Misurarsi sulle ragioni della nostra militanza
di Cosimo Scarinzi
Quando,
con la pubblicazione di un mio articolo,
si è aperta la discussione fra diversi compagni sulla
questione sindacale non immaginavo né la varietà
né la profondità delle questioni che sarebbero
state sollevate.
È, a mio avviso, evidente che fra i compagni impegnati
in campo sindacale è forte l’esigenza di misurarsi
sulle ragioni profonde della nostra militanza e spero che quest’esigenza
sia condivisa anche da molti che non sono intervenuti siano
o meno “sindacalisti”.
Ritengo, a questo proposito che, se è vero che il sindacalismo
ha delle specificità che non possono essere eluse, le
questioni sollevate abbiano una valenza più vasta e riguardino
tutti i terreni dello scontro sociale.
Sebbene io sia un interlocutore di diversi dei compagni intervenuti,
è innegabile, ed è un bene, che lo scambio di
opinioni mi vede come una delle parti in causa e non mi ritengo
né in dovere né in obbligo di affrontare l’assieme
dei problemi sollevati.
Mi
limiterò a ricapitolare quelli che mi sembrano gli snodi
della discussione in corso:
- 1.
- l’esigenza di proporre e praticare un sindacalismo
di segno libertario. Condivido pienamente, a questo proposito,
quanto Claudio Strambi fa rilevare a Cristiano Valente. Se
è innegabile che nemmeno il miglior sindacato può
essere il luogo ove si afferma l’autogoverno sociale
visto che un sindacato è un’associazione di lavoratori
sul terreno della società capitalistica e statale è
altrettanto vero che l’indifferenza alle forme organizzative,
dal punto di vista libertario, comporta, nonostante le migliori
intenzioni, l’abbandono di quella continua critica pratica
alle relazioni sociali dominanti che è lo specificum
dell’anarchismo i genere e di quello classista in particolare;
- 2.
- la necessità di una riflessione seria sul nesso fra
organizzazione sindacale e movimenti di lotta. Non si insisterà
mai a sufficienza, a questo proposito, sulla centralità
dell’inchiesta. La lotta degli operai di Melfi, per
stare ad un esempio ben presente ai compagni, ci dice sul
rapporto fra organizzazione formale dei lavoratori e organizzazione
di lotta molto di più di quanto possiamo trovare in
un buon manuale sulle forme organizzative migliori. Appare,
in questa vicenda, con limpida chiarezza, la differenza fra
sindacato come struttura che organizza lavoratori atomizzati
e rete dei picchetti come comunità operaia che si riconosce
come tale. Nello stesso tempo, i limiti derivati da decenni
di inquadramento burocratico sono altrettanto evidenti;
- 3.
- non posso, a questo proposito, che concordare con alcune
note di Pietro Stara e Maurizio Montecchi sull’opportunità
di tenere presente la differenza fra i settori di classe che
esprimono le diverse organizzazioni sindacali, sui meccanismi
dell’inquadramento statale e padronale, sulla quotidiana
pratica sindacale. Ogni discussione sul sindacalismo, se tale
vuole essere, deve assumere il sindacato (i sindacati) per
quello che è/sono senza appiattimenti ma anche senza
cattive astrazioni e fughe nel voler essere;
- 4.
- un filo rosso che attraversa la discussione è la
questione della relativa necessità e della natura sociale
dell’apparato sindacale. Chi, a mio avviso, lo ha posto
con maggior secchezza e radicalità è Simone
Bisacca che propone una netta divisione fra tecnostruttura
ed organizzatori sindacali. Una divisione che, a mio avviso,
assume come necessario un’“assunzione libertaria”
della divisione tecnica del lavoro ma rimanda, e sarà
necessario tornare su questo punto, all’intreccio fra
divisione tecnica del lavoro e gerarchie sociali che vi si
appoggiano. Credo che non si debba, a questo proposito, cercare
rifugio in una qualche ortodossia e che, al contrario, proprio
l’esplicita assunzione della complessità del
problema sia condizione necessaria per discuterne a fondo
e, soprattutto, per trovare soluzioni efficaci ed interessati;
- 5.
- infine, lo sollevano esplicitamente Pietro Stara e Stefano
Capello ma tutti i compagni vi si richiamano in qualche modo,
vi è il nodo dello sviluppo di una cultura politica
libertaria e di una robusta corrente sindacalista che vi si
riferisca. In questo senso si è lavorato molto, con
esiti alterni, e molto da fare resta. Lo stesso spazio che
A Rivista Anarchica dà alla discussione sui
problemi che andiamo affrontando è un contributo prezioso
in questo senso.
Cosimo Scarinzi
Far male al nemico
di Simone Bisacca
Caro Cosimo,
non stiamo argomentando una critica del sindacalismo alternativo
nel senso di argomentazione del fondamento del sindacalismo
alternativo. Ciò che vi mosse e che vi muove (o ciò
che ci muove e che ci mosse) è irrilevante sul piano
dell’efficacia dell’agire, che sta a valle dell’agire
stesso, non a monte. Le motivazioni mi possono caricare
quando scrivo un ricorso di lavoro o discuto davanti ad un giudice:
ma se non individuo un punto debole del mio avversario e cerco
di colpire lì in modo non solo da fargli male, ma da
schiantarlo, non ho fatto bene il mio lavoro. L’avvocato
è come un idraulico: se esce una goccia, non ha fatto
bene il suo lavoro; l’unica cosa che conta è che
se apri l’acqua calda esca calda, se fredda, fredda. Non
esistono giudici buoni o cattivi, ma solo giudici e mio compito
è costringerli a darmi torto se proprio me lo voglion
dare, niente altro. Sappiamo benissimo, noi e loro, cosa c’è
dietro le norme, le formule, gli atti, le sentenze: rapporti
di forza, padroni e lavoratori, bisogno e sfruttamento, morte
e vita. Noi avvocati siamo i mercenari assoldati da una parte
(nel mio caso i lavoratori) per battersi e sconfiggere un’altra
parte. I soldati di ventura quello devono fare: combattere per
chi li paga e quindi solo quello devono imparare: la tecnica
del combattimento. Tecnica: astratta, fredda, mortale. So benissimo
che certe vicende processuali ad un certo punto non hanno niente
a che fare con il diritto, ma solo con la politica. Non siamo
però a questo livello. Le vicende ristrutturative della
Fiat e dell’Olivetti di cui in questi anni mi sono occupato
sono state gestite ad un livello talmente alto politico e sindacale
che ci hanno permesso (ai lavoratori che rappresento e a me)
di giocare la nostra partita e portare a casa qualche risultato,
oltre che a scavare qualche solco di verità nelle vene
di queste grandi ristrutturazioni. Come si gioca a questo gioco?
Bisogna stare addosso il più possibile alle operazioni
societarie e finanziarie: il sistema garantisce un certo grado
di visibilità e da lì, dagli spazi pubblici
quasi esoterici (camere di commercio, bilanci, società
di revisione, ecc.) che un ordinamento liberale non può
non garantire, loro devono passare. Presi sul nervo scoperto
della loro bella operazione formalmente corretta, ma sostanzialmente
criminosa, cerchi di scatenargli contro quello stesso ordinamento
giuridico liberale che è il mare in cui normalmente sguazzano:
le norme e i giudici. Se ti va bene, porti a casa un po’
di soldi (differenze retributive, risarcimento del danno), perchè
non puoi pretendere che questi giudici ristabiliscano la
verità e la giustizia: sono mica il Messia. E, soprattutto,
in assenza di una seria interdizione sul piano politico o sindacale,
più che a soldi non si finisce.
Capisci quindi che i tuoi accenni alla specializzazione dei
saperi, al fatto che anche l’attività sindacale
sia un lavoro che comporta sapere tecnico (giuridico,
medico, fiscale, previdenziale e che altro?), alle modalità
in cui oggi si strutturano le relazioni sociali (scambio, normazione
burocratica della vita quotidiana), mi lasciano un poco perplesso.
Tutto vero: ma lascia a noi tecnici la tecnica e riprenditi
l’attività sindacale. Non vorrei che la generosità
vostra (tua e degli altri compagni sindacalisti che ho avuto
l’onore di conoscere) e la scarsità delle risorse
umane (siete sempre quattro cats seppur wild)
vi distolga da quello che sapete fare meglio: cioè stare
tra i lavoratori che subiscono (oggi e sempre) e lottano per
migliori condizioni di vita. Magari mi sbaglio, ma il vostro
compito di sindacalisti è quello di catalizzatori (acceleratori
di processo) delle forze che i lavoratori subordinati producono
(quando le producono). A voi sindacalisti, nelle condizioni
ottimali, fa un baffo il diritto, l’avvocato, la politica,
e quant’altro. Quando voi riuscite a indirizzare la forza
dei lavoratori verso l’obiettivo che si prefiggono (più
controllo sulla propria vita, cioè meno eterodeterminazione,
il nucleo puro e duro della subordinazione) che altro
vi serve?
Caro Cosimo, tu evochi Melfi. Ho sentito a Radio Popolare che
durante la manifestazione di ieri a Roma venivano cantate ballate
sui briganti e i piemontesi. Ma pensa: la questione meridionale!
E cos’è l’espulsione dalla fabbrica a fine
ciclo della loro vita biologico-lavorativa degli operai già
Fiat ora TNT o di qualche impresa di pulizia, arrivati dal meridione
negli anni ’60-’70 a Torino, ospitati alle
Vallette (non il carcere, ma…), e ora inutili,
che, come ho sentito troppe volte ripeter loro, non ci possono
metter nei forni crematori, ma se potessero… La questione
meridionale è la cifra di quel che sta succedendo:
il bisogno messo al lavoro fin che basta; e poi, via,
verso altri meridioni (l’est dell’Europa, il sud
del mondo). I lavoratori di Melfi sono giovani e sanno di poter
contare nell’universo Fiat; non vorrei sbilanciarmi, ma
sono un po’ come gli operai di Mirafiori alla fine degli
anni ’60: sfruttati e centrali per le dinamiche padronali.
Possono fare molto, per se stessi e per tutti e non vanno lasciati
soli. Ho letto (giacché in quegli anni stavo per andare
alle elementari) che ai cancelli di Mirafiori accorse da tutta
l’Italia la meglio gioventù. Chissà
cosa sta succedendo a Melfi. Chissà, per la nostra parte,
cosa staran facendo gli anarchici della FAI. Già: i più
vicini sono i calabresi e i napoletani. Poi i siciliani e i
romani. Melfi del resto è un poco decentrata rispetto
alle normali vie di comunicazione... E poi che fai,
se non hai un radicamento sul territorio: vai lì a fare
la comparsata come tutti i politici. Ma pensa, il meridione
di Malatesta, di Cafiero, …
Torniamo a bomba. “Il cliente ha sempre ragione”:
cioè se il lavoratore ti chiede la tutela (legale, previdenziale,
fiscale) che fai, non gliele dai? Chi gliela dà: tu o
qualcun altro? E perché gliela dovresti dare? Perché
paga la tessera? Perché nella nostra società specialistica
il lavoratore non può andare a rompere i coglioni all’INPS
o all’INPDAP anziché a te o a me per avere
il suo? Perché questi enti non hanno splendidi uffici
di relazione con il pubblico (URP) o sistemi informatici che
ti sfornano informazioni in tempo reale? Ma dai!
Perché non scateniamo i bancari della CUB, che di economia,
bilanci e quant’altro capiscono più di noi, contro
le manfrine e le pastette che le nostre beneamate Fiat e Olivetti
(ormai Telecom) fanno quotidianamente? E quanto sapere possono
scatenare contro i padroni gli iscritti RdB che stanno in Regione
Piemonte? E quelli in Provincia? Perché i ministeriali
RdB (di tutti i ministeri) non possono aiutarci
a squadernare i giochi falso-ristrutturativi dei governi di
ogni colore? E che dire dei compagni che stanno all’INPS?
Forse che non hanno informazioni sulle CIGS e CIGO (Cassa
Integrazione Guadagni Speciale e Cassa Integrazione Guadagni
Ordinaria, N.d.R.) concesse a gogo o sulle mobilità
regalate dopo istruttorie amministrative risibili?
Smettiamola di nasconderci dietro il dito. Chi ha saperi li
metta al servizio della lotta. Chi ha capacità di catalizzare
le forze dei lavoratori, quello, faccia, il sindacalista. Non
si tratta affatto di superare la divisione specialistica
del lavoro, piuttosto di acuirla. Non voglio pasticcioneria,
voglio far male al nostro nemico con i saperi che mi (ci)si
danno.
Simone Bisacca
Sindacato di militanti
di Stefano Capello
Caro Cosimo e cari tutti gli altri partecipanti al dibattito,
affrontare seriamente la questione vuole dire evitare di nascondersi
dietro ad affermazioni talmente ovvie da risultare svianti e
a speranze talmente futuribili da risultare tanto rassicuranti
quanto fumose. Come nella storia socialista il sol dell’avvenire
e l’alba radiosa del proletariato (verrà un giorno...)
coprivano l’instancabile azione di rappresentanza parlamentarizzata
o in via di parlamentarizzazione e l’accorta gestione
quotidiana della vita e delle speranze delle masse dei lavoratori
non diversamente da quanto da millenni fa la Chiesa gestendo
il mondano sei giorni alla settimana e predicando lo spirituale
il settimo, così la piccola burocrazia del sindacalismo
di base ogni tanto tenta il colpo d’ala ma resta ancorata
alla terrena gestione delle vertenze legali e della gestione
corrente 360 giorni su 365. Sia ben chiaro, non è (solo)
colpa sua. Quando dico che la speranza futuribile è insieme
rassicurante ed ingannatrice non intendo sostenere che il buon
burocrate intenda ingannare qualcuno al di fuori di se stesso...
Il lavoratore che si rivolge a lui per una vertenza, un conteggio,
un 730 sa perfettamente quello che sta facendo: cerca un’organizzazione
di sentimenti non troppo lontani dai suoi e di specchiata onestà
che lo aiuti nella difficile gestione del suo rapporto lavorativo
e nelle mille beghe che l’odierna vita associata dispone
sul percorso quotidiano di ognuno di noi.
Chi fa sindacalismo di base deve fare i conti con questa orrenda
verità: all’interno del corpaccione delle classi
subalterne muovono ogni tanto fremiti di ribellione contro lo
schiacciamento protervo delle proprie condizioni di vita e inizia
a farsi strada l’idea che sia necessario praticare ogni
tanto la protesta e anche l’azione spettacolare per farsi
sentire e costringere l’avversario a più miti consigli,
ma tutto questo avviene in un contesto di ristrutturazione offensiva
da parte delle classi capitalistiche, con i lavoratori al meglio
sulla difensiva, al peggio sul si salvi chi può; in un
contesto del genere non si può pretendere che nascano
militanti come funghi e che il lavoratore medio si occupi della
propria condizione in forme diverse da quella della salvaguardia
individuale.
In un contesto del genere gli uffici legali diventano necessari
perché permettono almeno qualche aggancio con lavoratori
che altrimenti non vedresti nemmeno, ma non bisogna illudersi
che questo li porti a far di più che ad «acquistare»
una tessera per riconoscenza e rispetto (quando va bene). Se
un lavoratore su cento contattato così aiuterà
la crescita sindacale sarà già avvenuto un miracolo,
perché solo i rapporti costruiti nel corso di una mobilitazione
resistono, quelli costruiti come agenzia di servizio no. Quindi
facciamo pure gli uffici legali, in alcuni settori è
addirittura essenziale, ma non aspettiamoci niente da questa
pratica se non il fatto di essere conosciuti un po’ più
in la del nostro solito raggio d’azione. Il discorso relativo
ai CAF (Centro Assistenza Fiscale, N.d.R.) di base
è ancora più triste ed eviterei di soffermarmici
sopra: servono soltanto a raggranellare soldi ma ti compromettono
pesantemente con la struttura statale: offri un servizio trasformandoti
in una struttura del ministero delle Finanze...
Il sindacato di militanti sarebbe il modello al quale dovremmo
cercare di avvicinarci; l’organizzazione espressa dai
collettivi aziendali e non al contrario questi ultimi, laddove
esistano, come articolazione locale di un centro che gestisce
una bottega di servizi che ogni tanto esprime posizioni sui
fatti della categoria e (poche volte) del mondo. Lavorare per
trasformare il corpo della nostra organizzazione in qualcosa
che assomigli a questo modello ideale sarebbe una sfida importante.
Per farlo, però, bisogna evitare che il tempo dei quadri
sindacali più capaci e più impegnati nella costruzione
sindacale sia fortemente impegnato nella creazione di sportelli,
CAF, uffici vertenze e quant’altro.
Questi ultimi ci sono e ce li terremo nei prossimi anni; però
non sarebbe stupido lasciarne la gestione a degli incaricati
«tecnici»; compagni con passione, attenti e preparati
ce ne sono ben pochi, non sarebbe il caso che lavorassero all’espansione
di una prospettiva di organizzazione diretta invece di invecchiare
tra ricorsi e scartoffie?
Fraterni Saluti
Stefano Capello
Sindacalismo di stato
in versione combattiva
di Stefano Capello
Caro Cosimo,
il dibattito che tu hai suscitato è importante e coinvolge
direttamente l’identità di chi sia oggi pienamente
interno alle vicende del sindacalismo di base e ne tolleri sempre
meno la tendenza chiara e dispiegata a diventare una copia in
piccolo del sindacalismo di stato in una versione più
combattiva. Tale deriva si dimostra non tanto nella decisione
nell’affrontare le singole lotte e le vertenze all’interno
delle realtà nelle quali interveniamo; per ovvie ragioni
settori di sinistra sindacale CGIL possono a volte prendere
posizioni di mobilitazione più «dure» delle
nostre, dal momento che non temono conseguenze repressive reali.
In questo modo una mano lava l’altra e gli «estremisti»
della CGIL possono permettersi di inveire contro le leggi antisciopero
scritte con la collaborazione della stessa CGIL… Ma, tant’è,
questo è teatrino e non organizzazione dei lavoratori.
Analogamente le posizioni di rifiuto dell’organizzazione
come portatrice necessaria di burocratizzazione non sono altro
che una sorta di stile, un marchio di fabbrica di chi evita
di sporcarsi le mani nella realtà del conflitto industriale,
sia quando questo c’è, sia quando questo non c’è.
Queste posizioni quasi naturalmente necessitano di una sorta
di mito proletario fondativo che esime chi le propone dal lavoro
di dimostrarne la fondatezza e non li espone alla durezza della
prova dei fatti. Se, e credo questo sia reale, il proletariato
è classe in quanto fondato dalla propria esperienza,
sia della subalternità che della possibilità di
contrastarla, è evidente che questo si forma solo nel
conflitto e nell’organizzazione dello stesso. L’organizzazione
sindacale è un momento del conflitto quando questa si
faccia conformare dai lavoratori che vi si riconoscono. Non
è vero il contrario: non è l’organizzazione
sindacale o politica che conforma a sé i lavoratori producendo
la classe. Quest’ultima si forma (se si forma) come risultante
del reciproco mutarsi dei lavoratori e dell’organizzazione
stessa.
Detto questo il problema della burocratizzazione sindacale rimane
perché:
- sostenendo la necessità dell’organizzazione dei
lavoratori
- sostenendo la necessità che questa si doti di strutture
minime come un ufficio vertenze, uno legale ed uno fiscale
- sostenendo anche la necessità di compagni pagati per
«fare sindacato»
ci troviamo con in mano le carte necessarie per far funzionare
un’organizzazione ma anche con le premesse della sua rapida
degenerazione in piccole strutture di proprietà dei capi
politici delle stesse. RdB è un esempio spinto al parossismo
ed al ridicolo di come un sindacato può essere gestito
come una sorta di investimento produttivo da parte di una dirigenza
politica che necessiti di finanziamenti e visibilità.
Non è un caso, RdB nasce come proiezione sindacale di
un gruppo marxista-leninista che accede alla visibilità
del «grande pubblico» grazie alla creazione di un
sindacato la cui prassi interna è ricalcata su quella
del gruppo politico. Ma RdB è solo un esempio (per quanto
spaventoso) di una realtà più generalizzata dove
il sindacalismo di base diventa mero investimento per gruppi
della sinistra estrema ridotti in condizioni asfittiche.
Il problema della burocratizzazione con tali premesse diventa
disperato e disperante: una parte consistente del sindacalismo
di base è in condizioni peggiori di
quello istituzionale sul piano della democrazia interna (figurarsi
sul piano della gestione diretta dei lavoratori) perché
i gruppi dirigenti non sono tali, bensì proprietari dell’organizzazione
sindacale stessa. In queste condizioni il funzionario è
anche il «capo» del sindacato e usa il suo distacco
per perpetuare il suo comando, i gruppi aziendali sono meri
trasmettitori delle campagne pensate dall’alto e gli iscritti
massa di manovra.
Da questa situazione, però, non si può uscire
con la negazione dell’organizzazione sindacale come strumento
perché vorrebbe dire consegnare alla stanca dialettica
tra istituzionali ed autoritari tutta una serie di strumenti
che necessitano alla costruzione dell’esperienza proletaria.
Bisognerebbe, invece, affrontare una decisa battaglia politica
e culturale all’interno del sindacato di base; questa
battaglia si dovrebbe articolare innanzitutto separandosi da
quella parte del sindacalismo di base che tale non è
ma che ripropone strutture autoritarie e gerarchiche all’interno
dell’organizzazione dei lavoratori, in secondo luogo costruendo
organizzazioni centrate sul ruolo dei collettivi aziendali,
prevedendo figure di funzionari e di tecnici pagati ma separando
decisamente questi ruoli da quelli di decisione politica interna
all’organizzazione; per esempio un funzionario di un qualsiasi
settore dovrebbe applicare le decisioni del coordinamento del
suo settore ma non concorrere a produrle, dovrebbe essere un
mero esecutore tecnico di decisioni altrui. In questo modo eviteremmo
la confusione tra ruolo tecnico necessario e ruolo politico
complessivo. In terzo luogo è assolutamente necessario
costruire un sindacato più politico in cui la formazione
sia centrale e che non si occupi solo di produrre punti di vista
sull’aziendale ma in generale sul mondo. Una parte dei
compagni, anzi, dovrebbe essere distaccata quanto più
tempo possibile a lavorare in questo senso.
Questo produrrebbe un sindacato che rimarrebbe tale perché
la sua forza continuerebbe a basarsi sulla capacità dei
lavoratori di mobilitare i loro settori e di dare vita al conflitto,
però eviterebbe di trovarsi dopo quindici anni di sindacalismo
di base a non avere alcuna capacità di produrre una significativa
visione del mondo condivisibile e condivisa da un’area
minoritaria ma significativa di lavoratori nel nostro paese.
Stefano Capello
Coscienza critica organizzata
di Cristiano Valente
Caro Cosimo,
rispetto al tuo ultimo scritto ciò che non trovo “convincente”
è la domanda stessa che tu poni.
È inevitabile che qualsiasi organizzazione di resistenza
e di difesa delle condizioni immediate dei lavoratori subisca
una qualche dose di burocratizzazione, pur nell’accezione
positiva che tu stesso gli dai; il problema non è affatto
questo.
Anzi, credo di condividere con te una qualche necessità
oggettiva di tale processo. Del resto nelle successive argomentazioni
e nelle stesse riflessioni iniziali mi pare che tu stesso confermi
questa inevitabile «deriva».
Ciò che è importante, a mio giudizio si intende,
è come arrivare nelle condizioni migliori al momento
in cui il pendolo dei rapporti di forza fra le classi si rompe
e ci si avvia in quel percorso che è il processo rivoluzionario.
È in questo esatto momento che occorre avere una forte
penetrazione ed egemonia all’interno del movimento operaio
e non solo.
È in questo momento che i nostri compagni devono essere
un punto di riferimento organizzativo e politico per la grande
massa del movimento che si pone in contrapposizione all’avversario
di classe, tenendo conto che non siamo i soli, come anarchici,
a indicare la prospettiva di rottura con il capitalismo, ma
ci misuriamo con altre ipotesi e prassi, per noi fallaci, ma
comunque presenti e spesso molto più radicate di noi,
senza dimenticare il ruolo storico che svolgono i riformisti.
Allora quel tuo breve inciso che ci condannerebbe ad un ruolo
di mera coscienza critica, se fosse vero ed inevitabile, come
lo è, la burocratizzazione delle strutture di difesa
del movimento operaio, è per me invece fondamentale e
niente affatto riduttivo.
Nessuna prassi o modello libertario ci pone al riparo di una
burocratizzazione (sempre nell’accezione positiva che
tu gli dai) delle strutture stabili del movimento operaio, in
quanto gli stessi modelli di revocabilità dei mandati,
per quanto riguarda la rappresentanza, oppure la scelta di non
reiterare le cariche direttive per più di uno o due mandati
ecc. (regole correttissime) non sono di per sé sufficienti
ad evitare fenomeni di burocratizzazione intesi questa volta
nell’accezione negativa.
Per noi, in quanto anarchici, esiste un problema in più
rispetto alle stesse regole più o meno corrette che una
organizzazione sindacale può definire.
Necessitiamo, proprio per i nostri convincimenti ideologici,
di una partecipazione convinta e militante alla vita dell’organizzazione
in quanto ”ostili” alla stessa rappresentazione
democratica e questa si verifica solo in alcune circostanze
precise e storiche.
Per questi motivi ritengo inutile in quanto anarchici costruire
o lavorare per ipotesi di organizzazioni di resistenza stabili
a tendenza libertaria, ma ritengo invece utile coordinare i
militanti anarchici impegnati nella lotta di classe e nelle
varie organizzazioni sindacali presenti perché quella
coscienza critica sia organizzata, visibile, capace di dare
indicazioni e indicare battaglie anche parziali, nella prospettiva
di un radicamento di massa e di una egemonia politica nella
prassi e metodologia della lotta di classe.
Fraterni saluti
Cristiano Valente
Più piani
sovrapposti
di Maurizio Montecchi
La mia impressione è che sullo scambio epistolare relativo
alla burocrazia si intrecciano più piani sovrapposti
che creano equivoci.
Il primo da chiarire è se intendiamo con «burocrate»
qualunque attivista stipendiato che svolga militanza. In questo
caso la casistica diventa sterminata includendovi persino la
storica USI, segretari delle camere del lavoro e dei sindacati
di settore, e la gloriosa IWW (Industrial Workers of the
World, N.d.R.) che garantiva (se non ricordo male) integrativi
come rimborsi ad alcuni attivisti. Del resto anche nella tradizione
della CGIL, del II dopoguerra, erano i militanti combattivi,
spesso licenziati, a diventare stipendiati. Quindi stipendiati
per potenziare le proprie caratteristiche e la penetrazione
organizzativa. Non credo che questo sia negativo.
Secondo aspetto. Nelle società complesse del tardocapitalismo
anche le forme d’opposizione devono costituirsi con strutture
complesse che includono «apparati» sempre più
determinati e specializzati che siano competenti nello svolgere
ogni aspetto amministrativo che si renda necessario. Aspetti
amministrativi che vengono resi astrusi anche da disposizioni
e norme che solo una preparazione adeguata è in grado
di comprendere per poter intervenire con modifiche. Sono le
disposizioni giuridiche e i «linguaggi tecnici»
che ci condizionano la quotidianità e che formano la
legittimità dei tecnici/specialisti. Solo attraverso
la loro semplificazione nella società si può contemporaneamente
presupporre una riduzione nelle forze di opposizione. Se le
dichiarazioni dei redditi fossero semplici perché ci
sarebbe bisogno dei CAF e in generale dei commercialisti?
Terzo. Sindacati in ambiti diversi (pubblico, privato) e la
questione non è indifferente nella gestione di margini
operativi nello svolgimento del lavoro e nella crescita di carriera,
non come eccezione, ma come regola. Cambiamenti di status rapidi
e verticali sono (o sono stati) la regola nel pubblico: dirigenti
sindacali diventati dirigenti di aziende e comunque nelle Poste
(che conosco indirettamente) sono strapieni di dipendenti che
hanno vinto contenziosi sulle qualifiche con la direzione. Non
credo sia altrettanto nel privato. Quindi la burocrazia della
FIOM, sindacato riformista e combattivo, per quanto “cogestiva”,
risulta nella quotidianità maggiormente combattiva di
un sindacato di base nel pubblico perché ha controparti
molto diverse. Che non significa meno stronze, ma diversamente
disponibili ad atteggiamenti frontali, oppure accomodanti. Mentre
da una parte discendono immediatamente dai bilanci dall’altra
da scelte politiche/di potere. Così può succedere
che una azienda che dispone di commesse per 4 anni accetti un
orario di 32 ore in cambio di una turnazione su 24 ore per 6
giorni, nonostante l’ostracismo Confindustriale.
Quarto. Capisco Claudio perché la sua battaglia antiburocratica
è immediatamente una necessità politica, direi
tattica, neanche strategica come per ogni libertario, forse
anche esistenziale-fisica dovendo sopravvivere con l’RdB.
Del resto la situazione della sanità è l’unica
che mi impedisce di considerare totalmente inutile l’esperienza
USI-AIT.
Quinto. Informazione è potere, era negli slogan del ’68
e chi centralizza l’informazione gestisce il potere. Non
basta, anche se necessario, ruotare i ruoli di coordinamento
per socializzare le informazioni, bisogna diffonderle. E socializzarle.
Esempio: la scelta FIOM a Melfi di togliere i blocchi per sviluppare
la trattativa è dissimile da quello successo a Terni
per l’acciaieria, ma anche nel contemporaneo scontro dell’Alitalia.
Ma qui Pezzotta è tra i più attivi.
Sesto. Il sindacato è un mezzo attraverso cui far crescere
l’autonomia di classe, mezzo molto importante perché
per tutta una fase si può intrecciare l’autonomia
stessa, che però ha bisogno di spazi più consoni
e ampi per potersi forgiare quali solo le assemblee deliberative
e plenarie dei movimenti di lotta possono essere. E all’assemblea,
al suo potere reale e determinante dobbiamo sempre richiamarci
e farne il fulcro della nostra proposta politica-sindacale e
delle nostre considerazioni antiburocratiche.
Sette. Cosimo dovrebbe datare le osservazioni di Monatte che
ha attraversato periodi diversi: anarcosindacalista, iscritto
al PC francese, ultrasinistro-sindacalista rivoluzionario. E
le sue osservazioni hanno effetti diversi se in una fase ascendente
dei movimenti o di testimone del dopoguerra nei meandri della
guerra fredda.
Monatte comunque non è il massimo degli strateghi sindacali
visto la sua responsabilità nel convincere i comunisti
americani, ex IWW, all’entrismo nell’AFL (American
Federation of Labor, N.d.R.), sindacato di mestiere, mentre
i settori sindacali più combattivi costituivano la CIO
(Congress of Industrial Organizations, N.d.R.) nell’industria.
Facendo perdere un treno alla sinistra USA e forse l’aereo
a quella mondiale, relegando i comunisti con la parte più
reazionaria del mondo del lavoro, mentre milioni di operai confliggevano
nelle fabbriche americane.
Ciao,
Maurizio Montecchi
Tre livelli d’intendere il sindacato
di Pietro Stara
Parlando di burocrazia sindacale e di organizzazione sindacale
naturalmente si rimanda anche alle funzioni del sindacato ed
in specifico al «che cosa serve». Riprendo due questioni
una di Maurizio ed una di Cosimo, appoggiando nel frattempo
molte delle considerazioni di Simone.
La parte e la controparte: Maurizio centra un punto secondo
me fondamentale quando afferma che le parti e le controparti
sono diverse se si parla di pubblico o di privato. Non credo
che sia neppure un caso che il sindacalismo di base si sia rafforzato
a partire dagli anni ‘80 soprattutto in alcuni settori
statali amministrativi che negli anni sessanta e settanta rappresentavano,
passatemi il termine, una retroguardia (INPS, INAIL, ministeri,…).
Anche qui non vorrei generalizzare e vorrei distinguere tra
settori pubblici amministrativi e settori pubblici di frontiera:
sono significativamente diversi i sindacati di base, e le lotte
che hanno condotto, nei settori pubblici amministrativi (di
apparato) da quelli che si trovano a gestire un contatto diretto
con il pubblico: scuole, sanità, ex poste, trasporti,
ecc. Sono diverse le lotte, le storie ed anche le mentalità
collettive. Si potrebbe così facilmente rispondere a
Simone che se i ministeriali RdB non squadernano nulla è
perché non lo hanno mai fatto, perché la natura
della loro adesione alle RdB è spesso motivata da ragioni
meramente corporative, perché il livello di coscienza
politico sindacale è molto basso, perché, in alcuni
casi, sia loro che le loro dirigenze non vogliono squadernare
proprio nulla. Probabilmente erano le stesse ragioni per cui
negli anni passati votavano DC o PSI e militavano nella CISL,
nella UIL o nella CGIL. Una volta che si sono accorti che i
loro sindacati hanno giocato al ribasso, hanno portato le loro
chiappe in un sindacato che sui contenuti, anche di carriera,
li difendeva maggiormente. Niente di più logico ed ovvio.
Non secondarie sono le ragioni dei soldi, argomento che ci terrei
che non venga sottovalutato nella sua enorme portata politica:
con i soldi tieni aperte sedi, compri macchinari, paghi personale
e distacchi, gite in treno, riviste, convegni, scampagnate e
badate bene si finanziano anche organizzazioni politiche (rete
dei comunisti ad esempio). Di qui, come diceva il buon Bettino
Craxi, i soldi non bastano mai e certe volte vale tutto, ma
proprio tutto: la CUB, per capirci, ha imbarcato un piccolo
sindacato pensionati ipercorporativo perché gli portava
allegri vecchietti, molte tessere ed un discreto numero di soldi.
Lotta di classe negli ospizi?
Il consolidamento di forme burocratiche, non positive, da come
le intendo io, che centrano poco con forme di efficacia organizzativa
e molto spesso ne sono da freno, maturano come prassi, atteggiamenti,
mentalità, disegni politici poco chiari e spesso per
nulla condivisi, ecc. Mi sa, al contrario di quello che dice
Cristiano che quando arriverà il momento rivoluzionario,
sempre che arrivi, sarà troppo tardi: l’autoritarismo
burocratico o lo si mette in discussione sempre ed efficacemente
oppure prevarrà naturalmente allo stesso modo in cui
si è consolidato nel corso degli anni. Forma e sostanza
vanno di pari passo.
Cosimo fa, pacificamente, un’affermazione che ha, a mio
avviso, una portata «rivoluzionaria»: il terreno
sindacale come qualità necessaria, non unica ma non ultima,
darebbe all’anarchia una progettualità concreto/sensibile.
Sembra che egli dica una cosa semplice e facilmente comprensibile,
ma in realtà, cela dietro questa asserzione, che non
gli è nuova, alcuni presupposti che se portati alle loro
estreme conseguenze potrebbero avere una carica radicale nella
loro comprensione/attuazione.
Proviamo a vederli:
- Il piano politico radicale e rivoluzionario è nella
sua espressione concreta definitivamente defunto, sia nella
sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale;
- Il livello sindacale agisce, anche se incoerentemente, nelle
contraddizioni reali di classe;
- Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello
di concretezza;
- Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello
di efficacia;
- Ma di quale concretezza e di quale efficacia si sta parlando?
Io credo che siamo in un ambito riformistico, radicale, ma
riformistico;
- Dando senso alle parole che usiamo per me riformistico non
ha una valenza negativa – riduttiva (tutt’altro):
quello che dalle parole di Cosimo non si evince chiaramente
è se sia diventato anche l’ultimo orizzonte praticabile.
Cerco di spiegarmi meglio: ci sono tra compagni anarchici almeno
tre livelli di intendere il lavoro sindacale e di conseguenza
il sindacato.
Il primo è che la sua funzione rimane quella della difesa
sostanziale del potere d’acquisto diretto ed indiretto
dei lavoratori ed è fondamentale in questo senso, a volte
esclusiva, una lotta di difesa salariale ed in subordine tutte
le altre questioni. Il sindacato deve essere grosso, forte,
centralizzato ed alcuni livelli burocratici sono oltre che inevitabili
in alcuni casi anche proficui. Sono secondarie alcune questioni
che per altri sono centrali come i contenuti tra cui la rappresentatività
equa nei posti di lavoro, la libertà di sciopero, i diritti
di organizzazione, ecc. Non si capirebbe altrimenti perché
facciano parte dei confederali (anarchici cigiellini).
Il secondo evidenzia sempre nel lavoro sindacale un carattere
prevalentemente riformistico, dai contenuti però coerenti
di difesa contrattuale, e non mette in subordine le altre libertà,
ma ne mostra i contenuti di classe (come dicevo forma e sostanza
dovrebbero andare un po’ più a braccetto). Il piano
progettuale politico riformistico in queste organizzazioni è
molto debole e spesso subordinato alle elaborazioni dei movimenti:
Tobin Tax, reddito di cittadinanza, ecc. (anarchici CUB-Rdb,
Cobas, Unicobas, Slai…)
Il terzo ed ultimo è quello che fa del sindacato un soggetto
prevalentemente politico ancorché rivoluzionario (anarchici
USI).
Sembra però, dalle parole di Cosimo, anche se a malincuore,
che il sindacato possa essere, stante le cose, l’unico
soggetto pienamente politico che sia credibile (non lo sono
né i partiti né altre sedicenti organizzazioni
rivoluzionarie). Di qui c’è a mio avviso un salto
concettuale simile a quello anarcosindacalista, ovvero, come
già detto, che il sindacalismo sia un ambito pienamente
politico e che la politica non possa che essere e farsi sindacato
in maniera totale e completa. Il limite grosso è che
non credendo nell’orizzonte politico rivoluzionario del
sindacato in quanto tale l’ambito politico non può
che ridursi ad un riformismo piccolo piccolo, oppure l’attività
militante sindacale non può che trovare soddisfazione,
unica per la verità, che sul piano concreto della difesa
immediata delle condizioni di classe dei lavoratori, anche nelle
piccole vertenze individuali.
Altrimenti ed è questa la domanda che faccio a Cosimo:
perché scoprire solo ora il piano concreto/sensibile
del lavoro sindacale? La seconda: non ti sembra che sia una
forzatura non solo semantica il portare la progettualità
anarchica nel concreto specifico sindacale e che non si tratti
invece di adattare l’impotenza politica e strategica di
una scelta politica (quella anarchica) ad un livello che si
è scelto come proprio da diversi anni?
Sono dubbi che attanagliano anche chi scrive.
Pietro Stara
Non orizzonte
ma terreno d’azione
di Cosimo Scarinzi
Caro
Pietro,
quando ho letto la tua lettera ho fatto un, metaforico, salto
sulla sedia. Con il tuo consueto gusto per la estremizzazione
delle tesi tue ed altrui mi hai attribuito ma, in realtà,
hai posto alla discussione un blocco di questioni che di molto
eccede quanto io intendevo sollevare.
Sono andato a rileggermi cosa, nel merito, avevo scritto a Simone,
e ho trovato la frase che riporto:
«Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni
di assumere il terreno sindacale come quello che – non
penso, va da sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo
l’ultimo – da alla progettualità anarchica
una dimensione concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta
sindacale non parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati
che riusciamo, fra mille difficoltà e contraddizioni,
ad animare.»
Decisamente una frase, ma è il mio modo di porre le questioni,
più prudente delle conclusioni che ne trai. Fra l’altro,
devo confessare che, senza sentire la necessità di attribuire
la paternità di quanto scritto a chi per primo ha formulato
questa ipotesi interpretativa, riprendevo una tesi di Maurizio
Antonioli che, in uno dei suoi eccellenti lavori sul sindacalismo
d’azione diretta, spiegava in questo modo l’interesse
di importanti settori del movimento anarchico per il sindacalismo
e lo faceva riferendosi a vicende di un secolo addietro. Come
vedi, nello specifico, non mi riferivo ad una novità
ma ad un problema annoso.
Proviamo, a questo punto, ad assumere le conclusioni che proponi
come ipotesi di partenza.
Sento, in primo luogo, l’esigenza di sgombrare il campo
da due possibili equivoci.
In primo luogo, io non credo che lotta di classe e lotta sindacale
siano concetti coincidenti. L’idea tipicamente sindacalista,
nel senso del sindacalismo d’azione diretta, che sia possibile
organizzare la classe in sindacati radicali capaci di esprimerne
appieno la dimensione conflittuale e progettuale mi è
estranea non fosse altro che perché questa posizione
è stata atrocemente confutata dalle vicende storiche
quantomeno con la Grande Guerra ed era stata sottoposta a condivisibile
critica politica già prima sia in campo anarchico (Malatesta,
ad esempio) che marxista (Rosa Luxemburg, per fare un altro
esempio).
In secondo luogo non credo che la lotta di classe, sia intesa
in senso stretto come conflitto su retribuzioni, organizzazione
del lavoro, diritti sia intesa in senso largo come scontro fra
gruppi sociali sull’assieme delle relazioni che li legano,
risolutiva della questione sociale e, in particolare, tale da
negare la specificità della proposta anarchica che è,
a mio avviso, un modo particolare di intendere e praticare la
lotta di classe ma non è solo questo e, anzi, si caratterizza
in maniera rilevantissima per il modo di intendere il ruolo
degli individui, le relazioni interpersonali, quelle fra gruppi
umani e culture che li distinguono, il rapporto con la natura,
ecc.
A mio avviso, per dirla in altri termini, la critica anarchica
del potere ha una sua interna logica ed una sua efficacia ai
fini dell’azione degli anarchici stessi che, in qualche
misura, prescinde dalle caratteristiche contingenti dell’intervento
degli anarchici su specifiche e pur rilevanti questioni.
Per non sottrarmi alla tua feconda provocazione, se non penso
affatto che «Il piano politico radicale e rivoluzionario
è nella sua espressione concreta definitivamente defunto,
sia nella sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale.»,
è anche vero che non ritengo che la sua concretezza si
manifesterà, anche se non lo escludo in assoluto, nella
forma dell’insurrezione o, se preferisci, dell’assalto
al cielo. Questo convincimento deriva, banalmente, da una valutazione,
che ritengo realistica, di oltre un secolo e mezzo di storia
del movimento operaio su base planetaria, storia che non mi
sembra autorizzare miti sulla natura intrinsecamente rivoluzionaria
ed insurrezionalista della working class.
Mi rendo assolutamente conto che quanto ho detto richiederebbe
ben altra argomentazione ma non ho né il tempo né
lo spazio per farlo in una lettera e, comunque, è una
delle questioni sulle quali ci misuriamo in diverse sedi.
Mi limito, quindi, ad affermare che, a mio avviso, i movimenti
e le pratiche di emancipazione delle classi subalterne si danno,
e tenderanno a darsi, nella forma di un conflitto, più
o meno radicale, volto a ridurre la pressione delle classi dominanti
e dello stato e che solo una crescita, un radicamento, un’elaborazione
concettuale, da parte di settori ampi della working class, di
questo conflitto potranno, in forme difficili da definirsi,
determinare trasformazioni sociali radicali, le uniche che ritengo
possano definirsi rivoluzionarie. Mi riferisco ad un processo
complesso e contraddittorio che vede avanzamenti ed arretramenti,
accelerazioni e rotture (pensiamo, per non andare lontano, alla
vertenza di Melfi, la fabbrica più crumira d’Italia
che diventa un punto di riferimento generale in poche settimane).
Gli anarchici, in quanto individui ed in quanto partito, possono
e potranno svolgere un ruolo prezioso in questo percorso proprio
a partire dal fatto che la nostra critica della gerarchia sociale
ha una coerenza ed un’efficacia che mancano ad altre teorie
politiche. Certo, la critica non basta, è necessaria
l’azione, l’esperienza, la capacità di sperimentazione.
E, a mio avviso, un sindacalismo radicale è un terreno
di azione e di sperimentazione importante se non unico.
Quindi, stando alla metafora che proponi, il sindacalismo non
è un orizzonte ma un terreno di azione del quale vanno
dichiarati, senza ambiguità, i limiti ma anche rivendicata
la ricchezza dal punto di vista dell’esperienza del conflitto.
Io credo, in altri termini, che oggi servano dei passi avanti
su diversi, ed intrecciati, terreni:
- la formulazione di un adeguata teoria critica libertaria, opera
che non può che essere collettiva e che, per la stessa
nostra natura, non può che prevedere una dialettica fra
sensibilità diverse
- il radicamento come movimento specifico nel conflitto sociale
con una maggiore, e riconosco che non è uno scherzo,
capacità di intervento efficace sulle questioni politiche,
sociali e sindacali centrali per la massa dei lavoratori
- la capacità di stare sul terreno sindacale con autonomia
di giudizio e di proposte ma anche con una credibilità
che solo l’essere buoni, o discreti, sindacalisti può
darci.
Per ora mi fermo.
Cosimo
Necessità tecnica
di Claudio Strambi
Cari compagni,
la discussione ormai ha talmente tanti protagonisti e filoni
di ragionamento che per intervenire è necessario fare
una selezione di punti, pena l’essere eccessivamente lungo
e dispersivo.
Innanzitutto una chiarificazione senza cui rischiamo di parlare
di cose diverse. In generale i compagni parlano di burocratizzazione
intendendo il fatto di avere nel sindacato del lavoro retribuito,
cioè compagni che sono distaccati, in parte o del tutto,
dal proprio lavoro professionale (operaio, insegnante, impiegato
o altro) per svolgere lavoro sindacale.
A mio parere questo di per sé non costituisce una burocratizzazione
sindacale, ma solo una necessità tecnica, implicante,
questo sì, dei forti rischi di burocratizzazione.
Intendiamoci bene io credo nella necessità per i libertari
di diffondere una cultura ed una pratica del lavoro volontario,
ma ciò non significa negare la necessità tecnica
di cui sopra.
Ed è proprio sul modo di gestire quella ineludibile necessità
tecnica, che si gioca la partita politica del modello sindacale:
sindacato burocratico o tendenzialmente antiburocratico;
sindacato gerarchico riproducente il modello statale di organizzazione
o sindacato tendenzialmente libertario; sindacato centralista
o federalista-solidale.
In questo senso mi sembrano insufficienti le valutazioni, pur
in parte condivisibili, di Cristiano. Il vecchio Ciste (soprannome
di Cristiano per chi non lo sa), dice giustamente che nessuna
formula «burocratico-libertaria» studiata a tavolino
ci garantisce dai fenomeni di burocratizzazione, se non c’è
e non riusciamo a suscitare un anelito di partecipazione diretta
dei lavoratori alla vita sindacale. E poiché questo avviene
solo in certi momenti storici, da questo deriva una implicita
messa in secondo piano da parte di Ciste del problema dei modelli
organizzativi.
Mi stupisce che un compagno con cui condivido un impronta fortemente
programmatica dell’anarchismo sottovaluti per l’appunto
l’aspetto programmatico sul piano del modello organizzativo
sindacale.
Noi anarchici laici sappiamo che non esiste quel giorno «catartico»
in cui le masse e gli individui saranno tutti ugualmente partecipanti
diretti alle «cose pubbliche». Non esisterà
mai cioè il giorno della «redenzione universale»
dalla passività e dalla soggezione delle masse rispetto
ai capi.
L’anarchia è da noi concepita come un lungo processo
possibile, come il «cammino di liberazione dell’uomo»,
in cui il nostro sforzo soggettivo ha una grande importanza.
La redenzione universale non avvenne neanche in Spagna nel ‘36
e non avverrà nella prossima rivoluzione del duemila...
In ogni epoca ed in ogni singolo momento storico sono risvegliabili
un certo numero di forze attive e se uno dei nostri compiti
è quello di aumentarle quanto più possibile, non
possiamo certo limitarci a questo, adattandoci per converso
alla burocratizzazione per quanto riguarda la gestione concreta
delle organizzazioni sindacali (come di altre realtà
sociali).
Noi, poiché siamo una forza politica, anche se estremamente
particolare, dobbiamo avere una proposta politica anche su questo
terreno (vedi alcune idee sul mio precedente intervento). Anzi,
soprattutto su questo terreno che è tipicamente nostro!
Poi naturalmente questa proposta, e su questo sono d’accordo
con Ciste, va portata nelle varie organizzazioni sindacali dove
gli anarchici intervengono, per realizzare, non un sindacato
puramente libertario, che probabilmente non è del tutto
neanche l’attuale USI, ma un sindacalismo tendenzialmente
libertario ed autogestionario.
Due battute sulla specializzazione dei saperi sollevata da vari
compagni. D’accordo che la materia sindacale diventa sempre
più tecnico-specialistica e che ci pone qualche difficoltà
aggiuntiva. Motivo di più per distribuire il più
orizzontalmente possibile i permessi; per fare 3 semi distaccati
ad un terzo, piuttosto che 1 a tempo pieno; per distribuire
e socializzare il più possibile risorse economiche e
competenze.
Motivo di più per essere antiburocratici o meglio ancora
antigerarchici. In specifico a Montecchi: insomma, il problema
della burocratizzazione non sono certo le competenze dei commercialisti
sui 730. Il problema sono le decisioni sui nodi politici; sono
i rapporti di naturale complicità che si creano con le
controparti quando vai sempre te a trattare, lontano dagli occhi
dei tuoi rappresentati; sono quelle persone che passano 10,
15 o 20 anni a fare il sindacalista di mestiere e non vogliono
(a quel punto mi vien da dire a ragione) tornare a lavorare;
il problema sono i rapporti gerarchici che si creano quando
un centro qualunque ha centralizzate su di sé gran parte
o tutte le risorse dell’organizzazione.
In questo senso non credo di «dover essere capito».
Se questi problemi ci sono in RdB dove io sto, ci sono elevati
a potenza in CGIL e ci sono in misure diverse in tutte le organizzazioni
esistenti.
Quanto al problema finale sollevato da Piotr Starovic (a),
francamente non mi sembrava di aver colto nel ragionamento di
Cosimo quel salto anarcosindacalista da lui attribuitogli. Tuttavia
non c’è dubbio a mio parere che proprio la tendenza
alla burocratizzazione dei sindacati di base metta in rilievo
l’importanza di una azione politica coordinata dei libertari
che agiscono all’interno di questi sindacati.
Claudio Strambi
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