riflessioni
Deindustrializzarsi
Il continuo aumento della concentrazione della produzione,
cosa propria dei processi industriali e del modello globale,
sta annullando l’autonomia delle comunità locali.
I processi di industrializzazione, così come praticati
fino ad oggi, hanno infatti contribuito alla riduzione dell’occupazione,
all’aumento della sudditanza ad un mercato non controllabile
localmente, alla definizione di un soggetto specializzato, «il
consumatore», che non ha riconoscibili ruoli nella produzione
di quanto direttamente gli necessita.
I settori in trasformazione sono quelli tradizionalmente gestiti
direttamente dalle comunità locali; essi sono fondamentali
per la vita degli individui e delle comunità e la loro
alienazione aumenterebbe ulteriormente la dipendenza da un numero
di soggetti ridotto ed estraneo.
Tra i settori attualmente oggetto della massima espansione industriale,
oltre al comparto agroalimentare, risulta esserci quello dell’edilizia,
a cui si riferiscono a livello esemplificativo le seguenti riflessioni.
Ma, al di là ed oltre il solo settore edilizio, appare
necessaria per ogni ambito dell’esistenza delle comunità
e degli individui la ricomposizione di un tessuto produttivo
e di scambio non interno alle regole produttive e commerciali
del modello vigente che riaffermi l’autonomia delle comunità
e la loro capacità propositiva.
L’industrializzazione dell’edilizia
I processi edilizi hanno subito nel secolo scorso una significativa
trasformazione tendente alla rimozione delle pratiche tradizionali
ed alla loro sostituzione con sistemi costruttivi e procedure
tratte dal settore industriale.
La ragione pratica di tale tendenza è da attribuire alla
volontà di aumentare le quantità del costruito
e di ridurne i costi.
Ma la ragione pratica è stata fondata su profonde radici
culturali. Fin dall’inizio del secolo scorso, agli occhi
degli operatori più qualificati, il settore delle costruzioni
appariva «arretrato» rispetto alle innovazioni ed
alle capacità tecniche proprie dell’industria.
Di questa arretratezza veniva dato un giudizio integralmente
negativo che non recuperava alcun elemento precipuo di caratterizzazione
del settore ma ne annullava anche le positività.
In quegli anni l’industria appariva come unico mezzo per
migliorare le condizioni di vita delle comunità, unica
soluzione in condizione di dare lavoro a tutti. Erano processi
controllati e controllabili, puliti, efficienti ad elevato margine
in grado di produrre una quantità di merci molto differenziata.
Il settore delle costruzioni, legato all’uso di materiali
e soluzioni tradizionali, non era in condizione di creare merci
innovative, non era capace di strutturarsi come i processi industriali
e, cosa non indifferente, aveva una troppo elevata necessità
di manodopera.
Il settore, giudicato arretrato perché i suoi processi
non rispondevano ai meccanismi propri dell’industria,
fu così oggetto di una spinta alla trasformazione indipendentemente
dalla verifica dei benefici da essa traibili.
Ma l’edificio, nella sua concezione tradizionale, è
un prodotto unico che richiede una progettazione specifica,
una cantierizzazione connessa alle capacità tecniche
degli operatori locali e questi elementi hanno impedito l’industrializzazione
del settore.
Nel secondo dopoguerra i sistemi industrializzati sono stati
praticati, seppure in maniera non omogenea nei vari paesi europei
(tra le imprese di maggiore dimensione e nella costruzione di
abitazioni popolari, proprio in ragione dei costi e dei tempi
ridotti); essi non sono riusciti a penetrare completamente l’intero
settore e nel corso degli anni le pratiche di prefabbricazione,
ed in particolare la prefabbricazione pesante, sono state lentamente
abbandonate.
Per gran parte delle costruzioni, in particolare in Italia,
sono stati utilizzati processi semitradizionali ed una organizzazione
dei cantieri molto più vicina a quella artigianale che
a quella industriale, in ragione sia delle dimensioni degli
interventi sia della parcellizzazione delle imprese che riduceva
la loro convenienza a praticare sistemi diversi da quelli consueti.
Recentemente però l’edilizia ha subito una forma
di industrializzazione, forse meno programmata ma non per questo
meno incisiva, sostenuta più che dalle amministrazioni
pubbliche, come nel periodo precedente, dalle imprese che forniscono
i materiali e le componenti.
L’entità del settore delle costruzioni, in termini
di materiali e di energia impiegata per la costruzione, manutenzione
e ristrutturazione degli edifici, è tale da renderlo
uno dei mercati più vasti e solidi del pianeta. Le sempre
significative quantità di costruito hanno reso il settore
un ambito merceologico di interesse per la produzione industriale.
La trasformazione in atto risponde agli stessi criteri di concentrazione
della produzione tipici della globalizzazione. Mentre in un
passato anche recente per ogni area geografica vi erano una
infinità di piccole imprese che predisponevano materiali
e componenti, oggi il numero si è ridotto e la dimensione
delle imprese è aumentata. I processi industriali consentono
inoltre di avere ampi profitti anche tenendo in catalogo un
numero elevato di merci e ciò consente una risposta specifica
per le diverse esigenze. Questo non toglie che, dai pavimenti
alle malte, i luoghi di produzione si sono concentrati e i prodotti
uniformati in ossequio all’obiettivo dell’aumento
dei profitti attraverso il risparmio sui costi dei materiali,
la riduzione dei tempi e dell’uso della manodopera, la
semplificazione delle fasi di montaggio.
La sudditanza culturale nei confronti dell’industria è
dunque supportata da un prodotto che risponde appieno (più
della prefabbricazione pesante) agli interessi delle imprese
e degli operatori.
Gli effetti sociali e ambientali dell’industrializzazione
La condizione attuale, se da un lato consente la semplificazione
dei processi costruttivi, l’aumento della qualità
tecnica delle componenti, il risparmio economico, da un altro
lato apporta un consistente impatto culturale e tecnico sul
tessuto sociale locale e non permette una ottimizzazione specifica
delle componenti in ragione del luogo in cui esse sono messe
in opera.
L’edificio tende sempre più ad essere una sorta
di scatola di montaggio il cui esito sono costruzioni apparentemente
diverse ma in realtà sempre uguali, in quanto prodotte
dallo stesso «kit».
Ma gli effetti maggiormente negativi si riscontrano nella tecnica
locale tradizionale, che si disperde nella semplicità
e ripetitività del montaggio rinunciando alle soluzioni
affidate alle capacità individuali e alla conoscenza
specifica appresa. Gli operatori non conoscono né le
componenti né i materiali che usano, ma solo il catalogo;
i prodotti sono fatti lontani da loro, all’interno di
industrie in cui le competenze e le conoscenze sono settorializzate,
dove un certo grado di consapevolezza è ridotta a livello
della dirigenza, dove le competenze tecniche sono esclusive
e non diffuse.
E questa è una perdita di valori insostituibili.
La comunità non si riconosce nelle architetture che vive,
non vi rilegge all’interno la sua particolarità
e specificità; le architetture non derivano dalle attente
osservazioni e dal continuo accrescersi nel tempo di qualità
e di specificità. Tutto ciò comporta una perdita
di identità, una perdita di identità che attraversa
e destruttura l’intera società mondiale.
Gli operatori edili sono uniformati e non sono più riconosciuti
all’interno della comunità in cui vivono come capaci
di porre in atto tecniche e soluzioni dovute alla loro conoscenza
ed alla loro «arte»; perdono di riconoscimento e
di riconoscibilità, e perde la qualità della loro
vita dal momento che diventano uniformi in una attività
senza specificità, operatori di un prodotto estraneo
alla loro creatività e capacità.
Si annulla il tessuto produttivo fatto di una catena di piccoli
operatori che partecipano alla filiera del prelievo, prima trasformazione
e produzione del materiale e delle componenti. Si uniformano
le pratiche di cantiere che con la loro diversità erano
l’esatto riscontro delle tecniche e delle soluzioni adottate.
Si marginalizza il ruolo degli artigiani chiamati solo per le
grandi opere a fornire qualità di lusso in rappresentanza
di un mondo che non c’è più, quando potrebbero
dare qualità diffusa parte di un mondo che esiste.
Un lavoro come un altro, un edificio come un altro, una comunità
come un’altra non possono che avere effetti negativi in
un ambiente e su individui che sono sempre profondamente diversi.
Deindustrializare il progetto/processo
edilizio
È evidente che per quanto positivi possano essere gli
esiti dell’industrializzazione nel processo edilizio,
a fronte degli effetti sociali ed ambientali comportati è
necessario operare un ripensamento critico.
Un ripensamento che non può essere rivolto all’annullamento
di quanto già fatto, all’azzeramento dell’industrializzazione,
al ritorno ad un passato che comunque sappiamo migliorabile.
Un ripensamento che però può e deve prendere quanto
di buono è stato fatto dall’industria non solo
in termini di quantità e di costi ma anche di effetti
nella società e nell’ambiente, ed applicare queste
strumentazioni al fine della riqualificazione dell’ambiente
e del benessere degli individui.
Si tratta quindi di individuare i processi e i prodotti industriali
che hanno trovano ragione di esistere solo nel lucro e nel profitto,
che abbiano operato contro gli interessi comuni e sostituirli
o riconformarli ad altre finalità.
Si tratta quindi di restituire un ruolo qualificato agli operatori
ed alla cultura locale, in primo luogo mantenendo una capacità
tecnica diffusa, e poi ricomponendo una modalità di costruire
connessa con la società e con l’ambiente.
Si tratta di fatto di deindustrializzare il settore edilizio
integrandolo con soluzioni in cui il lavoro umano, artigianale,
creativo, locale abbia tale rilievo da garantire la qualità
sociale e ambientale del processo.
testimonianze
Tikopia: la stabilità di un
sistema artificiale
Tikopia è una piccola isola dell’arcipelago delle
Salomone in Polinesia. Le seguenti osservazioni sono svolte
sui risultati di una ricerca svolta nell’isola nel 1928,
quando ancora manteneva una propria identità culturale
e sociale, pubblicata in Italia nel 1976 nel libro di Raymond
Firth Noi Tikopia edito da Laterza, Bari.
Tikopia è un sistema chiuso: in circa 25 kmq in parte
occupati da rupi e dalla laguna, vivevano 1200 individui. Un
territorio per gran parte interessato da agricoltura, fonte
primaria dell’alimentazione unita alla pesca.
Nono stante la densità della popolazione e le trasformazioni
attuate per permettere la produzione agricola il sistema insediativo-ambientale
rimaneva in equilibrio in ragione di alcuni principali caratteri
di uso:
L’agricoltura era profondamente integrata con il sistema
naturale. Le pratiche non erano intensive, la produttività
per unità di superficie basse. La rotazione delle colture,
l’abbandono temporaneo dei terreni e la loro prossimità
alla foresta consentivano un continuo aprire e chiudersi della
copertura vegetale naturale.
L’integrazione tra le varie fonti di alimentazione. Gli
indigeni conoscevano ed utilizzavano senza coltivarle almeno
centocinquanta tipi di alberi, arbusti, piante; l’agricoltura
era basata su di una decina di prodotti; la pesca completava
l’alimentazione.
Ma a questi caratteri corrispondeva anche una organizzazione
sociale adeguata ai luoghi ed alle risorse che poneva dei limiti
precisi all’azione umana
I Tikopia non accumulavano; il consumo alimentare era basato
sulla comprensione della quantità media di produzione
del sistema agricolo e naturale, rimanendo sempre al di sotto
delle potenzialità. In questa maniera la garanzia di
sopravvivenza risiedeva proprio nella capacità produttiva
del sistema e non nella conservazione delle derrate.
Non consumavano più di quanto fosse necessario neanche
in presenza di abbondanza di risorse; in tal caso riducevano
la quantità di superfici impegnate dall’agricoltura.
Per garantire una condivisione delle risorse e lo spostamento
delle superfici agricole i terreni erano assegnati in un regime
di affidamento che sebbene connetteva l’individuo ad un
terreno presenta caratteri molto diversi dalla proprietà.
Per garantire che la comunità avesse sempre risorse in
quantità superiore alle necessità i Tikopia esercitavano
un controllo demografico che impediva l’aumento della
popolazione insediata oltre il limite delle potenzialità
delle risorse.
I limiti precisi e condivisi all’azione degli individui
caratterizzavano la comunità. Le attività erano
quelle indispensabili per produrre gli alimenti; il resto della
giornata era passato nella preparazione dei cibi che veniva
svolto all’interno dei nuclei familiari in relazione con
l’intera comunità e nelle feste, nel parlare, nella
creazione di oggetti d’uso e di ornamento.
Una organizzazione spaziale che comporta una dimensione sociale
e temporale specifica, basata sulla stabilità delle relazioni
tra comunità e ambiente e tra gli individui all’interno
della comunità.
osservazioni
sulla contemporaneità
Di marchio
in marchio
I giocattoli contrassegnati da marchi riconosciuti consentono
di garantire alcuni caratteri tecnici degli oggetti (i materiali,
le forme, la durata, tanto per parlare di caratteri tecnico
formali) ma non consentono di garantire la completa qualità
dei giochi (le modalità produttive, il modello culturale
ecc.).
Così nella nostra società ci si trova di fronte
a pistole, fucili e bombe, aerei da bombardamento, video giochi
che sconvolgono la psiche e i comportamenti, riferiti a modelli
economici e sociali allibenti, ma tutti assolutamente in norma,
e bambole di pezza costruite in casa, o non verificate dal marchio,
assolutamente fuori norma.
Sorge spontaneo il dubbio che l’interesse dei marchi sia
più prossimo a quello delle multinazionali dei giocattoli
che a quello dei bambini.
Strade,
ambiente e pubblicità
Nel mese di dicembre sono state pubblicate su riviste e quotidiani,
quasi contemporaneamente, due pubblicità che hanno fatto
vacillare le nostre certezze.
La pubblicità «Lavoriamo per gli automobilisti
di oggi e per quelli di domani» della Società
Autostrade per l’Italia. Si legge: «Per unire l’Italia,
abbiamo costruito una rete di 3.400 Km di autostrade»;
a parte il riferimento risorgimentale ai «padri della
patria», a cui era già stato riconosciuto il seppur
non esclusivo merito di avere unito l’Italia, la società
Autostrade è un soggetto concessionario della manutenzione
e gestione della rete stradale, i finanziamenti sono dunque
pubblici e la programmazione, il piano nazionale dei trasporti,
pure. La frase esatta sarebbe dovuta essere «su indicazione
del Ministero e con i soldi dei contribuenti abbiamo partecipato
a dare in appalto la costruzione di 3.400 ecc., ecc.»
Ma al di là della titolarità dei meriti e delle
proprietà, che perniciosamente viene ribadita nell’ultima
frase «ecco perché il futuro passa per le nostre
strade», e della comunicazione che tende a mostrare il
concessionario quale soggetto senza fini di lucro, quasi una
Onlus, piegata alla realizzazione del bene comune, appare spropositata
la dichiarazione che quanto fatto sia stato operato nel «rispetto
dell’ambiente», come spericolatamente dichiara una
frase successiva. I tracciati autostradali sono tra le maggiori
fonti di impatto sia in fase di costruzione che di esercizio:
la trasformazione del paesaggio, l’inquinamento da rumore,
le emissioni degli autoveicoli, le interazioni con la rete idrica
superficiale, con il tessuto agricolo con gli ecosistemi, l’occupazione
di suolo sono tutti fattori che rendono la costruzione e il
funzionamento di un autostrada ambientalmente molto delicato.
Se questo è l’onere imprescindibile per la costruzione
di tali infrastrutture, il «rispetto dell’ambiente»
dovrebbe tramutarsi in una particolare attenzione nella loro
progettazione e costruzione. Una attenzione tesa a ridurre la
quantità delle infrastrutture a vantaggio di altri vettori
meno inquinanti ed energeticamente più efficienti, a
migliorare un oggetto che, è noto, comunque comporta
gravi impatti. Una attenzione ai tracciati, alle interazioni
con il tessuto insediativo e con la popolazione, in sintesi
ad una qualità di progetto a cui corrisponde un quantificabile
finanziamento e dei risultati plausibili.
Questo certo non appare percorrendo la rete autostradale. Ad
esempio, rispetto all’iniziale configurazione, nell’adeguamento
a tre corsie della Milano Napoli, gli impatti sono aumentati
in ragione del mantenimento del vecchio tracciato e di una approssimazione
nelle rifiniture derivata da una ridotta attenzione progettuale.
Un «rispetto per l’ambiente» non si riscontra
né nel tracciato che da Vittorio Veneto porta a Pian
di Vedoia, con un lungo ed alto viadotto fondato sulle sponde
di tre laghi, né nei progetti delle Pedemontane, né
nella ridotta capacità di risolvere le interazioni con
le popolazioni esposte all’inquinamento da rumore.
La seconda pubblicità «Le nostre migliori matite
disegnano il territorio», dell’ANAS, è
una vera e propria minaccia. Gran parte dei toscani conosce
lo stato dei rilevati e dei viadotti della superstrada Firenze
– Pisa – Livorno, che hanno ceduto quando erano
ancora in fase di costruzione, ed altrettanto bene conoscono
il lunghissimo viadotto/svincolo di interconnessione tra la
suddetta autostrada e la Livorno – Civitavecchia. Ma anche
gli abitanti della Basilicata conoscono gli svincoli e i tracciati
dell’Anas, progetti che hanno nel sud post-terremoto alimentato
imprese e prodotto opere dequalificate e degrado dei luoghi.
E tanti altri sono gli abitanti del paese che fanno i conti
con opere sbagliate, mal progettate, male eseguite; soluzioni
tecniche faraoniche e contemporaneamente inadeguate, una incuria
nei confronti dell’ambiente che è diffusa ed evidente.
Ebbene i progettisti ANAS, che possono essere segnalati tra
i massimi semplificatori della complessità progettuale,
si presentano così: «L’ANAS fornisce un contributo
quotidiano al miglioramento della vita dei cittadini non solo
per il recupero di aree a verde e patrimoni paesaggistici ma
anche..». E ciò viene detto anche in mancanza di
significativi riscontri in tal senso.
Ma l’apoteosi è la frase finale «Le nuove
strade, progettate e realizzate dell’ANAS, non separano
comunità, città ed ambienti ma unificano e riportano
unità ambientale». Che dimostra che, almeno a livello
di uffici-comunicazione, l’ANAS non abbia alcuna consapevolezza
di cosa sia un progetto e cosa un territorio.
La contemporaneità delle due pubblicità e l’insistenza
sulla questione ambientale fanno ipotizzare che i principali
soggetti interessati all’infrastrutturazione stradale
del territorio stiano tentando di sostenere la politica del
governo tentando di recuperare sulle critiche alle loro capacità
tecnico ambientali, più che con una qualità progettuale
ed esecutiva, con degli slogan.
La potenza della comunicazione commerciale, il disinteresse
delle redazioni (la pubblicità dell’ANAS era su
Liberazione) e l’ignoranza tecnica del lettore fanno il
resto.
Adriano Paolella
antiglo@mclink.it
Pubblicità
della Società Autostrade per l'Italia
La prima puntata di questa rubrica, dedicata
a “Energia e comunità”,
è stata pubblicata sul n. 295 di “A”. La
seconda, dedicata a “Governi,
comunità, mutamenti climatici”, è stata
pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La quarta apparirà
sul n. 300 (giugno 2004).
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