riflessioni
Acqua e potere
L’aumento del numero e della concentrazione della popolazione
unito all’aumento dei consumi hanno fatto si che ci siano
vasti territori del pianeta con un bilancio idrico negativo
anche in presenza, come si riscontra in alcuni casi, di una
ragionevole disponibilità d’acqua a livello locale.
La gestione dell’acqua appare oggi uno degli obiettivi
economico e “strategico” di principale interesse
a livello globale ed il problema della sua disponibilità
è oggetto di una grande strumentalizzazione. Attraverso
la segnalazione delle terrificanti condizioni riscontrabili
in molti paesi poveri, delle carenze distributive e delle momentanee
siccità dei paesi ricchi si tende, infatti, ad avvalorare
soluzioni nocive per gli interessi delle comunità.
Con l’acqua si costituisce profitto sia attraverso la
sua vendita, sia con un uso per la produzione di merci; l’agricoltura
industrializzata e l’industria necessitano di sempre maggiori
forniture per l’aumento dei consumi per unità di
prodotto e per il costante incremento della produzione.
I grandi monopoli hanno dunque bisogno di assicurarsi risorse
a basso costo e si comportano esattamente come nel caso del
petrolio: tentando una gestione diretta e gratuita della risorsa.
L’accaparramento delle risorse è indispensabile
per l’aumento dei profitti e l’ipotesi che esse
possano scarseggiare nel prossimo futuro sollecita un controllo
più stretto, ben oltre le predicate regole del libero
mercato, delle risorse stesse.
Ad esempio nell’area di una tra le più grandi riserve
di acqua del mondo sita al confine tra Argentina, Brasile e
Paraguay sono da tempo presenti contingenti dell’esercito
statunitense con l’obiettivo formale di una non meglio
chiarita lotta al terrorismo e, come evidenziato dall’inchiesta
del governo di quel paese dopo l’11 settembre, fu anche
ipotizzata una occupazione di quell’area.
La strategia delle grandi aziende si può sintetizzare
nell’obiettivo di usufruire per ultime, indipendentemente
da ogni interesse comune, della disponibilità di ciascuna
risorsa. Dunque nell’ottica aziendale non è un
problema che la distribuzione dell’acqua sia iniqua e
non sufficiente a gran parte della popolazione planetaria, è
invece un problema il controllo della risorsa necessaria ad
alimentare la propria produzione.
Il mercato globale è controllato da circa duecento
grandi gruppi di aziende, in continuo accorpamento. A nessuno
di questi soggetti importa nulla che non vi sia disponibilità
d’acqua potabile per più di un miliardo di persone,
che si possa morire di sete, che i consumi medi di un abitante
di un paese ricco possono essere cinquecento volte superiori
a quelle di un paese povero. Tutti sono però interessati
a garantirsi le risorse per sostenere la propria produzione.
La strategia degli stati si appiattisce su quella delle grandi
aziende, i cui interessi determinano le politiche nazionali
e subissano i poteri locali. Poteri più lontani, invisibili,
lontani dai cittadini, sempre meno controllabili gestiscono
le istituzioni. Esemplificativa è l’azione dell’Unione
europea da anni maggiormente impegnata a difendere gli interessi
di grandi produzioni (si veda le posizioni prese sui brevetti
dei software, il sostegno alle colture geneticamente modificate,
le norme che limitano la produzione artigianale e locale) che
a rispondere alla richiesta di benessere e di autonomia culturale
e sociale dei suoi cittadini.
Ma la strategia delle aziende e degli stati è conflittuale
con il benessere delle persone: infatti la salute delle produzioni
e delle comunità locali è connesso, più
che alla disponibilità, alla possibilità di accesso
diretto all’acqua e la mancanza di tale condizione inibisce
ogni autonomia e benessere.
La gestione dell’acqua, così come praticata diffusamente,
dunque, è (come lo è stato in passato) un ulteriore
strumento per aumentare il potere di pochi su molti, per soggiogare
comunità e metterle in uno stato di sofferenza proprio
in ragione del modello che si vuole applicare.
Gli abitanti di una megalopoli hanno ridotte possibilità
di sopravvivere se non utilizzando l’acqua che viene fornita
loro dagli enti di gestione delle reti idriche; l’impossibilità
di accedere direttamente alla risorsa da parte degli individui
e la concentrazione della domanda garantisce enormi profitti,
facilita la costituzione di monopoli, costringe alla dipendenza
per un bene primario.
In questo contesto, quindi, fermarsi all’enunciazione
che l’acqua è un bene comune ed alle richieste
di garanzie per il mantenimento (ove sussista) di tale condizione
senza mettere in discussione il modello insediativo e produttivo
appare limitativo.
Prima della diffusa affermazione del modello globale, quando
ancora numerose comunità avevano una propria autonomia
e proprie modalità di vita, i rapporti con il bene acqua
erano diversi nei diversi luoghi. Gli insediamenti, la produzione,
gli usi, il numero degli abitanti erano adattati alla disponibilità
di acqua. Anche i sistemi di prelievo (e quindi le quantità
prelevate) erano direttamente connessi con la capacità
delle risorse di rinnovarsi.
Dal recupero delle brine notturne per i territori aridi, alla
attenta utilizzazione delle acque di pioggia, tutta la cultura
dei popoli era volta alla comprensione delle disponibilità
di acqua. Gli insediamenti erano attenti a non danneggiare le
risorse, a collocarsi nei luoghi più adatti per accumulare,
indirizzare ma non inibire l’uso dell’acqua; l’ambiente
era attentamente capito e, per esempio, anche una piccola depressione
diveniva un sito particolare dove di acqua era abbondante per
le modalità di uso praticata.
Comunità di individui hanno vissuto in condizioni diverse
solo in ragione di una diversa disponibilità e tipologia
di risorse. Oggi il modello è unico; si basa sul superamento
di queste strette relazioni, sulla possibilità tecnica
di prelevare maggiori quantità, sull’annullamento
delle differenze.
È necessario ripristinare una relazione diretta tra comunità,
individui e risorse e quindi diversificare i comportamenti in
ragione della loro presenza e disponibilità. Questo è
il primo passo per garantire la conservazione degli ecosistemi
e per sottrarsi ad un potere che diviene sempre più forte
quanto maggiori sono le necessità e i desideri delle
comunità e degli individui che può gestire.
Il rapporto tra risorse ed autonomia delle comunità è
strettissimo; e l’organizzazione attualmente proposta
è autoritaria, centralizzata e fondata sulla sua indispensabilità
per permettere il livello di consumo imposto. Non per nulla
l’artificializzazione dei sistemi è così
strumentalmente sostenuta: più i sistemi sono artificiali,
più sono necessari infrastrutture e servizi per l’uso
dei sistemi, meno le comunità possono accedere direttamente
alle risorse anche quando, come nel caso dell’acqua, si
tratta del più indispensabile e comune patrimonio.
testimonianze
La dimensione positiva della trasformazione
Gran parte delle oasi sono sostenute da un impianto antropico.
Sistemi complessi costruiti partendo da una condizione morfologica
favorevole, ad esempio una depressione o il letto di un wadi,
nelle quali sia presente una maggiore capacità di ritenere
le acque.
Per le oasi di sabbia il primo elemento che sostiene la presenza
delle oasi è la difesa dalla sabbia ottenuta aumentando
l’altezza, con la continua aggiunta di rami di palma sui
crinali, delle dune esistenti; ad esse è affidato il
compito di proteggere l’avvallamento dalle sabbie portate
dal vento e di ampliare il bacino di raccolta dell’acqua
piovana.
Il secondo è l’impianto di palmeti: essi, nonostante
consumino acqua per la loro crescita, permettono una significativa
riduzione della evaporazione delle acque raccolte e collaborano
al mantenimento dell’umido.
A questi due principali elementi, secondo le situazioni e le
culture, si possono aggiungere sistemi di dighe (utili per indirizzare
i flussi delle acque di pioggia –intense ed episodiche-
verso i luoghi prescelti per la raccolta) o la costruzione di
foggara, canali sotterranei connessi con pozzi alla superficie
che raccolgono le acque sotterranee e nei periodi di siccità
condensano l’umidità dell’area.
La struttura delle oasi è quindi un sistema artificiale
che va in direzione totalmente contraria a quella in cui vanno
normalmente le trasformazioni umane. Esse infatti hanno un segno
marcatamente positivo: perché aumentano la diversità
del sistema in cui si inseriscono, perché non danneggiano
le risorse esistenti, perché contribuiscono a segnare
un miglioramento del benessere delle persone.
Ma a queste strutture corrisponde un sistema di utilizzazione
che ad esse si adatta. Se vi è una disponibilità
significativa di acqua le oasi sono accompagnate da sistemazioni
agricole diffuse, se l’acqua è ridotta rimangono
piccoli palmeti.
Se le oasi sono grandi ed agricole, vicino ad esse si collocano
insediamenti stabili che non occupano mai le parti basse, gli
avvallamenti, solitamente più ricchi di acqua, e partecipano
attivamente al sistema. La raccolta delle feci secche e dei
rifiuti organici sono utili per la concimazione e l’arricchimento
biologico dei suoli; il recupero delle acque utilizzate serve
ad umidificare i terreni. La dimensione degli insediamenti è
definita dalla dimensione dell’oasi e dalla capacità
produttiva della stessa.
Ben diversa è la soluzione attuata nel caso di oasi con
poca acqua e senza agricoltura. Queste sono utilizzate da popolazioni
nomadi, allevatori che non permangono sul medesimo territorio
a lungo, che utilizzano le poche risorse presenti nel deserto
raccogliendole in superfici molto estese al fine di non fare
divenire insostenibile il loro carico su ambiti troppo ristretti.
Sono popolazioni strutturate proprio sui loro animali: un insediamento
tuareg è fatto di tende tessute da lane di cammello,
così come i tappeti (pavimenti delle abitazioni), e di
peli di cammello sono fatte le corde; non hanno bisogno che
di pochi bastoni che portano con loro. Il cammello è
il mezzo di trasporto e fornisce prodotti alimentari (latte
e derivati, ma non viene macellato in quanto la carne avrebbe
un costo ambientale insostenibile) e combustibili. I pascoli
degli animali sono infiniti perché poveri e le oasi utilizzate
per ridotti periodi onde permetterne la ricomposizione della
risorsa.
Due sistemi diversi caratterizzati dalla chiusura dei cicli
dall’integrazione tra insediamenti produzione e risorse
e dalla grande attenzione a trovare modalità di uso che
non esauriscano le risorse stesse.
Un interessante punto di riflessione, un esperienza significativa
in un ambiente estremo, il deserto, caratterizzata da una accortezza
nel trasformare che dovrebbe essere patrimonio delle scelte
contemporanee in ragione di una estrema alterazione ambientale
del pianeta.
osservazioni
sulla contemporaneità
Le origini
Nonostante tutte le dichiarate buone intenzioni delle società
contemporanee a proposito della necessità di migliorare
le condizioni ambientali del pianeta, risulta evidente, visti
i risultati, che vi è qualcosa che contrasta le buone
intenzioni.
Anche ad una rapida analisi appare il ruolo svolto da una educazione,
diffusa in particolare in alcuni popoli, che vede l’ambiente
come uno strumento per permettere ai singoli individui di ottenere
obiettivi di potere, di ricchezza e attraverso questi di benessere.
Tale profonda educazione trova le sue radici nella Bibbia e
negli aberranti rapporti tra uomo e natura che in essa si rileggono.
La natura è un mezzo di scambio: per gran parte sono
terre divise o da dividere, bestie da sacrificare per chiedere
favori alla divinità, risorse private o da privatizzare
(in particolare acqua).
Un rapporto di totale sfruttamento che vede l’uomo al
di sopra e non dentro il sistema ecologico, che lo utilizza
ma, nonostante questo atteggiamento, ne è anche il conservatore.
Nel diluvio, nonostante “le colpe” siano degli uomini
e siano punite tutti gli animali e i vegetali (si salvano le
specie ma non gli individui), è proprio l’uomo
strumento di salvezza (e non di distruzione).
Le colpe degli uomini si riversano sulla natura perché
essa è a disposizione. E mai una parola di riguardo,
mai il piacere di una osservazione non interessata, la meraviglia
di un fenomeno naturale (che non fosse mezzo divino per impaurire
o glorificare).
Nulla di male se non fosse considerato il testo sacro da centinaia
di milioni di persone tra le più potenti del mondo
Tetti
Durante l’estate diversi uragani hanno interessato la
Florida. Oltre a danni per miliardi di dollari vi sono stati
decine di morti. Gran parte di queste morti sono avvenute in
insediamenti in riva al mare, dove migliaia di famiglie vivono
in roulotte e case mobili. I nuovi poveri. Ma anche abitazioni
stabili sono state distrutte, così come sono stati scoperchiati
alberghi e distrutti ospedali.
Gli uragani sono terribili, è vero; ma come le costruiscono
le case da quelle parti? E dato che ogni estate hanno uno o
più uragani quali sono state le misure che mettono in
atto oltre a quelle di allontanarsi quando avvertiti dal satellite
dell’avvicinamento dell’uragano?
Un abitante di una casa fissa: “sentivo il vento che strappava
i chiodi dal tetto mentre le pareti tremavano”.
Finalmente
Finalmente Milano avrà i suoi grattacieli. Era tempo.
Nella gara planetaria tra gli edifici più alti l’Italia
è sempre stata fuori, ma tra le sue città Milano
è quella che più intensamente ci ha tentato in
passato ma da tempo anch’essa ha dovuto soggiacere ad
una popolazione freddina nei confronti di tali prodotti.
Ed oggi… finalmente! Se ne sentiva il bisogno. E si sentiva
il bisogno di avere una grande firma; un architetto vero. E
quale è il più vero di tutti se non quello che
ha progettato il “monumento dei monumenti” contemporaneo,
le due nuove torri di New York negli Stati Uniti d’America.
“È un progetto che lascerà un segno nella
storia” (dice il presidente della Fiera di Milano), è
la dimostrazione del nuovo rinascimento lombardo (sostengono
il presidente della Regione e il sindaco della Città).
Certo, tre grattacieli di 218, 185 e 170 metri, ovvero il doppio
del Duomo e del grattacielo Pirelli, lasceranno il segno.
E forse sarà così forte da fare dimenticare, nel
tempo, la speculazione che ha motivato lo spostamento della
fiera, gli enormi profitti derivanti dalla rivalutazione delle
aree e dalla costruzione e vendita degli edifici e forse sarà
così forte da fare dimenticare questo atto di sudditanza
culturale verso un modello assolutamente estraneo alla cultura
del nostro paese e forse, ma forse, sarà così
forte da fare dimenticare quest’omaggio ignorante al progettista
prescelto ed alle idee demagogiche e populiste che egli si pregia
di interpretare.
Fuori tema
Intorno al problema della clonazione hanno espresso parere
in tanti. “Ci risiamo – è l’incipit
dell’articolo di U. Galimberti su di un quotidiano del
12 agosto a proposito della clonazione umana – con i progressi
della scienza e l’impaccio dell’etica che, nell’età
della tecnica, diventa pat-etica, perché si trova ad
affrontare i problemi che i suoi principi, formulati in epoca
pre-tecnologica, non avevano assolutamente previsto”.
La ricerca sulle clonazioni, così come tutte le ricerche
sostenute da interessi economici e militari, vanno avanti per
la loro strada indipendentemente dalle seppur interessanti riflessioni.
Nessuno a noi, perfidi, ci può rassicurare che alcuni
gruppi di ricerca meno appariscenti abbiano già fatto
l’inimmaginabile.
La ricerca ci pone di fronte a dei problemi, oggi etici vista
la sperimentalità delle attività, che in futuro
diverranno etici e pratici (pensate alla sola possibilità
di scegliere di clonare Pio duodecimo piuttosto che Giovanni
vigesimoterzo) che non possono essere solo interpretati/constatati
ma sui quali va espressa una effettiva e concreta opposizione.
Ed allora non appare sufficiente l’elaborazione di Galimberti
(“Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo che
non siano punti occasionali, l’etica del viandante, che
non conosce il suo avvenire, può essere il punto di riferimento
di un’umanità a cui la tecnica ha consegnato un
futuro imprevedibile, e che quindi non può riferirsi
alle etiche antiche, la cui normatività guardava al futuro
come a una ripresa del passato, perché il tempo era iscritto
nella stabilità dell’ordine naturale”) quando
la ricerca è in mano a ricercatori di profitti che usano
strumentalmente tecnici e scienziati che non hanno consapevolezza
di quello che scaturirà dal loro agire, che non si chiedono
chi e come utilizzerà i loro prodotti, e che per la loro
deresponsabilizzazione, nonostante sostengano il contrario,
non hanno quale obiettivo del loro lavoro il benessere dell’umanità.
A meno di voler partecipare a quell’esteso dibattito internazionale
su etica e tecnica, costruito volutamente “fuori tema”
quasi a rassicurare l’umanità del fatto che la
ricerca si pone dei problemi che esulano l’interesse per
i profitti.
Dubbi
È capitato di acquisire un numero del 1995 di Controspazio,
storica rivista di architettura, contenente una monografia sulla
struttura della Fiat (SATA) di Menfi.
Diversi articoli, un frullato di frasi di cui si estrapolano
a titolo esemplificativo alcune di quelle che riguardano le
relazioni con l’ambiente: “lo spazio dell’industria
è, al contrario, il risultato di molti saperi, di molte
gerarchie…”; “il progetto di Melfi fotografa
un momento storico in cui l’impatto ambientale come rapporto
con il sito (fisico e antropizzato), diventa “vincolo”,
ma anche “materia” del progetto, quasi misurando
il tempo e le sue ironie, in un luogo che non è molto
distante dai Sassi di Matera (diverse decine di chilometri N.d.R.)
e dalle sue utopie comunitarie”; “dalla distesa
delle colline e dei campi in cui è collocato il complesso,
ai prati e alle aiuole che circondano gli edifici…tutto
concorre a definire una sensazione di spazio disponibile”;
“è però da sottolineare che la realizzazione
ottimale dell’inserimento nell’ambiente richiede
interventi di infrastrutturazione, strade ferrovie, trasporti…”;
“il gigante “fabbrica” perde la sua aggressività
potenziale nel confronto con il sistema collinare che lo affronta,
si fa collina esso stesso, anzi altopiano, piccolo acrocoro
trae dall’ambiente naturale, ma anche dei piccoli manufatti
rurali di antica tradizione, il proprio colore”.
Ora, lasciando da parte il commento sul linguaggio aulico-confuso
tipico dei critici dell’architettura, considerando comunque
la “marchetta”, ipotizzando pure una limitata conoscenza
tecnica-terminologica delle questioni ambientali, il dubbio
che ci si pone è: ma gli estensori degli articoli hanno
mai visto i centinaia di migliaia di metri cubi costruiti in
un’area industriale di quattro chilometri per tre, inserita
in una vasta vallata senza insediamenti senza porre alcuna attenzione
al paesaggio, agli ecosistemi, alle qualità ambientali
e sociali presenti cancellando tutti i segni e le morfologie
del territorio?
Ed un altro: i nostri contemporanei vedono il mondo a questa
maniera, senza alcuna capacità di giudizio critico, o
lo fanno solo in alcune preoccupanti condizioni?
Passato
Il passato è una gran cosa. Tranquil-lizzante perché
se ne conoscono gli esiti, commovente per quel suo struggere
sulle tragedie e sui luoghi, stabile perché nel ritornarvi
non si è modificato, disponibile alle infinite variazioni
degli stati d’animo della contemporaneità.
Il passato è anche il luogo di certo estraneo alle logiche
imperanti; non che non sia stato governato da logiche altrettanto
brutali, ma sono state comunque diverse.
Può essere il luogo di modelli sociali, insediativi,
comportamentali non più praticati e che spesso mostrano
potenzialità che, se perseguite, avrebbero portato altrove.
Il passato è quindi anche il luogo del futuro possibile
di un diverso essere.
È in sintesi un altro territorio non governato da medesimi
criteri del modello globale. In un mondo uniformato dal mercato
al modello unico il passato appare come la Polinesia per Gauguin.
Ma il passato non è solo uno spazio mentale. Vi sono
ancora luoghi che sono ritenuti vivere nel passato, piccoli
luoghi che molti, seppur involontariamente, partecipano a mantenere.
Sono luoghi della quotidianità, della parola, della riflessione,
della pratica artigianale e sono luoghi geografici che per caso,
per scelta, per necessità non rispecchiano completamente
i dettami diffusi.
La società contemporanea ha mostrato un grande interesse
per il futuro. È stato ed è territorio di conquista
di tutti i fabbricanti di merci, è lo scenario inventato
e fittizio per sostenere la vendita di prodotti, è una
dimensione oggi saldamente in mano al mercato e molto ma molto
lontana dal desiderio degli individui.
Ogni definizione diversa del futuro di quella che viene definita
dal modello assume valenze di antico, di permanenza del passato.
Il futuro del modello non mantiene nulla del passato, mentre
il futuro degli uomini non può che mantenere modalità
che con l’uomo hanno a che fare e quindi con il suo passato.
In tale maniera il passato è il carattere fondativo di
un modello di futuro lontano da quello che il modello diffuso
tende a praticare.
Il passato, e non la vetero nostalgia, è il luogo del
presente che si oppone alle soluzioni praticate.
Tutti al mare
Mi è recentemente capitato di trovarmi su di un autostrada
toscana una domenica di luglio.
Sulla corsia che dall’interno porta verso il mare una
fila di autoveicoli in leggero movimento: trenta, quaranta chilometri
di fila.
Tutti al mare. Ore di fila in autostrada, ore per cercare parcheggio
e ombrelloni, spiagge affollate, ristoro costoso e stracolmo,
mare inquinato, ore di fila per tornare.
Conosco questi posti dagli anni cinquanta: non c’era l’autostrada,
non si andava al mare ogni fine settimana.
Nei giorni festivi ci si riuniva al fresco di alberi, con bevande,
chiacchiere, rimproveri delle madri, giochi [al di là
di una diffusa indigenza] in luoghi piacevoli, noti, affettuosi.
Quasi certamente il principale meccanismo che “costringe”
le persone a soddisfarsi nell’andare al mare nelle suddette
condizioni, negando pregiudizialmente ogni possibilità
a trovare benessere nello stare è la qualità delle
residenze.
Orribili. Orribili proprio in quei caratteri che le rendevano
piacevoli.
Palazzine o case con giardinetti, tutte con molti bagni, molti
spazi coperti, con nessun rapporto con la natura e con una capacità
propria di ridurre le relazioni tra gli individui.
Del resto le abitazioni sono così anche perché
il fine settimana si può scappare da esse.
Adriano Paolella
antiglo@mclink.it
La prima puntata di questa rubrica, dedicata
a “Energia e comunità”,
è stata pubblicata sul n. 295 di “A” (dicembre
2003-04). La seconda, dedicata a “Governi,
comunità, mutamenti climatici”, è stata
pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La terza, “Deindustrializzarsi”,
è stata pubblicata nel n. 298 (aprile 2004). La quarta
puntata, “Fuori”, è
stata pubblicata sul n. 301 (estate 2004).
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