Allain Leprest
(Dedico questo articolo al grande veronese Marco Ongaro,
con cui abbiamo giocato un rimpiattino di tramite verso Allain,
e che, dal suo stato di postumo vivente, sindustria sulle
nostre leggende).
Allain
Leprest
Leprest è a mio avviso il più poetico, il più
scuro, il più profondo artista della sua generazione
di cantautori.
Fu riconosciuto da subito come giovane talento da Maurice Fanon,
che, per primo, lo presentò, allinizio degli anni
80, nel programma di una radio locale, o da un mostro
sacro quale Nougaro, che lo considera un genio della scrittura.
E non sono stati i soli.
Allain è lo «scrittore di canzoni» forse
più rinomato degli ultimi venticinque anni, basti pensare
alla lunga collaborazione con Romain Didier, che ha prodotto
le sue più belle opere sui testi di Allain, poi allintero
spettacolo per Francesca Solleiville Al dente, e ancora
testi, testi, testi e gioielli per una pletora di artisti, a
volte amici «sconosciuti» al grande pubblico cui,
per pura amicizia e senza calcolo, affida dei capolavori, a
volte vere star dei botteghini e del mercato discografico, quali
Enzo Enzo, che lui non ha mancato di far penare per mesi, prima
di regalarle quattro gocce di splendore. E questo è il
suo mestiere di «ebanista», quello che gli fa dire,
senza alcuna falsa modestia, a uno sconosciuto (il sottoscritto),
rocambolescamente raggiunto per la prima volta al telefono intorno
alluna di non so che nottata «la mia fierezza è
di essere solo un umile artigiano».
Ma il meglio di Allain, che comunque resta nei dischi e negli
spettacoli in cui è proprio lui a cantare, recitare e
vivere le sue canzoni, è purtroppo confinato allapprezzamento
sfegatato di un gruppo, numeroso ma non sterminato, di fan.
Non tenterò qui di analizzare la ragione di questo stato
di grande outsider, né offrirò e si che
ne avrei voglia! unanalisi approfondita della sua
poetica, più che altro perché lo stesso Leprest
che ho anche avuto la fortuna di conoscere nel corso di un indimenticabile
(e piuttosto etilico) pomeriggio nella casa parigina del mio
caro amico e geniale poeta Lorenzo Flabbi, me ne ha posto quasi
un veto. «Traducetemi, cantatemi, pubblicate i miei testi»,
ha detto, «ma per favore lasciate linterpretazione
al libero ascolto».
Così dunque farò, fornendo giusto quei dati indispensabili
alla comprensione di un poeta tanto più intraducibile,
quanto insuperabile nel maneggiare le strutture verbali, nel
trovare feroci sfumature della lingua che carezzano e violentano
significati e suoni, che aggrediscono e sprofondano lascoltatore
in un universo a volte disperato con fuoco, a volte malinconico
e ammaliante, a volte metafisico o rabbiosamente grottesco.
Lamore dellumanità sconfitta e sofferente,
il pudore che rintuzza la banalità, ci offre in questo
reportage delle solitudini umane un delicato capolavoro che
può ben aprire un piccolo tour in tre tappe nelluniverso
Leprest:
Je vien vous voir (Vengo a trovarvi, o piuttosto
a cercarvi, a rendervi visita
)
Sono marmocchi, son piccolini
là, là
a Bogotà sono forzati
là, là
Vivono, muoiono, scavano oro, guadagnano due soldi e la sera
dormono
Sul cuscino del loro marciapiede: vai a vederli
Lei è tutta sola nella cucina
là, là
Niente più cane, niente più cugine
là,
là
Niente più di caldo dentro il suo frigo, niente più
speranze, nessuna eco
Niente più desideri, né memorie: valla a vedere
È curvo trascina la sua pena
là, là
Prende da solo il suo cappuccino
là, là
Si spara un colpo, ma si manca al tirassegno dei cinquantanni
Nessuna storia, nessuna mancia: vai a vederlo
Non ti piace Manet, né Beethoven
là, là
Non ami amare, non ami I LOVE
là, là
Non ami niente, ami il tuo cane, hai a casa lacqua, ma
lacqua è niente
Se non cè nessuno per berla assieme: vai a farti
vedere
Si manca damore nei quartieri bassi
là,
là
Il buon dio ha le braccia troppo corte
là, là
La gente è bella, il mondo e scemo quando getteranno
le noccioline
Nel fondo dello Zoo, al centro della piazza: venitevi a vedere.
Questa sera canto non lontano da casa tua
là,
là
Mangio un pianoforte verso le otto
là, là
Porto tutti: i bambini, la mia faccia, il tizio perduto, la
vecchia sola
È per lamore, non per la gloria che vi vengo a
vedere.
Ovviamente inutile dire che il solo testo, per di più
tradotto, non offre che un pallido scorcio della potenza espressiva
di questa canzone
Allain, classe 1954, è un uomo dellestremo nord
della Francia, la Normandia, la zona delle miniere di Germinal
per intenderci, ed è venuto su in una famiglia mica troppo
benestante, in un bel milieu operaio; comincia a cantare a ventanni,
poi scende verso Parigi per vivere la sua propria Bohème,
e lì, presto, a dispetto dei lustrini e delle paillette
del telegenico vuoto degli anni 80, si è imposto
con la forza delle sue parole.
Tutti si accorgono di lui quando, col solo accompagnamento della
chitarra o della fisarmonica, comincia a rinnovare, portandola
alle estreme conseguenze, la tradizione di un realismo magico,
di un modo così inedito di far danzare la lingua fra
suono e significato, da sembrare incredibilmente vero.
Per concludere questo minimo excursus, che spero vi abbia stimolato
alla conoscenza di uno dei più vivi dei viventi, concludo
con il testo di questa canzone che apre i due ultimi dischi
di Allain (uno in studio, uno dal vivo) e che quindi suppongo
occupi nel suo cuore un posto particolare, come certamente lo
occupa nel mio.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
La
pensione
To,
ora la bottiglia arriva al fondo, siamo vecchi, vecchia
mia.
Veri vecchi col semolino, vecchi con la testa che trema
Eccoci al fondo della via, a voce bassa, chi lavrebbe
detto
Al tempo della vita che correva, al tempo che non si
rimproverava
Alle stelle di sparire
In pensione
A
che ci serve questo cuore se si è svuotato del
meglio?
Che ci hanno preso legno e forza e non ci resta che
la corteccia
O forse non è proprio una cazzata che il vuoto
venga reso
Che dopo la festa restino ancora le lische della vecchiaia
Per finire la sigaretta
In pensione
Tutto
qui sembra vecchio, il caffè puzza di orzo
Il «tiamo» mette le pantofole, lamore
getta via le marionette
E la testa si volta di colpo a rileggere la tappezzeria
Su cui mille volte i cacciatori uccidono un cervo che
cercava la fuga
Fra la porta e la finestra
In pensione
Forse
ad una certa età più o meno lo spirito
evapora
E la ragione traballa, e senti i peli bianchi sulla
lingua
Noi saremo i centenari che sognano viaggi lontani
Aver voglia del Perù, anche quando senti caderti
addosso
Le palate di terra che arrivano
In pensione
Scende
la sera, andiamo via, non ci deve trovare seduti
Se molliamo i ninnoli, lindispensabile sta in
uno zaino
Guarda, alzo il pollice e Hop!
si chiama Autostop!
Tanto peggio se non abbiamo i jeans, se questa scema
si crede
Che se ci sei dentro il cuore si fermi
In pensione
Addio
il letto
Buongiorno Madrid, non facciamo riposare
le rughe
Se ci sbrighiamo a correre, domani saremo a Toledo
A vedere le ombre lente, sentire le case che bruciano
Ciao arancio sul cortile, ciao pigrizia dei giorni
Avevo fretta di arrivare
In pensione
To,
ora la bottiglia arriva al fondo, siamo vecchi, vecchia
mia. |
Nu
(nudo)
Nudo,
io vissi nudo, naufragato nascendo
Sullisola di «malinfanzia» da cui
nessuno tornò
Nudo, io vissi nudo nelle vigne selvagge
Gonfio di vino di temporale e di reggiseni commossi
Nudo,
vecchio ingenuo, navigai nei tuoi celi
Dalle terre del fuoco, fino alle erbe pallide
Nudo, io piansi nudo nel vapore di uno specchio
Col cuore che gira nel faro, occhio di quanto amore!
Nudo,
io vissi nudo sul filo dei miei sogni
Il tessuto di menzogne, il mio destino sbilenco
Ma nudo io continuo il mio cammino di tempesta
Urlando a pieni polmoni «La canzone dei tessitori»*.
Nudo, avanzo nudo, spoglio della mia ombra
Non volevo essere un numero lo sono divenuto
Nudo
ho vissuto, ai quattro angoli delle stazioni
Clandestino di una storia che non ha più strada
Nudo sono venuto a visitare passando
Un globulo di sangue, un neutrone di nube
Ma nudo, il corpo nudo, voglio che mi si inumi
Nel mio più bel costume «pacifista ignoto».
*
Les canuts, come ben ricorderanno i più
attenti dei nostri lettori, è la mitica canzone
ribelle di Aristide Bruand dedicata alle rivolte dei
tessitori di Lione di metà ottocento.
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