Mentre scrivo è
ancora incerta la sorte degli ostaggi italiani in mano alla
guerriglia irachena. Ma qualunque sia l’esito della vicenda
occorre fare alcune considerazioni che riguardano aspetti scarsamente
indagati dai commentatori politici di casa nostra, troppo occupati
a sottolineare la brutalità barbarica dei sequestratori
esercitata nei riguardi di poveri immigrati in cerca di lavoro.
Releghiamo, quindi, in un canto i quintali di melassa patriottarda
versati su questa vicenda, affermando però con chiarezza
e preliminarmente che non abbiamo alcuna simpatia per i soldati
di ventura, la cui sorte, quale che sia, è inclusa nel
prezzo di ingaggio.
Dunque la situazione è la seguente. Il 9 di aprile un
commando di incerta natura intercetta quattro italiani armati
che viaggiano in direzione del confine giordano, li cattura,
manda la loro fotografia ad
Al Jazeera e, quasi subito, per ragioni che sono tuttavia
oscure, ne uccide uno, Quattrocchi. Anche dell’esecuzione
i sequestratori mandano un filmato all’emittente araba
che, per ragioni poco credibili, l’emittente non diffonde.
Passano alcuni giorni e un nuovo filmato arriva questa volta
ad Al Arabja, nel quale i tre superstiti appaiano seduti
a terra, alla maniera araba, dinanzi ad un basso tavolo imbandito.
Si vede subito che i tre mangiano assai di malavoglia, ma il
particolare che colpisce è che, al contrario del primo
filmato, il luogo di segregazione appare molto più ospitale:
la stanza è pulita con cura e gli italiani indossano
linde tuniche bianche. È chiaro che gli ostaggi sono
stati passati di mano, verosimilmente ad altra struttura della
resistenza, in grado di gestirne politicamente la sorte.
Consenso vile
E, infatti, arrivano presto le condizioni del rilascio. Oltre
ad aiuti umanitari, che, del resto, la Croce Rossa aveva già
faticosamente e perigliosamente cominciato a distribuire alla
popolazione di Falluja esausta per l’assedio delle truppe
americane, i sequestratori chiedono che l’Italia organizzi
una grande manifestazione popolare a sostegno della lotta del
popolo iracheno, da tenersi nella capitale, entro cinque giorni
dalla data della richiesta. Come tutti sappiamo, il raduno,
per iniziativa delle famiglie degli ostaggi, ma col consenso
tacito (e molto vile) del governo ed esplicito dell’opposizione,
si tiene, come richiesto, a Roma il 29 di aprile e si conclude
con un messaggio del Papa a Piazza San Pietro. Sembra, a questo
punto, che il calvario degli ostaggi possa aver termine, ma
non è così perché la Falange verde di Maometto,
così si autodefinisce il gruppo che detiene gli ostaggi,
alza il tiro e chiede che il governo italiano intervenga presso
i curdi del Kurdistan perché rilascino i prigionieri
iracheni nelle loro mani, lasciando intendere che, nel frattempo,
lo stato giuridico (?) degli ostaggi è cambiato: adesso
non corrono più il rischio di essere giustiziati e saranno
tenuti in buona salute sempre che continui la disponibilità
del governo italiano a rispondere positivamente alle sollecitazioni.
Quelli che sono in mano agli americani nel settore amministrato
dai curdi non sono detenuti qualunque; sono, nella maggior parte,
guerriglieri di Ansar al Islam, formazione che si ritiene vicina
ad Osama Bin Laden. Quindi non si tratta più –
adesso è certo, anche se appariva assai probabile sin
dal primo messaggio dei sequestratori – di intavolare
una trattativa diplomatica con il pagamento di un riscatto e
qualche blanda concessione alla visibilità della guerriglia,
ma di una vera e propria richiesta di intervento politico che
mira ad influire sulla gestione stessa della guerra, ponendo
in grande difficoltà la coalizione degli occupanti, ai
quali viene affidato il fiammifero acceso della sorte degli
ostaggi italiani.
Mentre scrivo, lo ripeto, non è ipotizzabile l’evoluzione
di questa aggrovigliata vicenda, ma, quale che essa sia, non
può eludere una domanda che sin qui pochi si sono posti:
perché questa sorte è toccata proprio agli italiani?
La guerriglia ha avuto nelle sue mani stranieri provenienti
da ogni latitudine: francesi, canadesi, danesi e persino cinesi,
coreani e giapponesi, per non parlare degli americani. Allora
perché caricare di valenze politiche così complessive
la sorte di quattro italiani sconosciuti, vigilantes, come tanti
altri, al servizio delle industrie americane?
Guerra dissennata
La risposta non è facile. Scartiamo subito l’ipotesi
poco credibile che i nostri connazionali appartenessero ai servizi
segreti: il Sismi ed il governo lo hanno escluso e, a conferma,
parlano i curricula personali, e le stesse modalità
d’ingaggio che li hanno portati in Iraq. Allora? Proviamo
a ragionare. La dissennatezza di questa guerra è ormai
palese alle stesse potenze che l’hanno scatenata. Malgrado
le dichiarazioni spesso deliranti di Bush, di Blair e del caricaturale
Berlusconi, il quale, in tutta evidenza, quando parla di queste
cose, non sa di cosa parla, la verità che balza subito
agli occhi è che nessuno sa ancora come uscire dal ginepraio.
Per di più cominciano le defezioni, quella della Spagna
di Zapatero in primis, ma anche quelle parziali annunciate da
polacchi, coreani e giapponesi. Dell’ONU non si può
tener conto perché, come abbiamo già avuto modo
di osservare, non possiede né la credibilità politica
né le risorse necessarie per intervenire. La missione
del suo ultimo inviato, Brahim, ha partorito la proposta di
una nuova risoluzione che mortifica ulteriormente il ruolo delle
Nazioni Unite, chiamate, in pratica a contribuire a pagare i
costi della guerra senza ricoprire, nel futuro iracheno, alcun
ruolo, né militare né amministrativo che non sia
subordinato alla volontà e alla supervisione della Casa
Bianca. A queste condizioni, ammesso che Kofi Annan giunga a
proporla al Consiglio di Sicurezza, è assai improbabile
che Russia, Cina, Francia, Germania e Spagna la lascino passare.
Questo per quel che riguarda la eventuale mediazione dell’ONU,
nel caso che decida di tentarla. Per di più le opinioni
pubbliche degli stessi paesi che formano la coalizione sono
nella stragrande maggioranza contrarie a continuare la sconsiderata
avventura irachena e gli stessi americani, anche se sempre obnubilati
dallo spirito della conquista, non sono più tanto sicuri
dell’esito finale della guerra e osservano costernati
la lunga teoria delle bare imbandierate che attraversano le
loro strade e le immagini scioccanti delle torture che i loro
concittadini in armi infliggono ai prigionieri di guerra iracheni,
immagini impietosamente riproposte dalle emittenti televisive.
In questo contesto, il calcolo politico della guerriglia irachena
è manifestamente quello di forzare l’anello debole
dell’alleanza già così provata. L’Italia
di Berlusconi è ormai una corte dei miracoli che ha perduto
ogni orientamento e affronta le emergenze con l’improvvisazione,
il più delle volte rozza e pressappochista, di chi è
privo della benché minima cultura politica e di una riconoscibile
tensione morale. Vedere la “più grande potenza,
dopo l’Inghilterra, alleata e amica dell’America
di Bush” – come ha proclamato in uno dei suoi soliti
vaniloqui il nostro primo ministro – supplicare i partner
perché non l’abbandonino in una emergenza così
angosciante, dev’essere apparso agli accorti mujahiddin
spettacolo così poco edificante da incrinare ulteriormente
il fronte della guerra ad ogni costo.
Il Berlusconi intrappolato
Così Berlusconi è intrappolato in una ragnatela
tipicamente mediorientale. Se lascia morire i suoi connazionali
senza intervenire presso gli alleati – come sarebbe tentato
di fare se si dà credito al suo cinismo di fondo –
la sua immagine, già precaria, subirebbe il tracollo
definitivo. Se, invece, intervenisse senza ottenere risultati
apprezzabili (il che è quasi certo perché è
impensabile che la vicenda di tre soldati di ventura possa modificare
gli indirizzi della presunta guerra al terrorismo), l’intero
governo italiano e il suo tronfio primo ministro sarebbero unanimemente
designati come gli unici responsabili del cattivo esito della
trattativa. Con le elezioni europee alle porte, per il centrodestra
sarebbe la catastrofe. E a quel punto il ritiro del contingente
italiano dall’Iraq sarebbe evento inevitabile. Come si
vede, il calcolo che traspare dall’impianto strategico
del sequestro – se non prendiamo un abbaglio – è
molto preciso e lascia pochi margini per le vie di fuga. Certo
potrebbero esserci pressioni dell’ala moderata dei sunniti,
il cui Consiglio degli Ulema si è già speso per
la liberazione degli ostaggi, a indurre i sequestratori a non
spingersi troppo oltre; ma occorrerà in questo caso un’alternativa
che non appaia come un cedimento senza contropartita adeguata.
Può darsi anche che gli americani si chiamino fuori dalla
trattativa e lascino mano libera ai curdi, che non sono belligeranti
e hanno ottenuto l’amministrazione del territorio che
occupano al nord del tormentato paese: ma pare che i curdi da
questo orecchio non ci sentano. Infine c’è l’opzione
militare: un colpo di mano dei corpi speciali italiani che individuino
il nascondiglio dove gli ostaggi sono tenuti segregati e tentino
di liberarli manu militare. Operazione rischiosa, sia
per la sopravvivenza dei reclusi, sia per l’ulteriore
deterioramento dell’immagine delle truppe italiane che
operano nel paese mediorientale.
Tutto comunque è possibile, ma è assai difficile
che il governo italiano esca indenne dal nodo scorsoio che gli
si stringe attorno al collo.
Antonio Cardella
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