, cade una certa pioggia
che somiglia curiosamente all’età d’oro, alla bellezza.
[...] Tu mi piaci signor Léo di Hurlevent, quando il cuore ti cresce fra i denti
[...] fa crick-crack sulla lingua, una cicca da arrostirvi il ventre
fa tutto giallo... non è molto chic, ma è Extra, signor Ferré.

Quella stessa umiltà lo portò ad affidare alcuni dei suoi più bei versi a una pletora di interpreti, qualche volta, diciamolo anche non all’altezza o perfettamente corretti (nel corso degli anni, molti cantanti si sono fatti belli con capolavori di Fanon).
In particolare, come abbiamo detto, Fanon scrisse molto per Pia Colombo, che fu, anche se per un breve periodo, sua compagna di vita, e per cui conservò una tenerezza enorme, tanto che per lei compose il capolavoro della maturità, Requiem autour du temp present, coraggiosa opera, da Pia stessa commissionata, per tracciare un bilancio della propria esistenza poco prima che il cancro di cui era già gravemente malata la portasse nella tomba.
Ma non va scordato nemmeno un intero disco scritto per Juliette Greco, pieno di perle fra cui la stupenda L’embellie e soprattutto Mon fils chante:
Per chi sta entrando nella danza
in nome della gran speranza
senza timori della vita, figlio mio canta
per chi lotta per l’esistenza con l’arma del sorriso
perché viva a lungo, figlio mio canta
per chi sta combattendo la notte per il giorno
in cui il sole splenderà
per ogni uomo, figlio mio canta
per chi muore senza camicia nell’alba al tempo delle ciliegie
sotto l’occhio dei fucili, figlio mio canta.
Figlio mio tu sei il figlio che nascerà da mio figlio
finché muore la libertà
perché la libertà viva nel mondo intero
figlio mio continua a cantare.
Per chi spinge senza speranza la porta stretta della storia
in nome dell’ideale, figlio mio canta
per chi è trascinato nel nero fino all’ultimo corridoio
della camera di tortura, figlio mio canta
per chi non vedrà mai più il sole rosso di maggio
alzarsi sulla libertà, figlio mio canta
per chi fin dentro la morte ha la forza di vivere ancora
per chi vivrà domani, figlio mio canta

Per tutti costoro cantava Maurice Fanon, per tutti loro e per lui, che non può più, bisognerà continuare a cantare, noi che in qualche modo ci sentiamo suoi figli.

Alessio Lega
amoreanarchia@tiscalinet.it

La sera di maggio

Io mi ricordo di una sera di maggio
non molto tempo fa
che avevo messo le tue canzoni nelle mie
e il mio letto nel tuo.
Una sera di maggio, già distesi
finito d’amare
e nelle tue braccia come una foglia umida
adagiato.
Due signori sono entrati nella stanza.
Due signori col cappello di traverso.
Due signori senza bussare entrarono
un calcio ancor prima di parlare
erano della polizia
due signori forse per picchiarmi...
E sulle mie labbra l’ultimo bacio
che ti ho dato senza toccarti
con le manette ai polsi e i tuoi occhi nei miei.
E nel mio cuore quel sorriso di pianto
che avevi quando mi portarono via
come uno straccio umido
abbattuto.
Dei signori mi hanno fatto ballare.
Dei signori con lo sguardo di traverso.
Dei signori [...]
Dei signori forse per uccidermi...
Se tornerò, oh, ti prometto
che ti offrirò una lunga sera di maggio
le mie canzoni nelle tue e il tuo letto nel mio.
Una sera di maggio, già distesi
finito d’amare
e nelle tue braccia come una foglia umida
mi adagerò.