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Dell’arroganza
di Francesco Codello

 

Sembra che l’arroganza sia una caratteristica storica piuttosto che antropologica, ma occorre sempre formulare un termine di paragone: rispetto a che cosa o a chi gli esseri umani sono arroganti?

Esiste una teoria e una pratica dell’arroganza?
L’uomo e la donna sono arroganti quanto lo sono gli altri esseri viventi?
Sembra proprio che l’arroganza sia una caratteristica storica piuttosto che antropologica e che questa sia molto più accentuata in determinate società piuttosto che in altre. Ma occorre sempre prendere un termine di paragone e quindi riformulare la questione: rispetto a che cosa o a chi un uomo e una donna sono arroganti?
Penso che tentare di rispondere a queste domande serva alla causa della libertà perché non vi può essere libertà dalla schiavitù delle cose se non vi è libertà dalla schiavitù che deriva dalla cultura e dal pensiero.
Mi ritorna in mente un monito molto intrigante di Stirner quando sosteneva che occorre liberarsi dalle “rotelle” del nostro pensiero, vale a dire che la libertà è anche una libertà dai condizionamenti della cultura.
L’arroganza dell’individuo moderno era determinata dalla convinzione che l’industrializzazione della società potesse produrre uno sviluppo che finalmente realizzava la liberazione dell’uomo dalla schiavitù della natura.
Così si è pensato che lo sviluppo della tecnica potesse affrancare l’essere umano dalle “imperfezioni” dettate dalla natura. La grande scommessa della rivoluzione industriale e dell’illuminismo positivista ha consegnato all’uomo una cultura del fare e del progresso che ha fatto sì che una parte del mondo abbia affidato a nuove divinità il potere taumaturgico di liberare l’individuo da tutte le catene che lo opprimevano. Si è trattato di un processo che ha posto la fiducia totale nella scienza del progresso piuttosto che nel progresso della scienza.

Storia di arroganza

Infatti per decenni e decenni molti hanno creduto che il solo fatto di progredire nell’affinamento della tecnica potesse garantire uno sviluppo senza limiti e senza condizioni degli esseri umani, senza accorgersi (o forse volendolo esplicitamente) che nuove forme di schiavitù si profilavano all’orizzonte.
Questa storia è stata una storia di arroganza perché insolenti e presuntuosi sono gli uomini che l’hanno determinata.
Fini che diventano mezzi e soprattutto mezzi che diventano fini. Ogni cosa assolve in sé il senso della sua esistenza e perlopiù determina l’esistenza degli esseri viventi. Una continua autoriproduzione di se stessi senza nessuna possibilità di controllo collettivo. Qui gli esempi si potrebbero sbizzarrire ma ciò che conta è capire che l’arroganza è un prodotto della società industriale che ha fondato la sua vittoria sul terrore e la violenza. Capitalismo e comunismo hanno specularmene dato ragione all’industrialismo, alla sua concezione del progresso e alla sua concezione etica della scienza.
Attorno al concetto di sviluppo, alla sua divinizzazione si è formata questa morale dell’arroganza. Attenzione però! I sostenitori dei limiti dello sviluppo non sono stati diversi nella loro logica industriale. Hanno semplicemente capovolto la questione e fornito nuova linfa allo sviluppo stesso, marchiandolo con opzioni “alternative”.
Ogni volta, ad esempio, che succede un black out di energia si spendono le teorie dell’industrialismo (“occorre ammodernare le centrali e l’intera rete di erogazione”, oppure “occorre investire in fonti alternative”) ma anche quelle del primitivismo (“bisogna ritornare alla natura e alle sue primordiali caratteristiche”).
Seppure in modo radicalmente diverso queste opzioni hanno inevitabilmente preso come termine di confronto la modernità dell’industrialismo, chi per sostenerlo, chi per modificarlo, chi per rifiutarlo. Tutti sono cioè figli di questa storia e di questa cultura e quindi figli dell’arroganza.
Si discute esclusivamente di aspetti tecnici (il buco dell’ozono, il surriscaldamento della terra, la non infinità delle risorse naturali, ecc.) mai dei limiti psicologici. La vera questione però è che esiste una cultura, anzi una psicologia dell’arroganza. Perché non riusciamo a limitare i nostri bisogni, che altro non sono diventati che la realizzazione dell’arroganza e della sopraffazione. Quanto è ridicolo, per non dire tragico, assistere a questo sviluppo senza fine e non porsi mai la domanda vera che andrebbe posta: perché non siamo capaci di chiederci perché tendiamo ad uno sviluppo senza limiti.
Perché non ci accorgiamo che la risposta non si può trovare solo nella storia e nella società ma è necessario cercarla dentro di noi, in ognuno di noi, e al contempo nella nostra storia recente. E inoltre perché non comprendiamo che l’uscita dalla modernità non è stata poi così esaltante visto che l’uomo post-moderno non ha saputo rinunciare all’industrialismo ma lo ha solo delocalizzato?

Regole intrinseche

La vera fuoriuscita e la più autentica rivoluzione consiste probabilmente nell’accettare di avere dei limiti invalicabili oltre i quali ogni forma di progresso diventa arroganza nei confronti della terra, dell’aria, dell’acqua, degli animali e dei nostri simili.
Questi limiti non possono però esseri definiti da entità che siano al di fuori dell’uomo e della donna. Non vi possono essere Dei o Stati che li definiscono arbitrariamente e per conto degli esseri umani.
Occorrono delle regole intrinseche alla stessa natura dell’uguaglianza possibile: tutti devono avere accesso in egual misura allo sviluppo e nessuno può appropriarsi dei risultati di questo per scopi di dominio.
In fin dei conti la condizione più profonda dell’essere umano è quella di sempre. Le cose che tormentano o esaltano l’uomo e la donna di oggi sono ancora le domande esistenziali di sempre: la vita, la morte, la passione, il dolore, l’amore. Attorno a queste questioni il pensiero occidentale è ancora il pensiero dell’antichità.
La babele creata dal mito del progresso, dall’arroganza della sua quotidianità, non sono ancora riusciti a modificare la natura più profonda dell’essere e della sua esistenza.
Non esiste alcuna forma di progresso se non vi è rispetto delle regole che ho sopra definito. Non vi può essere sviluppo sostenibile se non sono gli esseri viventi, ma proprio tutti, il riferimento di ogni cultura, la loro libertà, la loro diversità e la loro uguaglianza.

Una nuova stagione di essenzialità

Siamo in grado di accettare i limiti psicologici dell’idea di sviluppo, di riconoscerci in questa modesta e umile realtà piuttosto che divinizzare la nostra arroganza?
Si sostiene che viviamo in un’epoca di consumismo. È sicuramente vero per un verso. Ma se riflettiamo un po’ più a fondo, in realtà noi non consumiamo mai nulla fino in fondo, perché cambiamo modello, prestazioni, caratteristiche di ogni oggetto che acquistiamo senza averlo veramente consumato.
Allora probabilmente per recuperare la nostra natura più autentica, la strada non è quella di ritirarci con aristocratico distacco nel primitivismo, non è d’altronde neanche quella di tuffarci nell’industria dell’alternativo, ma, forse, più semplicemente, nel cercare di vivere assieme a più esseri umani possibile, una nuova stagione di essenzialità, di semplicità, di lentezza, riscoprendo la nostra più autentica essenza.
E pretendere di condividere con gli altri ogni nuova e più evoluta forma di tecnica che possa al contempo liberare l’uomo dalla schiavitù ma anche non pregiudicarne la sua autonomia.
Almeno proviamoci.

Francesco Codello