La prima volta che
ho visto una A cerchiata, è stato nel 1971, sul muro
di fronte al mio liceo. La giornata era iniziata con una pioggia
torrenziale, monsonica, biblica, da conguaglio universale, forse
per questa ragione, solo allora dellintervallo,
quando è riapparso un sole da poster svedese, ho avuto
modo di accorgermene. Dovette essere però un compagno
di classe fascista, Ivano, lo stesso che poi sarebbe diventato
anarchico, in seguito seguace arancione di Bagwan, ancora dopo
tossico e infine ristoratore fallito alle Hawaii, a spiegarmi
che si trattava di un simbolo libertario. Ma sì, io pensavo,
chissà come mai, che fosse quello dei palestinesi di
Al Fatah.
Degli anarchici, fino a quel momento, sapevo poco, pochissimo,
niente, soltanto che ce lavevano con lautorità,
con i vigili urbani che fermavano i motorini, con lo stato,
e sicuramente anche la religione dei preti. Anche su questultimo
punto, non potevo che sentirmi in sintonia con loro, infatti,
personalmente, mi ero rifiutato di fare la prima comunione,
in questo spalleggiato dai miei: «Ci è bastato
il battesimo,» disse mia madre, giusto per bloccare eventuali
pressione dei nonni paterni.
Qualcuno però mi aveva già spiegato (forse un
articolo de «LEspresso» allora formato lenzuolo
oppure un numero di «Storia Illustrata») che lultima
stazione del comunismo, il massimo, il top, lorgasmo continuo,
sarebbe stata appunto lanarchia. Mica però come
la intendevano certi ignoranti di quartiere, gente che, quando
vede il traffico delle auto, dice: «Basta, con questanarchia!»,
e poi, già che ci sono, tornati a casa, menano i figli
di brutto.
Al mio liceo, gli anarchici cerano, ed erano tanti, almeno
cinque, vestivano tutti di nero e portavano degli occhiali con
la montatura rettangolare di metallo, uno di loro aveva pure
una Norton, nera pure quella. Oltre agli anarchici, cerano
i terribili comunisti del PcdI-ml, uno di loro, durante
le risse con i fascisti, indossava un elmetto della prima guerra
mondiale, il cosiddetto modello «Adrian», pitturato
di rosso e con la falce e martello al posto del fregio. Quelli
del PcdI le prendevano quasi sempre. Gli anarchici un
po meno, o quasi mai. Fra i fascisti che frequentavano
il mio liceo, lo scientifico «Galileo Galilei» di
Palermo, cera Concutelli, proprio lui. Non era iscritto,
ma veniva lo stesso, si presentava per menare i compagni. Concutelli,
un giorno, dopo una mattinata di tensione, raccogliendo due
comunisti che facevano lautostop in viale del Fante, disse
loro: «Ragazzi, non è così che si fa politica».
Era un liceo particolare, nessuna traccia di Lotta Continua
e vaghi cenni di Fgci. Un liceo scientifico, il massimo della
cultura umanistica, senza cioè la prosopopea del classico
dove ci sono i figli di papà che rompono il cazzo con
la filologia.
È stato sempre lì che ho visto comparire il primo
numero di «A rivista anarchica», venduto
forse da un compagno detto Mustang, me lo ricordo come fosse
ieri: il formato, la grande A in copertina e poi, sfogliando
le pagine, Anarchik.
Le storie di Anarchik mi piacevano molto, quasi come mi era
piaciuto Tintin qualche anno prima, e sicuramente dovevano piacere
anche a uno che di cognome faceva Montedoro, questi, infatti,
sembrava identico allomino del fumetto, gli mancava giusto
il cappellaccio. Durante le assemblee di istituto, quello, il
Montedoro-Anarchik faceva degli interventi assurdi, da attore
comico consumato, tipo sul tema delle assenze ingiustificate.
Diceva: «E se uno ha sette figli, che gli succede, li
deve accompagnare tutti e sette?»
Sui giornali e in televisione, sempre in quei giorni, cera
la storia della rivolta di Reggio Calabria e la vittoria dei
fascisti alle elezioni politiche, nel senso che lMSI prese
una barca di voti. E Valpreda in carcere, e poi le lunghe udienze
del processo di Catanzaro.
Copertina del primo numero di "A",
febbraio 1971
Lì abitava Mauro De Mauro
Poi, ma siamo già nel 1972, cè un manifesto
degli anarchici pisani che mostra Franco Serantini composto
nella bara, quel manifesto qualcuno, nottetempo, lo affisse
in viale delle Magnolie, proprio a Palermo, angolo con via Empedocle
Restivo. Ancora adesso, quando passo da quello scorcio di strada,
mi sembra di vederlo; per me, è come se non lavessero
mai staccato, in questi anni, tutte le volte che ho ripensato
a Serantini, quellimmagine non si è mai mossa.
In viale delle Magnolie, sia detto per inciso, cera la
casa di Mauro De Mauro, il giornalista de «LOra»
fatto sparire nel nulla dai mafiosi.
Sarebbero stati alcuni anarchici a salvarci dai fascisti una
sera che facevamo attacchinaggio, senza di loro, chissà
quante ne avremmo prese, era la stessa notte in cui un aereo
diretto allaeroporto di Punta Raisi andò a schiantarsi
contro la montagna che sta sopra Cinisi, il paese di Peppino
Impastato.
Fra i miei compagni, nel senso di coetanei, molti sarebbero
diventati anarchici, allinizio erano appunto soltanto
ragazzi di quartiere, giocatori di pallone, frantumatori di
vetrine nel piazzale di via Sardegna, o di volley in qualche
squadra locale, tutte persone che ho visto crescere. Insieme
a loro avevo visto crescere anche Ciccio Montalbano, che abitava
in via Abruzzi. Ciccio era alto, bello, abitava appunto a due
passi da casa mia, aveva una R4 bianca, Ciccio lo si vede appena
in una foto scattata durante la conferenza di Sciascia nella
palestra del nostro liceo. È un puntino, Ciccio, in quella
foto, però si intuiscono tutti i suoi particolari, la
maglietta color lampone, di quelle scolorite con la candeggina,
la barba, gli occhiali da vista (ray-ban) leggermente calati
sul naso; Ciccio è morto molti anni dopo, lo hanno ucciso
per una brutta storia. Con altri ragazzi, meglio, con altri
compagni, aveva dato vita a un cineclub, «La Antorcha».
Linizio fu proprio nella palestra della foto con Sciascia,
sono gli stessi che creeranno il Circolo «Pinelli»,
erano i più giovani, i meno interessati alla privazione,
alla rinuncia al piacere, e infatti intuirono subito la fine
di una certa forma di militanza. O la decretarono. Fra loro,
e quelli del «Friscia» e del «Machno»
cera una certa differenza.
Un pezzo degli Alunni del Sole
Qualche giorno fa ho visto la fiction «La Meglio gioventù»,
e mi è venuto da piangere. Non si può essere così
banali, opachi, incapaci di restituire un mondo, non si può
dire che si tratta di un bel film.
Lultima immagine che possiedo di quei giorni inquadra
già il 1977. È, finalmente, estate, infatti siamo
finiti tutti in vacanza, a Favignana. In quel momento sono seduto
in piazza, quando vedo passare alcuni ragazzi, in mezzo cè
anche un anarchico del mio liceo, ma non saprei più dire
chi sia, troppi anni.
«Dove state andando», così gli chiedo, mi
rispondono che sono diretti al mare, ci salutiamo, siamo certi
di rivederci in serata, il pensiero che presto tutto sarà
finito, lestate, ma anche la rivolta, letà,
le ragazze, il piazzale della facoltà di lettere e filosofia,
non ci sfiora ancora, nel replay dei mesi precedenti
i fatti di Bologna, la morte di Francesco Lo Russo, la copertina
di un disco di Lolli intitolato «Disoccupate le strade
dai sogni», i racconti di Dario Evola che stava proprio
lì a Bologna, ancora Dario mentre canta «A las
barricadas», lincontro con una ragazza di Torino
che si chiamava Francesca Lombardo quel giorno a Favignana
la musica veniva fuori dal juke-box, era un terribile, ma indimenticabile,
pezzo degli Alunni del Sole, «A canzuncella»,
è sul suo sottofondo che rivedo il sorriso di Ciccio,
Anarchik, le chiavi inglesi degli autonomi, il sole a picco
sul camping dove montammo la nostra tenda, la certezza che ci
saremmo rivisti tutti in serata, i nomi e i numeri di telefono
delle ragazze segnate sullAgenda Rossa, quello che doveva
essere e non è stato più.
Fulvio Abbate
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