Odii di classe e amori profondi
Il dolore perfetto è un romanzo-mondo, un romanzo
quanto mai ricco e complesso, dal quale emergono non soltanto
delle storie, ma la storia, la storia di questa
nostra Italia, dall’Unità ad oggi, che con i suoi
tempi e le sue scansioni viene narrata in parallelo con le vicende
anonime, eppure così emblematiche, degli anonimi protagonisti
di una storia collettiva che appartiene a tutti noi. E per noi
anarchici, che abbiamo l’opportunità, in queste
pagine, di ripercorrere molti dei passaggi cruciali che hanno
segnato la vita del nostro movimento, la lettura del romanzo
non può che essere particolarmente coinvolgente.
Infatti, in questo suo lavoro, vincitore meritatamente dell’ultimo
premio Strega (Il dolore perfetto, Mondadori, 2004),
Ugo Riccarelli narra le vicende di due famiglie toscane, sovversiva
l’una, piccolo borghese e conservatrice l’altra,
i cui destini si intrecciano inestricabilmente, così
come si intrecciano i destini e le vicende delle classi sociali
del nostro paese. E, nella lunga storia che parte dal 1870 per
arrivare a questi giorni, l’incontro fra la famiglia del
Maestro e quella dei commercianti di maiali, incontro segnato
da odii di classe e amori profondi, è anche lo scontro
delle due Italie, delle due classi, che dopo i conflitti duri
e drammatici della fine dell’ottocento e della nascita
e dell’affermarsi del fascismo, sembrano ricomporsi nella
pace sociale dei nostri giorni, quando le antiche asprezze della
lotta vengono a stemperarsi nella pacata quotidianità
dell’oggi.
Idee di redenzione sociale
È intorno al 1875 che il Maestro giunge al Colle, un
piccolo paese come tanti, sospeso fra i paduli toscani non ancora
bonificati e stravolti, nella loro millenaria quiete, dal fascismo.
Viene da Sapri, ancora fresca delle imprese di Pisacane, e porta
con sé le idee di redenzione sociale di Bakunin e Cafiero.
Accolto con amore e rispetto dalla piccola comunità,
trova l’amore nella vedova Bartoli, dolce e intelligente
compagna di vita e di idee. Tra una peripezia e l’altra,
tra un esilio, un periodo di clandestinità, un soggiorno
nelle regie galere, nasceranno dalla loro unione quattro figli,
quattro vite che portano nei nomi, Ideale, Mikhail, Libertà
e Cafiero, le speranze e i progetti di un mondo migliore. E,
forse proprio per questo, quattro vite destinate a spegnersi
tragicamente, a pagare drammaticamente la coerenza loro e quella
dei genitori. Intorno, un piccolo grande mondo di compagni,
di sovversivi, di popolani istintivamente libertari, fedeli
e solidali, che nella massima semplicità si rendono interpreti
delle idee di rivolta e libertà che li animano. E vediamo
così la Baronata, la colonia Cecilia di Giovanni Rossi,
i tentativi insurrezionali di Costa e Malatesta, e le retate,
la repressione, le guerre coloniali, Adua e la Libia, e i moti
del 1898, quando a Milano il Maestro cade colpito dagli uomini
di Bava Beccaris. Sarà Cafiero, il più giovane
dei figli, concepito in uno dei rari momenti di libertà
goduti dal Maestro negli ultimi anni di vita, a determinare
l’incontro con la famiglia dei Bertorelli, scaltri commercianti
di maiali, ancora intrisi della cultura contadina che li ha
formati, ma inevitabilmente destinati, per censo e ricchezza,
a divenire i futuri padroni del paese, gli esponenti della nascente
borghesia, il brodo di coltura del fascismo. Tutti i componenti
di questa famiglia portano nomi omerici: Sparta, Ettorre, Telemaco,
Oreste, Paride..., quasi a segnare l’indissolubilità
della loro origine e del loro “aulico” destino,
e solo i figli di Rosa e Ulisse, Annina e Sole, marcheranno,
nella diversità del nome, la capacità di sottrarsi
al bizzarro conformismo famigliare. Il secolo nuovo, lungi dal
garantire libertà e serenità, porta con sé
le infamie del colonialismo, gli orrori della grande guerra,
il mostro dell’epidemia di Spagnola, la nascita del fascismo.
Non c’è tragedia che non colpisca anche le due
famiglie, come non ci fu tragedia che non segnò drammaticamente
l’Italia proletaria; ma le opportunità di riemergerne
non saranno le stesse. Nel culmine del biennio rosso, Annina,
perdutamente innamorata del suo Cafiero, per il quale ha rinnegato
i legami con i Bertorelli, vede morire il suo amato assieme
al fratello Ideale, entrambi uccisi dagli squadristi assoldati
dagli zii, ed è così costretta a capitolare, accettando
di dare il cognome che disprezza ai suoi tre figlioli, per non
vederli ridotti alla fame. La famiglia del Maestro, dunque,
la famiglia sovversiva, la stirpe proletaria e ribelle, sembra
così sconfitta dal potere politico ed economico della
nuova borghesia (i due zii Bertorelli sono ora il Podestà
e l’industriale di Colle) e destinata ad annullarsi nel
consenso di massa che il fascismo ha creato. Ma, come un fiume
carsico, il tenace antagonismo di Annina, rimasta fedele al
ricordo e alle idee di Cafiero, saprà ritrovare la strada
per affermarsi e prendersi tutte le sue rivincite quando la
guerra scatenata dal nazifascismo trascinerà alla rovina
Mussolini e il suo regime. E negli anni di questo secondo dopoguerra,
fino ai giorni nostri, troveranno la loro conclusione le vicende
della famiglia Bertorelli e della famiglia del Maestro. I contrasti
si smusseranno, le tensioni troveranno altri sfoghi che non
nella politica e nello scontro sociale, ma le due anime continueranno
a mantenere, anche se sommessamente, i loro caratteri originari.
Una continua metafora
Ho letto questo romanzo, avvincente e splendidamente scritto,
come una grande metafora, una continua metafora che riflette,
come spero di essere riuscito a spiegare, l’evoluzione
della società italiana attraverso le trasformazioni e
le storie di due famiglie “esemplari”: una proletaria,
generosa, ribelle e sovversiva, e l’altra borghese, conservatrice
e attenta solo agli interessi e al potere. Un’evoluzione
destinata, sembra ricordarci l’autore, a trovare comunque
un punto finale nel quale quell’umanità che contraddistingue
ogni individuo verrà a prevalere sulle asprezze inevitabilmente
determinate dalle condizioni sociali. È l’umanità,
infatti – la profonda umanità, che segna i personaggi
del romanzo – l’altra chiave di lettura di questa
opera. Un’umanità fatta di indissolubili affetti
fraterni, di amori sconfinati capaci di superare le tragedie
della vita, di parole sommesse e racconti fantastici in grado
di lenire quei continui “dolori perfetti” che si
riflettono nel travaglio del parto e nella ineluttabilità
della morte, di vite destinate ad affrontare con primitivo stoicismo
le continue avversità che, inesorabili, spezzano esistenze
che si vorrebbero felici. Ed emergono, da queste tragedie esistenziali,
indimenticabili figure di donne, ferme e indomabili nella loro
volontà di perpetuare la vita, quasi fossero loro il
meccanismo del moto perpetuo che Ideale, il figlio dell’Annina,
cerca inutilmente di creare negli ingranaggi di una macchina
favolosa.
Un grande romanzo, dunque, un romanzo corale nel quale i protagonisti
sono parte di una storia che li trascende, ricomponendo la loro
individualità in una vicenda collettiva che ripercorre
le vicende del nostro paese. Così come ripercorre, nella
loro essenzialità, le vicende che hanno visto protagonista,
in questi anni, anche il nostro movimento. E infatti il ritratto
che Riccarelli traccia del Maestro e dei suoi figli si dilata
per diventare il ritratto, la foto di gruppo dei tanti Maestri,
Cafiero, Ideale e Libertà che hanno animato, e che ancora
animano, il movimento anarchico in Italia.
Massimo Ortalli
Non riconosceva autorità
di Ugo Riccarelli
L’amore avvolse la vedova Bartoli e il Maestro in modo
talmente inevitabile che nessuno, dal Colle fino alla Piana
e oltre, si stupì mai di quell’unione che avrebbe
invece potuto essere causa di pettegolezzi e chiacchiere d’ogni
tipo, se non altro per la marcata differenza d’età
degli amanti e, comunque, per lo scandalo che essa avrebbe potuto
rappresentare visto che, nei molti anni del loro amore, anche
quando nacquero figli e le difficoltà non mancarono,
essi non manifestarono mai neppure la minima intenzione di regolarizzare
quel rapporto attraverso il matrimonio.
Del resto, per le sue convinzioni anarchiche, il Maestro non
riconosceva autorità né allo Stato né alla
Chiesa e, in ogni caso, dal giorno della sua prima passeggiata
assieme al giovane uomo, la vedova Bartoli non aveva mai fatto
cenno alcuno all’eventualità di un loro matrimonio.
Semplicemente, appena rientrati a casa sul far della sera, servita
la cena ai pensionanti e finito di rigovernare, lei e il Maestro
iniziarono la loro vita coniugale, dormendo nella camera matrimoniale
e trasformando la vecchia stanza di lui in uno studio zeppo
di carte e di libri che fu, per sempre, il rifugio tranquillo
delle sue letture.
Nel tempo, quando la stazione fu terminata e la ferrovia si
allungò ben oltre il Padule Lungo, verso altre pianure
e altre città, i figli che nacquero dalla loro unione
occuparono le stanze che erano state dei due capisquadra, e
la casa vicino alle mura sembrò ringiovanire tra la confusione
di quella insolita famiglia e l’amore che i due seppero
sempre mantenere intatto.
In una camera dormiva Ideale, il loro primogenito, e in seguito
vi dormì anche Mikhail, di diversi anni più giovane,
mentre la più piccola, Libertà, avrebbe occupato
la stanza accanto a quella di Bartolo che, molti anni più
tardi, sarebbe stata di Cafiero.
I ragazzi crebbero respirando la serenità che la vedova
seppe sempre manifestare, anche nei momenti più difficili
che la vita riserbò loro, e nonostante le lunghe assenze
del padre.
In quel paese arroccato sulla collina da secoli, avvolta dall’alone
magico dell’amore tra la vedova Bartoli e il Maestro,
la casa accanto alle mura fu, per molti anni, quasi un porto
franco in cui la loro vita e quella dei figli poté svolgersi
al riparo dalle malignità e dalle spietate regole delle
istituzioni. Finché tra il Colle e il Padule il tempo
scorse lento, la particolare indole degli abitanti di quei luoghi
evitò ai due amanti ogni tipo di problema che sarebbe
potuto sorgere da quell’unione e da quelle nascite al
di fuori di ogni regola, soprattutto per chi, come il Maestro,
doveva sostenere un ruolo così autorevole come quello
di insegnante.
E anche quando la Storia e il Progresso arrivarono come una
bufera sopra quella famiglia, pretendendo di dare una forma
rigida a quello che era, in fondo, solamente il prodotto di
un sogno, gli effetti devastanti provocati dal peso dell’ordine
non riuscirono a cancellare completamente dalla memoria di Colle
Alto il senso di felicità che l’unione di quelle
persone aveva comunque generato.
Quando tutto fu stato, transitando nel punto dove al posto di
una stazione di servizio un tempo sorgeva la casa accanto alle
mura, i figli dei figli dei figli di chi aveva conosciuto da
vicino quella felicità non riuscivano a trattenere un
sorriso o una parola gentile verso il luogo dove s’era
svolta una storia che i più ricordavano come una bella
favola, come un momento di tranquilla luce nel turbinare dei
loro giorni affrettati.
L’unico che all’epoca dei fatti ebbe qualcosa da
ridire fu il parroco di San Venanzio, don Ubaldo, che una settimana
circa dopo la nascita di Ideale, una sera con un tempo da lupi
scese dalla canonica di fronte alla Rocca per benedire quella
nuova pecorella, visto che nessuno della famiglia si era degnato
di presentarsi a iscrivere la piccola anima al registro parrocchiale.
Lotta di poveri contro poveri
di Ugo Riccarelli
Il Maestro si affacciò alla finestra della sua stanza.
La campagna della Camargue tremolava cotta dal calore di un
sole spietato. Girando lo sguardo verso le saline vide brillare
il mare sotto il filo dell’orizzonte, e gli sembrò
il Padule Lungo.
Pensò al Colle, alla vedova, a Bartolo e Mikhail i cui
volti, dopo tanti anni di lontananza, stavano diventando ricordi
confusi, miraggi trasparenti come gli alberi che il calore stava
sciogliendo nella pianura.
Andò al tavolo e prese tra le mani una lastra di metallo.
La mosse leggermente, e la luce che filtrava dalla finestra
disegnò sul dagherrotipo i lineamenti di quella giovane
figlia che non aveva mai conosciuto. Quasi per una rivalsa sul
destino, aveva deciso di chiamarla Libertà.
La fuga, l’esilio, la solitudine gli parvero come un sacrificio
necessario a mantenere la propria libertà.
Il Maestro allora si sedette al tavolo e scrisse:
- Mia adorata, dalla finestra di questa casa straniera vedo il
filo del mare che luccica, come luccicava il Padule la sera
in cui conobbi il vero amore. È sale che brucia su questa
mia lontananza, sacrificio comunque essenziale per la mia e
la vostra Libertà.
Maniero mi informò degli ultimi arresti a Firenze, Bologna
e Milano. Dunque la ragione della mia fuga, anche dopo tutto
questo tempo, non fu insulsa e il sacrificio non vano. Rimane
questa lontananza ch’io confido possa essere ormai alla
fine. Un grande progetto mi sta prendendo il cuore, in quella
piccola parte che l’amore per te lascia ancora libero.
Mannuzzu giunse lo scorso venerdì in uno stato di eccitazione
e di felicità che mai vidi nel nostro amico. E sì
che ne passammo insieme, e in quante occasioni ci trovammo coinvolti
tra entusiasmo, passione e paure! Lo calmai, lo feci accomodare
di fronte a un bicchiere di buon vino ben fresco, e dunque finalmente
egli mi mise a parte di un suo incontro con l’anarchico
pisano Rossi, il quale verrebbe da incontrare un emissario dell’imperatore
Pedro II del Brasile.
Una storia strana questa, mia adorata, perché strano
e curioso è il destino degli uomini, e le loro qualità,
e i loro pensieri, il cui fondamento è spesso fondato
sul mistero e sulla combinazione, qual è senz’altro
il fatto che essendo l’imperatore a Milano a curarsi uno
stato febbrile, molto fastidioso e maligno, il Rossi l’abbia
contattato tramite il conte Mota-Maya, per esporre a questo
sovrano, che si vuole aperto e liberale, il progetto della comunità
anarchica di cui ti parlai, e che s’avrebbe da chiamare
Cecilia. L’imperatore avrebbe accolto con piacere lo scritto
del nostro Rossi, quello stesso "Un Comune socialista"
che ti feci avere per mano di Maniero affinché fosse
lettura pÈ ragazzi.
Se l’imperatore accettasse la proposta, potrebbe facilmente
donare il terreno necessario a iniziare l’edificazione
di questa nuova società, laggiù, tra le terre
brasiliane che si vogliono ampie, rigogliose, giovani e dunque
ottime per dare linfa alla nuova vita che andiamo cercando.
Adorata, non sembra dunque lontano il giorno in cui potremo
realizzare il sogno di riunirci assieme, in libertà,
senza costrizioni allo spirito nostro e dei nostri cari.
Ti faccio avere questa mia tramite Maniero, che come sai è
persona fidata e sicura. Ti metterà a parte anche dei
modi per i quali, tra sei settimane, potremo finalmente incontrarci
per due giorni nel luogo che tu sai, così come progettato.
Amore mio, è quel momento, ormai, assieme alla fiducia
nel mondo che costruiremo insieme, lo stimolo principale che
mi convince a questo lavoro pesante e ingrato, tra questi francesi
che trattano il fratello italiano come un reietto, disgraziato
e infame. È lotta di poveri contro poveri, aizzati da
chi ha interesse a separare i destini degli uomini, a rendere
così dura e difficile la lotta verso la vera civiltà.
Ma ora chiudo, pensando al nostro convegno: sarà esso
di due giorni interi, dopo tempo immemorabile. Sarà esso
il sogno. Lascio ai miei abbracci di allora il compito di raccontarti
tutto il mio desiderio e il mio amore.
Guardo dal dagherrotipo il volto di Libertà, e nel suo
nome, e nei suoi lineamenti, vedo la donna che mi prese l’amore.
Ora ti bacio e ti prego di portare a Bartolo il mio più
affettuoso saluto. Hai fatto leggere la mia ultima a Ideale?
Mi raccomando che consideri la lettura di Costa. Bacia Mikhail
e la piccola Libertà con tutto il calore possibile dal
loro padre lontano.
Il giorno in cui la polizia arrivò alla casa vicino
le mura, la vedova Bartoli era intenta a cucinare. Fece accomodare
chi stava cercando il suo uomo con la stessa cortesia con la
quale, per anni, aveva accolto i compaesani che l’avevano
aiutata ad affrontare una difficile solitudine.
L’ufficiale di polizia la interrogò con una certa
freddezza:
«Dov’è?» chiese solamente.
«A curare suo padre moribondo» rispose la vedova.
L’ufficiale guardò le carte che aveva appoggiato
sul tavolo:
«Sta morendo da sei anni?» disse con un tono sarcastico.
La donna non si scompose:
«È un uomo molto malato, e ha bisogno di tante
cure.»
In quel momento entrò un militare, e gettò sul
tavolo un fascio di lettere. L’ufficiale le guardò
e sorrise.
Dalla porta verso la strada arrivarono altri militari con il
piccolo Mikhail, Bartolo e Ideale.
L’ufficiale consultò le carte.
«Siamo qui in nome del Re d’Italia, per ristabilire
l’ordine e la ragione» disse – quindi si volse
verso i ragazzi, e con tono secco domandò:
«Chi di voi è figlio di Fosco Bartoli?»
Nessuno rispose.
L’ufficiale ebbe un moto di stizza. La vedova lo guardava
sorridendo, non pareva nervosa né spaventata, mentre
i suoi tre figli se ne stavano fermi, fissandolo dritto negli
occhi. Il più grande teneva persino le mani in tasca.
“Maleducati” pensò l’ufficiale, mentre
dava un cenno al soldato per far mettere sull’attenti
quei ragazzi.
«Chi di voi è figlio del Maestro?» domandò
quasi urlando.
Tutti e tre risposero all’unisono:
«Io.»
Il fazzoletto rosso e nero
di Ugo Riccarelli
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo camminò, e
da che parte, chi incontrò e che cosa gli dissero. La
prima cosa che il Maestro ricordò fu il viso di un vecchia
in lacrime che in una lingua sconosciuta e strana lo supplicava,
lo abbracciava, lo accarezzava.
Le mani della donna erano sporche di sangue, e lui pensò
potesse essere il proprio, o forse quello di Maniero.
Sorrise.
La vecchia lo stava spingendo verso un portone. I soldati. Gli
stava dicendo dei soldati che arrivavano. Gli stava dicendo
di scappare.
Il Maestro si voltò e vide dei cavalli e un gruppo militari
in fondo alla strada. Stavano andando nella direzione opposta
e non si sarebbero accorti di lui. Ringraziò la vecchia,
le diede una carezza e la salutò nel dialetto di Sapri.
Poi si voltò, e a passo lesto si diresse dove erano i
soldati.
Non sapeva con precisione che cosa avrebbe fatto. Pensava a
Maniero e a quegli altri volati in pezzi, vedeva le divise colorate,
i cavalli e forse anche i cannoni. In quei trecento metri per
la testa del Maestro passarono molte cose. La casa del Colle,
e il volto del fattore che ce lo aveva accompagnato. Marx, Ricardo,
Bakunin, la teoria del plusvalore e la miseria dei popoli. Una
pagina di Feuerbach, chiara e nitida, e il volto di una ragazza
che aveva amato in un fienile, ma non ne ricordò il nome.
Le ruote e i treni, e la prima volta che aveva toccato la mano
di suo figlio Ideale, appena nato. Vide di fronte a sé
delle parole e pensò a un discorso, forte e diretto.
La forza della vita, la disperazione degli oppressi, il colore
del sangue, le urla, ubbidire, ribellarsi. Tutto gli sembrò,
in quell’istante, talmente chiaro e banale da far male.
Come avrebbero potuto non capire?
Ne fu sicuro e accelerò il passo, cosicché quando
arrivò vicino ai soldati potremmo dire che quasi correva.
A pochi metri dal drappello vide Maniero assieme a Libertà
che lo teneva per mano. Pareva stessero salendo su un barcone
attraccato alla banchina.
"Salpano per Cecilia" pensò il Maestro, e un
sorriso di sollievo gli si spalancò sul volto. Il Sud
America, la nuova società libera per uomini liberi e
senza sfruttamento.
Il Maestro alzò le braccia verso il cielo e con tutto
il fiato che aveva in gola cercò di attirare l’attenzione
della figlia e dell’amico. Mise la mano in tasca per estrarre
il fazzoletto nero e rosso che lei gli aveva regalato.
«Libertà» urlò.
La strada terminava in una banchina sul Naviglio, e un gruppo
di militari si stava accostando a un barcone per caricarvi armi
e cavalli.
Qualcuno di loro vide un uomo solo arrivare a passo di corsa,
l’espressione stravolta e la camicia insanguinata. All’ufficiale
dissero poi che pareva un pazzo, così di fretta, scarmigliato
e lercio di sangue, e urlando "Libertà" a squarciagola.
Un soldato, superato di slancio, vide che l’uomo stava
estraendo qualcosa da una tasca. Si girò, impugnò
il fucile e fece fuoco. L’indemoniato proseguì
la corsa ancora per qualche metro poi cadde riverso, in avanti,
sulla sabbia, le mani protese come se stesse tentando di fuggire
tuffandosi nel Naviglio.
Dagli accertamenti risultò essere schedato agli archivi
giudiziari come sovversivo. Un anarchico, noto col soprannome
di Maestro.
Accanto a Libertà e Ideale
di Ugo Riccarelli
Se dunque furono le parole della Maddalena ad aiutarlo a nascere,
quelle dell’Annina e di Cafiero lo nutrirono di quanto
il suo cuore necessitava per rafforzarsi e affrontare la vita
che lo aspettava fuori dalla casa vicino alle mura. Una vita
che non esitò a dimostrarsi in tutta la sua durezza,
innanzitutto per le difficoltà economiche e poi per la
continua persecuzione che Soldani e i suoi sgherri riservarono
al figlio del Maestro. Non c’era occasione, in fatti,
in cui Cafiero non subisse minacce, intimidazioni o controlli.
Durante le visite al Colle e nelle città vicine di notabili
o funzionari governativi di spicco, veniva inoltre costretto
a presentarsi presso il Comando dei Carabinieri per essere interrogato
e trattenuto a scopo preventivo.
E una sera, la stessa del giorno in cui l’anarchico Lucetti
attentò alla vita del Duce di Roma, l’Annina, non
vedendo tornare Cafiero dal Padule, ormai a buio fatto gli scese
incontro lungo la strada con un presentimento angoscioso nel
petto. Attorno tutto improvvisamente le parve deserto, con un’immobilità
che non preannunciava nulla di buono. Iniziò a piovere,
e sotto quel pianto del cielo lei si sentì altrettanto
disperata. Ben oltre la fornace vide la bicicletta di Cafiero
a terra, accanto al muro. La raccolse e si aggrappò a
quel ferro nero come a una speranza, poi chiamò, urlò,
mischiò le sue lacrime a quelle della pioggia, riprese
a scendere verso il Padule e prima del canale grande lo vide,
seduto accanto a un paracarro. Allora lasciò andare la
bicicletta e si precipitò da lui, e gli asciugò
il sangue con le mani, e gli baciò gli occhi chiusi dalle
botte, gli carezzò le mani scorticate, e pure se lei
era uno scricciolo e lui una montagna di roccia ormai spezzata
riuscì a sollevarlo e ad appoggiarselo alle spalle, a
convincerlo con le parole più dolci a muovere lentamente
le gambe, un passo alla volta, un bacio dopo l’altro,
e in quel modo, come una pietà scolpita da un artista
pazzo e crudele, si riportò a casa quello che restava
del suo uomo, urlando nella pioggia contro Soldani e il Duce,
contro il Re e quel farabutto di Telemaco, e contro la viltà
di quelli che se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire
libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva,
animali vigliacchi che non erano altro.
Da sola portò al riparo Cafiero, lo asciugò, gli
medicò le ferite, gli preparò una tazza di vino
bollente addolcito da miele e da cannella e poi lo mise a letto
come un suo bambino, ed ebbe per lui e per le sue ferite lo
stesso amore che aveva per i loro figli. Gli si stese accanto,
nel buio, e ascoltò il suo respiro aspro, sussultò
per ogni suo gemito, raccolse ogni suo lamento. Sentì
la sua pelle da fredda diventare tiepida e poi bollente come
un tizzone, gli bagnò le labbra secche e pregò,
desiderò d’esser lei a soffrire, a morire, a sobbarcarsi
quella pena insopportabile, lo cullò per tutta quella
notte d’agonia stringendolo forte per impedirgli di arrendersi,
di aggrapparsi a un altro sogno e andarsene lontano come avevano
fatto la Rosa, l’Ulisse, e la Mena, e Sole, e tutti quelli
a cui lei aveva voluto bene.
Lo strinse, lo tenne abbracciato così a lungo e così
forte che la mattina il Nardo e la Morena dovettero staccarle
a fatica le braccia da quel corpo ormai gelato, per poi accompagnarlo
verso la Piana, in corteo con gli altri amici del Padule, a
regalargli un tempo più lieve, perché riposasse
per sempre accanto a Libertà e Ideale nel piccolo cimitero
della Pieve.
Brani tratti da: Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto,
Mondadori, Milano 2004. |