Rivista Anarchica Online


letture

La struttura filosofica del potere
di Francesco Ranci

 

In margine al volume di Felice Accame “La funzione ideologica delle teorie della conoscenza”.

In un saggio intitolato “Platone, la storia e gli storici” (1), Pierre Vidal-Naquet, dopo aver categoricamente affermato di essere uno storico, e non un filosofo, mette il dito sulla piaga osservando che “la pochezza di quanto gli storici scrivono sulla filosofia” ha eguale solo “nell’insignificanza di quanto i filosofi scrivono sull’ambiente storico delle opere che studiano”. Già Aristotele, il primo storico della filosofia visto che Platone delinea quadri cronologici impossibili per non dire che presenta il mito di Atlantide come una storia vera, rifiuta di collocare “questa cosiddetta storia” nel suo racconto della storia di Atene. Sarebbe allora il caso di “inserire, nella storia, la filosofia”. E Vidal-Naquet sottolinea “in quanto tale”, non questa o quella filosofia.
Di opinione opposta, Giovanni Reale, che in un recente saggio dedicato a Socrate prende come riferimento Kierkegaard, secondo cui “i filosofi hanno molti pensieri che, tutti, valgono fino a un certo punto”, mentre “Socrate (2) ne ha uno solo, ma assoluto” e che avrebbe “cambiato la storia spirituale dell’Occidente”. Socrate, tuttavia, come è noto non ha lasciato scritti. Le nostre informazioni sul suo pensiero provengono principalmente dai resoconti, in parte discordanti, attribuiti a Platone e a Senofonte, oltre che dalle commedie di Aristofane. Secondo Reale, per dirimere ogni controversia sarebbe decisivo il fatto che “Senofonte non è un filosofo”, e, di conseguenza, quello che riferisce andrebbe valutato alla luce del resoconto di Platone. Reale si appella così ad Heidegger, affermando che “la storia della filosofia non è affare della storiografia, ma della filosofia”. E citando la frase per ben due volte nel suo libro commenta: “l’affermazione è, a nostro avviso, esatta e incontestabile”.
Vidal-Naquet, peraltro, già nella conclusione del saggio di cui sopra, abbassa la cresta rassegnandosi all’idea che “praticare la storia della filosofia, per uno storico, significa accettare il gioco difficile, ma inevitabile, che consiste nell’essere filosofo con i filosofi”; e, tuttavia, prima di deporre le armi della sua critica, ha un ultimo impulso ribelle. Dichiara che “occorre andare oltre, accostare ciò che ancora non è stato accostato, mettere in serie ciò che non è mai stato messo in serie, mostrare la fragilità ideologica di ciò che è stato considerato scienza, distruggere le certezze ostentate, cercare il rovescio delle carte, insomma svolgere il ruolo che in ogni tempo è stato proprio dello storico: il ruolo del traditore”. Con il che, però, la sua situazione si è fatta critica, e quasi tragica, per cui l’argomento sembrerebbe chiuso per la massima soddisfazione di Heidegger: chi tocca la filosofia muore, o quantomeno perde la dignità di “probo intellettuale”.
Fatto sta che lo storico deve avere dei criteri di scelta, prima ancora che di valutazione, del proprio oggetto, qualunque esso sia. Anche chi, come Ostrogorsky per fare un esempio, scrive la storia dell’impero “bizantino”, deve fare i conti con il fatto che “il termine sorgerà molto dopo, e i veri “bizantini” non lo conoscevano”, considerandosi piuttosto “romani” – nel senso che gli imperatori continuarono a pensare a se stessi come discendenti dei Cesari e ad accampare, perciò, quelli che ritenevano essere i loro “diritti” (3). Voglio dire che, nel caso della filosofia, questo criterio manca, e per questo la tesi di Vidal-Naquet incontra un ostacolo apparentemente insormontabile.

 

Non tutti i filosofi sono uguali

Manca, si potrebbe dire, il paradigma della filosofia, o, anche, la sua matrice disciplinare. E, tuttavia, anche il criterio di Heidegger si rivela inutilizzabile visto che i “filosofi” (comunque individuati) non sono mai stati d’accordo su cosa intendono per “filosofia”, come ammette esplicitamente, per esempio, Gianni Vattimo quando afferma che “ogni sistema filosofico comincia, in un certo modo, con una ridefinizione dell’essenza della filosofia”, o come ammette implicitamente Richard Rorty, quando afferma che “filosofia è tutto ciò che facciamo noi professori di filosofia, nei dipartimenti di filosofia”. Le testimonianze di un Senofonte o di un Aristofane, riguardo alla posizione di un Socrate sembrerebbero, di conseguenza, valere in linea di principio esattamente quanto i racconti di un Platone. Di questa situazione, un punto di vista “libertario” sembrerebbe poter gioire; ognuno pensi e dica quello che gli pare, ognuno dia alla parola “filosofia” i significati che vuole, e si ritroverà, comunque, onorato del titolo di “filosofo”, e anche di “storico della filosofia”. Che pacchia.
Presto ci si rende conto però che non tutti i filosofi sono uguali; o, meglio, chissà perché, alcuni filosofi sono più “filosofi” degli altri.
La storia della filosofia, secondo Nicola Abbagnano, “muove dalla convinzione che nulla di umano è estraneo alla filosofia e che anzi questa è l’uomo stesso, che si fa problema a se stesso e cerca le ragioni e il fondamento dell’essere che è suo”. I filosofi sarebbero, di conseguenza, “uomini solidalmente legati da una comune ricerca”. E, tuttavia, sempre per Abbagnano, “una filosofia non ha valore in quanto suscita l’accordo formale di un certo numero di persone su determinate dottrine, ma solo in quanto suscita ed ispira negli altri quella ricerca che li conduce a trovare ognuno la propria via”. In conclusione, guarda caso ancora Platone e non Abbagnano stesso, o, Dio ce ne scampi, sua sorella, una donna, risulterebbe “la più alta personalità filosofica di tutti i tempi”.
A questo punto non sarà inutile accennare al fatto che del problema di Atlantide, luogo mitologico inventato da Platone, si occupavano assiduamente gli studiosi nazisti e Himmler in persona. Non sarà inutile ricordare che l’ideologia dei rivoluzionari francesi del 1789 prevedeva che Socrate stesse dalla parte della “ragione” e quindi della “verità”; basti pensare che in occasione della loro festa dedicata all’“Essere supremo” essi cantavano, sulle note della Marsigliese, “Premier principe, être suprême / Dieu de Socrate et de Platon / ô toi do le pouvoir extrême / fit l’éléphant et le ciron” (Primo principio, Essere supremo / Dio di Socrate e di Platone / o tu il cui potere supremo / fece l’elefante e la pulce). Che, una statua già eretta per santa Scolastica divenne allora la “statua della Filosofia”, e che si diffuse persino l’esigenza di aggiungere al proprio patronimico il nome di “Socrate” tanto che si rese necessaria una discussione in merito nella massima sede politica dove Danton, tuttavia, ritenne opportuno frenare gli entusiasmi, argomentando che “ora che i santi sono stati sloggiati dal paradiso, è legittimo che non ci si voglia più chiamare Giorgio o Pietro, ma è stravagante voler prendere i nomi dei più grandi uomini dell’antichità, quando non si hanno le loro virtù”.
Ecco che il filosofo, quello vero, sarebbe un “uomo virtuoso”. Ma vediamo in che senso. Socrate ateniese, si faceva beffe dell’idea che un artigiano o un commerciante, ma non un nobile proprietario terriero, prendessero decisioni politiche. Passava le sue giornate a discutere, in privato e in pubblico, con “tutti”, ma non usufruì mai del suo diritto a parlare in assemblea.
Disprezzava i “sofisti”, termine che designava, all’epoca, insegnanti rispettati e retribuiti, e utilizzati per meglio difendersi – personalmente come era obbligatorio – davanti all’assemblea riunita in sede giudiziaria, nonché per confezionare proposte politiche o legislative. Si contrapponeva ai sofisti, come “filosofo”, ironizzando tuttavia sul fatto che nessuno, nemmeno lui stesso, sapeva niente – non essendo nemmeno certo che si potesse imparare qualcosa da altri.
Al teatro, veniva abbondantemente dileggiato per i suoi discorsi sconclusionati, nonché per la sua posizione di rilievo nella cricca degli aristocratici filo-spartani – ma quando i due colpi di stato del 411 a.C. e del 404 rovesciarono la democrazia, questa cricca divenne concretamente pericolosa per il demos. Fu condannato a morte dall’assemblea, sulla base di accuse formulate contro di lui da Anito, che era una figura di primo piano fra i democratici (e perciò reduce dall’esilio) – accuse che, purtroppo, non ci sono state tramandate con precisione. La difesa postuma, opera dei suoi allievi Platone e Senofonte, sostiene peraltro che avrebbe potuto ottenere una pena pecuniaria di 30 mine, che Platone stesso gli offrì, se solo si fosse degnato di proporre una pena alternativa, come ogni imputato poteva fare (si votava due volte, prima sulla colpevolezza o meno e poi eventualmente sulla pena adeguata); e, soprattutto, se avesse mostrato rispetto per l’assemblea, invece di insultarla ripetutamente e di pretendere da essa la considerazione spettante a un eroe nazionale come ricompensa per i suoi discorsi filosofici (per questo la maggioranza favorevole alla pena di morte fu nettamente superiore a quella favorevole alla condanna).
Nell’arringa difensiva, comunque, si guardò bene dal chiamare in causa la libertà di pensiero e di parola, sostenendo, al contrario, che il sacro oracolo di Delfi gli aveva assegnato il compito di trasmettere la sua superiore “conoscenza” agli ateniesi. Il suo insegnamento in materia politica era, verosimilmente, che “colui che sa” deve governare, e gli altri obbedire (come ci riferisce Senofonte). Difficile vedere in Socrate un martire del libero pensiero. Arduo vedere nella filosofia ai suoi albori l’espressione di un’esigenza democratica. Sembrerebbe, piuttosto, una parte organica della reazione contraria al demos, che teorizza il “governo tecnico” dei filosofi – educati nelle famiglie aristocratiche, non dai sofisti – che fu poi reso celebre da Platone e che ancora oggi ci affligge vestito da presunzioni di sapere che, se messe alla corda, invocano sempre la filosofia come fonte suprema della loro legittimità.
Socrate fu obbligato al suicidio, e del macabro episodio rimane traccia in ogni coscienza democratica, nonostante il fatto che ad Atene, all’epoca, per ogni cittadino si contavano in media quattro schiavi, e che a quanto dice lo stesso Platone una via di fuga gli fosse stata di fatto lasciata anche dopo la condanna a morte. Altri filosofi sono usciti male dalla lotta per il potere. Ma rimane il fatto che una certa libertà di filosofare vale solo per alcuni. Per gli altri, invece, l’ospedale psichiatrico è un’alternativa molto più realistica, anche se i discorsi possono essere esattamente gli stessi. Per questo motivo, a chi preme la propria e l’altrui libertà, conviene starsene fuori dal gioco, seguire l’indicazione di Vidal-Naquet dandosi da fare per dotarsi di un criterio di analisi esterno alla filosofia, che sia in grado di rendere conto della sua genesi di strumento ideologico particolarmente duttile e perciò funzionale a qualsiasi tipo di potere.

La denuncia di Bakunin

Non è un caso se in molti nel corso della storia culturale del movimento operaio, in senso lato, hanno provato a indicare una via d’uscita dalla caverna di Platone, ma che non conduca al Sole di Icaro, subendo tuttavia il contagio del virus mentale del potere, di cui non sono riusciti a individuare il codice genetico, che si trova proprio nella pratica della filosofia in quanto tale. Bakunin, per esempio, denuncia chiaramente la filosofia, e le presunte scienze che ne derivano come politica, storia ed economia, “sostanzialmente falsificate”; ma poi, non avendo ben chiari i confini della filosofia stessa, salva la “sociologia” di Auguste Comte, che sarebbe “basata sulla analisi accurata dei fatti e sulla pura ragione” come lo sarebbero le “scienze naturali”, pur respingendone con decisione l’aspirazione a strumento di governo della società degli umani. Paul Feyerabend, invece, ha parlato di “anarchismo epistemologico”, dice, forse un po’ per scherzo e forse davvero, al fine di “liberare la gente dalla tirannia imposta da ottenebratori filosofici e concetti astratti come ‘verità’, ‘realtà’, o ‘obiettività’”, apparentemente senza rendersi conto che la distinzione fra concetti astratti e concreti è proprio uno dei capisaldi della filosofia
Affrontando questi temi in “La funzione ideologica delle teorie della conoscenza”, Felice Accame (4) ricostruisce, fra molte altre, la vicenda umana e il pensiero di Silvio Ceccato, in rapporto al contesto culturale in cui la prima si è svolta e il secondo ha preso forma, risalendo attraverso di essa alla matrice ideologica della filosofia e dei rapporti umani che ne conseguono.
La pretesa di formulare una “teoria della conoscenza”, che fallisce perché l’uso del verbo è irriducibilmente metaforico facendo riferimento a un rapporto di adeguatezza delle “idee soggettive” alla “realtà oggettiva”, anziché alla ripetizione di costrutti mentali da parte di qualcuno, resiste tuttavia alle denunce del fallimento grazie alla sua funzionalità per chi comanda. Impostata in questo modo, la questione della filosofia, del potere e della rivoluzione coinvolge anche persone apparentemente “insospettabili”, come il premio Nobel per la fisica Percy William Bridgman, secondo cui “una concezione metafisica della natura dello Stato non può uscire indenne dall’analisi della natura delle operazioni che in concreto nelle diverse situazioni danno significato alle affermazioni relative allo Stato”, e altrettanto ne consegue per la Società, “concepita come una specie di superpersonalità, con dei diritti e un valore superiore a quelli degli individui che la compongono”.

Francesco Ranci

Note:
1. Pierre Vidal-Naquet, La democrazia greca nell’immaginario dei moderni, Il Saggiatore, Milano, 1996.
2. Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano, 2000.
3. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino, 1993.
4. Felice Accame, La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, Spirali, Milano, 2002.