Nessun paese del nostro
pianeta ha programmato il suo futuro nei tempi lunghi.
Ciascuno di essi ha concentrato l’interesse nella definizione
delle proprie necessità in tempi ridotti; ciascuno di
essi ha pensato autonomamente ai propri bisogni alle proprie
aspirazioni, al proprio posizionamento politico, economico,
militare.
Ogni tentativo di far convergere le azioni in una strategia
comune si è risolta nella ricerca di un minimo denominatore
comune spesso così minimo da rendere gli impegni più
azioni di sensibilizzazione che effettive modificazioni delle
strutture produttive, insediative e relazionali.
La risoluzione della questione ambientale, di fatto, si scontra
con la gestione del pianeta per stati e per gli interessi che
li sostengono. Vi sarebbe necessità di grandi slanci
comuni, di fraternità tra i popoli, di evidenziare le
similitudini, mentre l’attuale condizione si fonda sui
dissidi di potenza e di sostanza (non ci sarebbero paesi se
non ci fossero contrasti tra i paesi), si fonda sulla sopraffazione
degli interessi di un soggetto a danno di altri.
I governi e i maggiori gruppi economici hanno grandi interessi
finalizzati al mantenimento ed all’incremento dei propri
benefici, grandi anche per gli effetti negativi che comportano
nel mondo, ma irrisori di fronte alle sofferenze ed al rischio
che adducono all’intera popolazione del pianeta.
Sarebbe interessante verificare fino a che punto si voglia trasformare
il pianeta e quale sia l’immagine del mondo che scaturisce
da queste trasformazioni.
Il più grande nemico di una qualunque ipotesi di riequilibrio
ambientale sembra essere la mancanza di percezione da parte
dell’individuo degli effetti delle azioni proprie e degli
altri.
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Ragionare su tempi lunghi
La domanda che dovrebbe essere fatta è: fino a quanto?
Fino a che velocità debbono andare gli autoveicoli? Fino
a che velocità debbono andare i treni? Quanti spostamenti
deve fare un individuo annualmente? Quante auto debbono circolare?
Quanta acqua può consumare un individuo? Quanti prodotti
deve acquisire? Quanto deve mangiare? E quindi, quanti metri
quadrati di abitazione, quanti elettrodomestici, quanta energia
per ottenere il benessere?
Si dovrebbe sapere non quello che si attende per quest’anno
o il successivo ma qual è l’obiettivo a cui si
tende per i prossimi 500 anni e come si attua e quali trasformazioni
comporta.
Quante strade servono? E ancora dopo quante altre? Quando finirà
la necessità di costruirle? Alla fine saranno sufficienti?
Serve il legno: perché, quanto? Tutto? Bene si dica:
«il programma mondiale è l’eliminazione di
tutte le foreste e la loro trasformazione in legno».
Solo evidenziando il programma futuro, che potrebbe essere mostruoso,
si potrà uscire dalla consuetudine consolidata di continue
azioni di predazione e di trasformazione ed eliminarne l’assuefazione.
La grande capacità del modello economico e sociale è
produrre modificazioni in maniera tale che nel momento della
loro constatazione non possano che sembrare plausibili e ragionevoli
divenendo così già assimilate, già esistenti
di fatto.
Nelle città contemporanee il parlare di superamento dei
limiti massimi di inquinamento appare poco allarmante in quanto
il cittadino è già abituato all’idea che
si possano superare dal momento che egli ha già vissuto
tale situazione ed è sopravvissuto.
È divenuto plausibile un mondo in cui l’aria sia
piena di anidride carbonica, l’acqua non sia potabile,
il rumore sia assordante. È diventato plausibile essere
costretti a rinserrarsi in casa alcuni giorni all’anno
per il troppo caldo o perché si è superata la
soglia di tollerabilità dell’inquinamento e sentire
messaggi che invitano i bambini e gli anziani a non uscire nelle
ore pomeridiane; è diventato plausibile comprarsi l’acqua
in bottiglie per dissetarsi, installare le finestre fonoassorbenti
per poter parlare in casa udendosi l’un l’altro.
Nonostante siano stati intaccati i beni primari, quali l’aria
e l’acqua, nonostante sia costretto a pagare per avere
ciò che per tutti dovrebbe essere un diritto, l’individuo
«occidentale» si è già assuefatto.
La coscienza che il pianeta sia un sistema complesso all’interno
del quale l’uomo opera provocando e subendo effetti, unita
alla consapevolezza del suo profondo stato di alterazione, ha
motivato un crescente interesse nel ridurre le conseguenze negative
comportate dall’attività umana attraverso il miglioramento
dell’efficienza ambientale dei prodotti e delle trasformazioni.
Si è affiancata così, all’azione del conservare
aree geografiche o specie animali attraverso la loro diretta
protezione, quella di definire pratiche in grado di riequilibrare
le interazioni tra uomo e ambiente al fine di ridurre il carico
di alterazione prodotto dal primo nel secondo.
Interazioni tra uomo e ambiente
La conoscenza delle articolate interazioni esistenti tra uomo
e ambiente ha fatto maturare l’ipotesi che la soluzione
dei problemi, per quanto semplice, dovrà comunque considerare
la complessità del sistema e superare i limiti posti
dall’agire settoriale.
Il paesaggio è la forma dell’ambiente in quanto
sintesi percettiva della qualità della natura, del peso
dell’azione umana, della storia, e quindi dei caratteri
delle comunità insediate.
Esso è la risultante dell’insieme delle azioni
umane, per quanto disciplinate o incontrollate possano essere,
e indica principalmente le modalità di interloquire tra
attività e sistemi naturali.
Le ragioni della dequalificazione del paesaggio, nella massima
parte dei casi, non sono collegate alle scelte formali ma agli
interessi economici, alla tecnica e alla cultura che le motivano
e le sostengono. Quando si percepiscono negativamente tali interventi
di fatto si rifiutano i modelli cui essi si riferiscono.
È anche per questo che elementi tradizionali costruiti
nell’ambito di economie di sussistenza e non speculative,
per il benessere della comunità e non per il profitto
di qualcuno, appaiono più frequentemente qualificare
il paesaggio.
La qualità del paesaggio migliora quando si ricomponga
la relazione tra la comunità e il sistema naturale. Il
paesaggio è infatti anche il prodotto delle modalità
di vita di ciascuno.
La considerazione del paesaggio quale risultante del comporsi
dell’azione umana in un contesto naturale non implica
la necessità di «costruire» il paesaggio,
ma di progettarlo sistemicamente mirando al miglioramento complessivo
della condizione paesistico-ambientale attraverso l’inibizione
di fenomeni degenerativi prodotti dallo sviluppo incontrollato.
Organicità della scelta
Con queste premesse il progetto di un qualunque oggetto, manufatto,
azione non è mai chiuso all’interno di una specifica
competenza o di un determinato luogo ma spazia attraverso le
diverse competenze settoriali a ricercare l’organicità
della scelta avendo come fine la risoluzione di un problema
sistemico.
Il progetto si configura come un processo temporalmente esteso
in cui le fasi ideative, realizzative, manutentive e gestionali
sono congruamente connesse, si configura come il mezzo a disposizione
della società per orientare, per correggere gli eccessi,
per valutare i risultati raggiungibili e per definire le azioni
da compiere.
L’ambito operativo della progettazione è di determinare
soluzioni capaci di trascendere gli interessi immediati dei
singoli e di rispondere ai doveri più stringenti verso
comunità e ambiente con soluzioni non contingenti ma
che rimandano ad una correttezza dell’agire estesa al
di là dello specifico contesto disciplinare, procedurale,
normativo.
L’ambiente all’interno del processo progettuale
è variabile inalienabile nella determinazione delle scelte;
il mantenimento o il miglioramento delle condizioni del sistema
naturale diviene obiettivo prioritario di qualunque progettazione
e ciò implica la considerazione della società
che con esso interagisce e quindi recupera la funzione sociale
del progetto medesimo.
Ma in realtà, nella società occidentale attuale,
la felicità della comunità viene perseguita attraverso
l’idea di «progresso», ma non vi può
essere felicità in una società in progresso. La
definizione di un nuovo strumento o di una nuova situazione,
anche quando finalizzato al benessere, prevede l’assimilazione
del suo uso e ciò avviene nel tempo.
Il progresso modifica e la modifica richiede uno sforzo di adattamento
che inibisce in quel momento la soddisfazione (vi sarà
forse soddisfazione nel sapere di poter raggiungere una situazione
diversa in cui si spera di poter stare meglio). Quindi la società
in continuo progresso è insoddisfatta dello stato precedente,
ovvero quello che motiva la ragione della ricerca di soluzioni
in progresso, e in attesa di soddisfazioni dallo stato successivo
e dunque è in uno stato di perenne insoddisfazione.
Questa condizione è aggravata quando l’innovazione
non integra, ma sostituisce la soluzione precedente: la non
conservazione è una dispersione di valori e di identità.
Il progresso porta innovazioni finalizzate per gran parte al
lucro; esse, non sono richieste dalla collettività, né
per la necessità né per il piacere, ma insinuano
nuovi desideri.
Il ritmo di quello che viene nominato progresso risponde per
gran parte all’evoluzione del mercato e dei profitti e
non a quello degli uomini, risponde alla ragione di dover guadagnare
di più, alla ragione di dover muovere sempre più
le merci e questa frenesia struttura il tempo delle città
che non corrisponde al tempo degli individui.
Una società in progresso è una società
infelice e le sue città sono luoghi che rappresentano
tale stato di costante alterazione.
Riduzione degli effetti negativi
Posto come obiettivo il miglioramento delle condizioni ambientali
del pianeta e la qualità di vita degli uomini, ci si
attende che la ricerca scientifica si muova contemporaneamente
nella direzione di un aumento dell’efficienza delle trasformazioni
e delle azioni dell’uomo e di una riduzione degli effetti
negativi che esse comportano, e non nella direzione di una indiscriminata
corsa verso il «progresso».
Il benessere della popolazione, il miglioramento delle condizioni
di vita e la riduzione del degrado ambientale dovrebbero essere
il motore primo della ricerca scientifica e dell’evoluzione
tecnica; ma la congruità tra i percorsi di ricerca e
gli obiettivi dichiarati non sembra una costante riscontrabile.
Le soluzioni tecniche che non siano uno strumento sociale ed
ambientale sono solo mercato e quindi sono fortemente caratterizzate
nella direzione di soddisfare gli indotti e nevrotici bisogni
di quei sette, ottocento milioni di individui viziati che costituiscono
il mercato iperconsumistico e ricco.
Ignorando il sistema e la sua complessità, la ricerca
è sterile e va verso direzioni i cui benefici non rispondono
ad una effettiva domanda diffusa e ciò fa emergere quanto
sia indispensabile ricomporre le relazioni tra ricerca, finalità
e progetto.
Adriano Paolella
(selezione dal volume curata da Zelinda Carloni)
Adriano
Paolella (Napoli 1955), docente di Tecnologia dell’Architettura
presso l’Università Mediterranea di Reggio
Calabria, esperto di progettazione ambientale, è
direttore di “Attenzione”, la rivista
del WWF Italia.
Abitare
i luoghi
insediamenti, tecnologia, paesaggio
BFS edizioni, pagg.143. Prefazione di Carlo Blasi,
introduzione Salvatore Dierna.
Collana “Rovesciare il futuro”, euro 13,00
www.bfspisa.com
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